sabato 17 febbraio 2024

Gina Berriault

Le luci della terra si perdono nel confronto del mare perché restano avvolte in una fitta nebbia di ricordi incontrollabili, rimpianti che proliferano come fantasmi, nessuna alternativa se non un falò in riva all’oceano, e va male pure quello. Gina Berriault segue personaggi “incapaci di comprendere il mondo e ostinati al modo in cui bisognava immaginarselo”: le loro relazioni sono claudicanti e faticose e il più delle volte sono tutti sull’orlo di una crisi di nervi, con una vocazione al suicidio, neanche tanto velata. Sono obnubilati da quello che chiamano“il presagio della perdita”, il senso latente di essere abbandonati che non li lascia mai. Ilona Lewis, più di tutti, è rimasta sola: il fratello, Albert, si è trasferito a Chicago e la figlia Antonia è in viaggio sull’Himalaya. Le lettere sono scambi di parti vitali, ma non sortiscono particolari effetti mentre Ilona, convinta che “dietro l’incertezza dell’amore c’è la certezza della complicità”, insegue Martin Vandersen, amante e scrittore che sta vivendo il breve abbaglio della notorietà e un bel momento di confusione indotto dalla provvisoria fama. A dire il vero, sono tutti scrittori (anche Ilona) a diversi gradi di disperazione. Per dire, Claud, un altro amico fragile, “ogni volta che trovava il libro di uno dei suoi scrittori preferiti a casa di qualcun altro provava una fitta di gelosia, come se lo scrittore fosse stato solo suo, il suo amico più caro”. Poi ci sono Jerome, che dopo anni di tribolazioni decide di distruggere il suo manoscritto, e la stessa Ilona che nell’insistere con Martin, crede che “la felicità degli amanti era realtà, e l’immaginazione non le si avvicinava nemmeno”. Le luci della terra è un breve romanzo imperlato di dolore, ma con una consapevolezza intima della sofferenza e delle difficoltà che le persone devono superare per avvicinarsi veramente, e conoscersi. La scrittura raffinata e superiore di Gina Berriault, fatta di frasi precise e taglienti, è spietata con tutti i suoi personaggi e se impone un confronto complesso è perché “chiunque ci guidi più a fondo nell’essenza delle cose all’inizio pare un nemico”. Non si fanno sconti: anche delle innocue campane a vento portano ricordi brutali e la sincerità resta l’ultima spiaggia, almeno per Ilona: “Se ho dei problemi, e ne ho, sono di quel genere che va bene avere, perché sono umana e provo sentimenti, e quei problemi non riguardano solo me, riguardano molte altre cose più grandi di me”. Le luci della terra testimoniano passaggi delicati nella cornice di San Francisco e della costa californiana, finché Ilona non è costretta a raccogliere le spoglie del fratello a Chicago. La tragedia in sé è “un senso di vergogna per la paura della perdita e per la perdita che di fatto avevano subito” e quando lei, e Claud, e Martin si accorgono che un abbandono “era naturale quanto il respiro”, è troppo tardi e la somma di solitudini trasforma Le luci della terra in un labirinto esistenziale che Gina Berriault sa architettare con grande equilibrio, ma anche con un calore inaspettato. Molto lo si deve al carattere di Ilona che riesce ad ammettere con un certo candore: “Se chini la testa per tanti anni sull’infinità di ciò che non sai, sull’immaginazione che è il sostituto del sapere, rimarrai sorpresa quando la rialzerai, scoprendoti più vecchia di quando avevi iniziato”. È il limite implicito di un’ossessione che “si esaurisce da sola o esaurisce la sua preda”, lasciando in eredità soltanto qualche traccia sulla battigia e le scintille di un libro che brucia da solo.

giovedì 15 febbraio 2024

Lou Berney

In Libra, il romanzo che Don DeLillo ha dedicato a Lee Harvey Oswald, un personaggio definisce l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy “un’aberrazione nel cuore della realtà”. November Road comincia da quel fatidico e irrisolto momento della storia americana, travolta dal fatto che, come scrive Lou Berney, tutti, da lì in poi,“temevano un futuro incerto. Temevano che la loro vita non sarebbe più stata la stessa”. Se questo vale per la gente comune che si è trovata di fronte a quel varco con le immagini in bianco e nero della televisione, figurarsi per chi è stato parte della macchinazione che ha cambiato il destino di un’intera nazione. Rovistando in libertà negli annali storici, Lou Berney sceglie un punto di vista insolito, svicolando dalle verità ufficiali e trovando i suoi protagonisti nell’ombra. Primo fra tutti, Frank Guidry, un luogotenente di Carlos Marcello, imperatore indiscusso della mafia americana dell’epoca: ha portato una macchina a Dallas e ci mette meno di un secondo a capire che i suoi giorni sono contati. Ogni cospirazione che si rispetti prevede il taglio dei rami secchi, perché i mandanti rimangano occulti e al sicuro per il resto della vita. L’eliminazione del nemico è solo la parte più appariscente e pericolosa, l’ondata di angoscia è dovuta al fatto che l’organizzazione di Carlos Marcello è ramificata e spietata. Per Frank Guidry, le opzioni sono limitate e la fuga s’impone con urgenza. Lo scenario di November Road è vasto in apparenza perché comprende un bel pezzo di America, da New Orleans a Los Angeles passando per Las Vegas, ma limitato dalle pareti delle camere di motel e, ancora di più, dagli abitacoli delle automobili, dove avviene gran parte della storia. È una lotta per la sopravvivenza che Lou Berney sa gestire con il dono della chiarezza e della semplicità, facendo risaltare le limitate opportunità dei criminali e l’ottusità delle loro scelte. Ciò diventa ancora più evidente quando Frank Guidry incontra Charlotte, che è quanto di più distante da quel milieu. Lei è in fuga (con le figlie, Joan e Rosemary, e il cane Lucky) da un matrimonio asfissiante e l’incrocio dei loro destini dipende dall’idea che “non c’era bisogno che qualcuno ti predicesse il futuro se potevi creartelo da solo”. In November Road, l’autosuggestione è l’elemento per cui tutti si convincono che hanno ancora una possibilità, compreso Paul Barone, il killer sguinzagliato per eliminare testimoni e pedine sacrificabili che si lascia alle spalle un’infinita scia di sangue. L’inseguimento non ha tregua e il ritmo è dettato dal jazz (Art Pepper, John Coltrane, Miles Davis) e dalle evenienze e dagli incidenti on the road: Lou Berney usa il romanzo (noir) per mostrare come il complotto si autoalimenta, moltiplicandosi senza controllo. I suoi personaggi sono in balia delle loro stesse scelte perché è vero che “con ogni decisione creiamo un nuovo futuro. E distruggiamo tutti gli altri futuri”, ma, come un effetto collaterale imprevisto, la sensazione di insicurezza è un’ombra pesante come un sudario intriso di paura. Diceva Don DeLillo: “La gente ha sviluppato l’impressione che la storia sia stata segretamente manipolata. Documentazione persa e distrutta. Documenti ufficiali sigillati per cinquanta o settantacinque anni. Una quantità di omicidi strani e suicidi che hanno coinvolto persone implicate nei fatti del 22 novembre. Così, a partire dallo shock iniziale, istintivo, credo che abbiamo sviluppato un sentimento molto più profondo di inquietudine per la nostra mancanza di controllo sulla realtà”. November Road lo racconta in modo più prosaico, mettendo un fotogramma dopo l’altro: una telefonata, la pioggia sulla strada, una sigaretta che si accende, l’apparizione di un’arma, una portiera che si apre, un bagagliaio che si chiude, una finestra sul deserto, capolinea.

giovedì 8 febbraio 2024

Greil Marcus

Fin dalla descrizione di Light My Fire, è evidente che Greil Marcus non è uno che semplifica, anzi, tende ad aggrovigliare le storie e, non a caso, cita a lungo Vizio di forma di Thomas Pynchon e Great Jones Street di Don DeLillo, due romanzi già abbastanza tortuosi, per introdurre i Doors. Ci sta perché sono creature particolari anche per la cultura pop che “è paesaggio e cambio di stagioni, guerra e pace, abbattimento di foreste e costruzione di città, ritorno alle religioni e panico morale, benessere e povertà, avventura e scoperta, cittadinanza ed esilio”. Di questo passo si arriva in un baleno a Charles Manson, ma all’inizio c’è soltanto Elvis, una bella ossessione per Greil Marcus, e non solo: “Come tanti prima e dopo di lui, Jim Morrison era consapevole che Elvis Presley aveva qualcosa che nessun altro avrebbe mai avuto, e che lui desiderava raggiungere nella maniera più appassionata, più misteriosa e meno ovvia possibile; e questo non era un segreto”. Quell’aura irraggiungibile veniva da una mutazione più ampia e profonda e, secondo Greil Marcus, “in questo scenario, i Doors erano una presenza. Erano una band che la gente sentiva di dover vedere, non per imparare, scoprire, ascoltare un messaggio o conoscere la verità, ma per essere al cospetto di un gruppo di persone che sembravano accettare il momento presente per quello che era. Nel loro comportamento generale, accigliati, non un rock’n’roll beffardo ma un’esibizione impastata di sfiducia e dubbio, non promettevano un lieto fine. Le loro canzoni migliori dicevano che il lieto fine non era interessante, e che era immeritato”. C’erano soltanto loro e i Velvet, sull’altra costa, a New York, a mettere un’ipoteca sul futuro e su questo non c’è il minimo dubbio, però le ricche deduzioni di Greil Marcus riescono a superare i luoghi comuni e ci mostrano qualcosa in più: “In certi momenti nella musica migliore dei Doors, prendiamo per esempio l’ultimo e inesorabilmente lento e tranquillo minuto di The End, puoi sentire una persona credere che quello che ha da dire valga il tempo che gli altri si prendono per ascoltarla. Poi tutto svanisce; quella persona abbandona il palco per non tornare più”. Il tempo, in effetti, è l’ossessione del breve lustro dei Doors, ma Greil Marcus procede come se seguisse una spirale, nemmeno tanto ordinata, che passa in continuazione da un piccolo particolare a una panoramica sterminata: “L’eco di quel momento sospeso è un enorme silenzio palpitante, l’esplosione con cui non finisce il mondo, e questo fu, per alcuni, precisamente come sentirono il mondo dopo la fine dell’esibizione, l’esibizione del concerto, l’esibizione dei tempi”. Coincide in gran parte, come non poteva essere diversamente, con un’accorata analisi degli anni Sessanta, dove Greil Marcus si spende con generosità per trovare qualcosa di originale da ribadire su quel periodo storico: “Questo è ciò  che fa paura: il concetto che gli anni Sessanta non furono un periodo grandioso, semplice e romantico da vendere agli altri come un bel posto da ammirare, ma un posto nell’esatto momento in cui viene creato, dove la gente sa che non potrà mai abitare, e che sa non potrà nemmeno abbandonare”. Le digressioni e le iperboli di Greil Marcus sono temerarie e spesso distanti dai Doors: parla di architettura, cronaca, politica, sviluppa un’ardita connessione tra Eduardo Paolozzi e Chuck Berry, all’interno di una deviazione più ampia sulla pop art che si conclude così: “Dimentica l’arte. Tu sei un salame. Io sono un salame. Il mondo è carne”. Detto questo, quando si attiene al tema principale, non sbaglia mai bersaglio: “Se la musica con cui si presentavano i Doors diceva qualcosa, diceva che non stava scherzando. C’era una serietà di intenti a suo modo eccitante. C’era una sorta di consapevolezza sulle conseguenze: passare attraverso i drammi interpretati in The Doors significava correre un rischio, uno solo; una volta uscito potevi non essere più lo stesso. Questo era ciò che voleva la gente; questo era quello che sperava; questo era quello che ascoltavano. Quella promessa seducente era tutto ciò che ascoltavano”. Per Greil Marcus è proprio in quell’attimo che prende forma il fenomeno per cui “ciò che è destinato a scomparire è destinato a durare, dice la sfida pop a chiunque tema il pop, ma ciò che è certo è che cambierà il principio secondo il quale si presume che alcune cose siano fatte per durare e altre per essere dimenticate”. La contorsione va presa così com’è e non c’è risposta se non nel fatto che “il più delle volte ci ritroviamo arenati nella storia che va avanti senza di noi, incapaci di uccidere in noi stessi il concetto che le cose possano migliorare, o essere solamente differenti e più vive di quello che sono”. I Doors e Jim Morrison in particolare avevano immaginato e visto “il presagio che il futuro, un futuro vicino, conteneva storie che nessuno immaginava di voler ascoltare, che la gente non avrebbe potuto ignorare, che avrebbero tenuto le persone sveglie, preoccupate per ogni piccolo strano rumore, terrorizzate e disgustate dalle loro stesse fantasie”. Arrivati lì in fondo, tra tutte le erudite acrobazie di Greil Marcus, il collegamento tra Strange Days e Blade Runner appare più innato che spontaneo, e da solo spiega quanto i Doors fossero proiettati in una dimensione inesplorata.

giovedì 1 febbraio 2024

Rachel Carson

Avviso ai naviganti: Il mare intorno a noi è un intenso concentrato di geografia, biologia, meteorologia, geologia, astronomia e un’altra mezza dozzina di materie scientifiche che Rachel Carson assembla e attraversa con sublime nonchalance. Le sue esplorazioni marine partono dagli abissi e dagli “oscuri inizi” del nostro pianeta, quando i fondali oceanici hanno avuto un ruolo determinante nella creazione della vita, animale e vegetale. Rachel Carson dimostra di sapere gestire un soggetto, quello del mare, che non è soltanto fluttuante, e in gran parte irraggiungibile, ma è naturalmente collegato a una miriade di fenomeni, che influenza e a sua volta subisce. Il vento, le precipitazioni, gli elementi in generale, i fiumi e le eruzioni vulcaniche, nonché l’azione dell’uomo contribuiscono a una mutazione senza fine. L’eccezionale capacità di Rachel Carson nelle spiegazioni della complessità dell’erosione e della salinità, dell’estinzione di intere specie, dei modelli di navigazione e delle derive dei continenti, del mistero dei canyon sottomarini o della formazione degli tsunami rende Il mare attorno a noi un viaggio affascinante e magnetico. Le descrizioni sono ricchissime ed entusiaste e portano a scoprire che i sedimenti delle dorsali sottomarine sono il libro della memoria della terra così come le isole apparse all’improvviso e poi perdute per sempre, da Atlantide a Krakatoa, sono gli effetti di un globo instabile e precario. Basterebbe l’esposizione con cui chiarisce la configurazione delle maree rispetto alla triangolazione tra terra, luna, e sole, ma poi bisogna districarsi tra globigerine e radiolari, la riproduzione del grunion e le abitudini dei calamari, le saghe norrente e i commerci mediterranei, gli ecosistemi nelle isole, l’evoluzione della specie e la “biografia” delle onde che la Carson racconta così: “Non vi è dunque acqua che appartenga interamente al Pacifico o interamente all’Atlantico o all’Oceano Indiano o all’Antartico. Le onde che oggi ci rallegrano a Virginia Beach o a La Jolla, anni prima possono aver lambito la base di un iceberg antartico o aver brillato nel sole del Mediterraneo, prima di spostarsi attraverso le buie e invisibili vie dell’acqua fino al luogo dove oggi le troviamo. Sono le profonde e nascoste correnti quelle che fanno un tutt’uno degli oceani”. Razionale e poetica nello stesso tempo, la sua è una circumnavigazione degli oceani, seguendo le correnti e le scie di navigatori ed esploratori che risalgono a secoli e secoli fa, compresi Coleridge, Melville, Poe, Darwin, Conrad. Le tracce nella storia aiutano Rachel Carson a collocare il mare nell’arco temporale della presenza umana, ma la sua indagine si inoltra alle origini della terra, e non lo nasconde: “La più sicura promessa risiede però probabilmente nel sottile pulviscolo di vita che rimane nelle acque superficiali, costituito dalle invisibili spore delle diatomee, alle quali non occorrono che il tocco del tiepido sole e i prodotti chimici fertilizzatori per rinnovare la magia della primavera”. Il vero tema che affiora è nell’interazione tra gli esseri viventi e gli eventi climatici che vede Il mare intorno a noi come se fosse uno sterminato laboratorio open air e la sua analisi mette in un angolo i luoghi comuni sul riscaldamento globale. Non lo nega, anzi lo intuisce e lo conferma (già nel 1961) ma lo colloca in una dimensione più ampia che peraltro non esclude sia l’anticipo di una glaciazione, come peraltro in molti hanno ribadito spesso dopo di lei, compreso, tra gli altri, Kary Mullis. La meraviglia e lo stupore che la distinguono non le impediscono di sottolineare i rischi ambientali rispetto alle esigenze umane, che rimangono piuttosto limitate, se non proprio distruttive. Questo Rachel Carson lo dice subito nelle primissime pagine, perché poi, pur suggerendo un’infinità di stimoli, con uno stile unico, arriva a condividere con umiltà, quella “sensazione dell’ignoto e dell’arcano che non si scinde mai completamente dal mare”. Una lezione magistrale.