mercoledì 28 dicembre 2016

Amanda Petrusich

Più che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica. I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo. “La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica (molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock, ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni, identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non funziona, ma quando funziona, è grande.

martedì 27 dicembre 2016

Tom Wolfe

Partendo dall’idea che il linguaggio è “una linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato “l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi, considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura, anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi, centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett, già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto. L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure, aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi, speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione: “E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente, l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale: sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era più che sufficiente.

sabato 24 dicembre 2016

Jim Harrison

L’espressione dei personaggi è il cuore delle storie di Jim Harrison e Vento di passioni, per via della metamorfosi in film di Leggende d’autunno (che resta il titolo originale della raccolta, poi modificato per ovvi motivi), è diventato il suo libro più fortunato, ma resta anche uno dei più espliciti e rappresentativi nel mostrare l’aderenza agli sviluppi delle sue creature. Nei racconti Jim Harrison è proprio uno storyteller nudo e crudo: lascia quel minimo indispensabile di spazio ai dialoghi (più che altro in Vendetta) e va a collegare le narrazioni con una voce diretta, come se fosse il commento a “una sorta di déjà vu permanente”. Una modalità che non chiede alter ego, intermediari o altri escamotage: Jim Harrison si limita ad allineare “i fatti puri e semplici, un concetto che usiamo volentieri quando cerchiamo di sfuggire alle paludi, in cui più o meno s’invischiano le nostre esistenze” e il lettore, più che affrontare le pagine, deve ascoltarle. Leggende d’autunno è un racconto che sfoggia una delle specialità ricorrenti nei menù di Jim Harrison, la saga familiare. Nello svolgere l’albero genealogico dei Ludlow, che occupa più di un secolo, serpeggia l’elemento della vendetta, e anche se “in fin dei conti la gente non ama farsi troppe domande, soprattutto quelle spinose che riguardano l’evidente assenza di un sistema equo di ricompense e di punizioni sulla terra”, per il protagonista, Tristan è un desiderio sufficiente e rivelatore. Leggende d’autunno ha la forma spudorata del soggetto cinematografico, senza un dialogo che sia uno, eppure in grado avvinghiare il lettore alla pagina, come l’anaconda comprata da Tristan si è attorcigliata all’albero maestro della sua nave e a cui hanno dovuto offrire un maialino per farla scendere, e questo aneddoto è Jim Harrison al cubo. A riprova che “uno stato di grazia non è mai solo” anche il secondo capitolo di Vento di passioni trova uno tra i più memorabili dei suoi personaggi tormentati dal passato, circondati e definiti dalle rispettive figure femminili, sempre sul confine tra un cambiamento e l’altro. Una situazione delicata e volubile perché, come direbbe Nordstrom alias L’uomo che rinunciò al suo nome, “la cosa più frustrante per un uomo che desidera cambiare la propria vita è l’improbabilità stessa del cambiamento”. Nordstrom che, in un’ideale galleria antologica dei suoi protagonisti, occuperebbe di sicuro una posizione centrale, balla da solo ascoltando i Dead e Otis Redding, è “un amante abbastanza esperto da preferire l’atto alla sua conclusione”, si divide tra la moglie (ormai ex) e la figlia, affrontando i resti spaventosi del mondo con un aplomb tutto suo, cucinando, stappando costose bottiglie di vino e pensando, un’attività non così scontata. A concludere l’ideale trilogia di Vento di passioni è Cochran, già pilota di un cacciabombardiere abbattuto nel Laos, che si trova in Messico “quasi divertito della propria circospezione, da quella volontà di sopravvivere a qualsiasi cosa fosse in grado di capire consapevolmente. Al momento non si sentiva nemmeno di rimpiangere il modo in cui aveva sprecato, una dopo l’altra, le varie occasioni che la vita gli aveva offerto. I rimpianti lo annoiavano e la sola energia che gli rimaneva quella notte era concentrata nello sforzo di capire come tutto ciò fosse potuto accadere: un’ambizione meccanica, a dir tanto”. Quello che c’è da sapere è tutto qui e lui, Nordstrom e Tristan sembrano lo stesso personaggio tradotto e sfumato da Jim Harrison in tre interpretazioni. Pur essendo molto differenti, i protagonisti di Vento di passioni si avvicendano su personalità con una notevole definizione, un carattere indomabile e nello stesso tempo portato all’introspezione e in fondo, degni esemplari del fatto che “ognuno desidera una parte di mistero nella propria vita, ma rari sono coloro che fanno qualcosa per meritarlo”. Da riscoprire.

mercoledì 21 dicembre 2016

James Ellroy

Un vortice di personaggi dentro una pozzanghera nera chiamata Los Angeles (l’inizio e la fine di tutto) che poi si allarga verso Chicago, Las Vegas, Miami, un’ombra chesi allunga la storia fosca degli Stati Uniti nei Caraibi dove pare abbiano trovato il cuore di tenebra e la linea d’ombra, insieme di quella che è (in effetti) un’idea distopica dell’America. Pur non essendo un romanzo storico, Il sangue è randagio collima e incastra fatti e cronache e se in quegli anni torbidi il leitmotiv era legato alla consapevolezza, leggendo James Ellroy si capisce che nessuno era consapevole di ciò che sta accadendo. E’ il 1968, la parola chiave è collusione e per favorire prima l’ascesa e poi la conferma di Nixon, prende forma una folle, convinta e ambigua volontà di assemblare piani, trame e operazioni segrete. Uno dopo l’altro, tutti confezionano, conservano, collezionano dossier per proteggersi, per attaccare, per difendersi e con la scusa che “per il dissenso c’è un prezzo da pagare”, li usano per contrastare le proteste contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili. Attorno a quelle attività illegali, prolifera un mondo parallelo, oscuro e spietato che si nutre dell’ipocrisia e della corruzione come elementi principali della miscela di una società predatoria e convinta fino al midollo che il razzismo, non soltanto verso i negri, ma con tutti, possa essere il collante di una nazione. Compresi gli oggetti stessi che sono al centro degli intrighi e delle macchinazioni di Il sangue è randagio: la distribuzione dell’eroina nei ghetti delle metropoli americane, gli interventi a Haiti e nella Repubblica Dominicana sono un parte considerevole dei gironi infernali in cui James Ellroy immerge il lettore, senza possibilità di appello. Una volta partito, Il sangue è randagio è impossibile fermarlo: nel suo vortice immaginifico, e nello stesso tempo ancorato alla realtà (peraltro ormai convalidata da tutte le analisi storiche) le contorsioni del potere, le sue assurdità, le sue maschere prendono le sembianze di spie addestrate al doppio e triplo gioco, infiltrati, informatori, delatori, spacciatori, mercenari, agenti, investigatori, femme fatale. L’elenco dei nomi è infinito e costituisce una sorta di romanzo nel romanzo perché ognuno è “l’anello di congiunzione tra causa ed effetto”, una connessione dove, il più delle volte, il risultato è la morte, ovvero l’omicidio, di qualcun altro. Le moltitudini di personaggi attraversano Il sangue è randagio come una piaga biblica, e cercando “di creare un’adeguata convergenza ed elaborare un’ipotesi credibile”. macinano, sbriciolano, devastano senza concedere nulla, senza correggere gli appetiti. La voracità è insaziabile, cannibale e suicida, ma anche cosciente del suo infausto destino, quando qualcuno ammette che “eravamo innocenti, allora. Adesso tutto il mondo ci odia”. Non è facile tenere testa a James Ellroy perché è animato da una ben strana generosità, nel senso che non risparmia niente, scruta nelle ombre, non cede mai alla tentazione di censurarsi e abbonda con i punti di vista anche se, in definitiva, quello che conta è soltanto uno, il suo. Non spiega, non racconta: trascina dentro un flusso inarrestabile,  tanto è vero che, un po’ per gli additivi, un po’ per i riti voodoo, nell’accellerazione finale Il sangue è randagio si inoltra in una Dimensione onirica, e si trasforma in un gorgo allucinante. E’ la citazione Hellhound On My Trail di Robert Johnson a spiegare che Il sangue è randagio è una corsa letale nella decadenza dove caos e ordine tendono a sovrapporsi, a confondersi, a scambiarsi di ruolo rivelando un ritratto magniloquente del potere, nelle sue manipolazioni delle persone, dei fatti, delle informazioni, della realtà e della storia. Il delirio delle macchinazioni è tale da assumere vita propria e più il turbinio di alcol, droghe, torture, omicidi, furti, fughe, notti insonni si fa minaccioso e più il ritmo diventa via via furioso, il linguaggio scarno e brutale, le frasi spezzate senza pietà. James Ellroy è come i suoi “killer-a-distanza-ravvicinata”. Scotenna il lettore.

lunedì 19 dicembre 2016

Rick Moody

Ci voleva il Nobel a Dylan per ricordarlo urbi et orbi, ma Rick Moody l’aveva già capito con Musica celestiale che “la letteratura, come la musica, vuole apertura, vuole esperienze, vuole presa di coscienza e emozioni, e vuole esprimere tutto questo con accuratezza e con dolcezza”. Una richiesta espressa in modo perfetto, anche quando i temi sono tra i più disparati: in Musica celestiale trovano posto le note scritte per i Wilco, il diario agrodolce di Due settimane al campo musicale, il capitolo dedicato a New York per la Rock’n’Roll High School di Little Steven, ovvero L’underground di New York 1965-1988, gli omaggi ai Pogues e ai Lounge Lizards. Anche se tesa a condividere “visione storica, immaginazione, brama culturale, e passioni e debolezze molto umane”, la dimensione è colloquiale, per cui il tono funziona sempre e la voce di Rick Moody, più che le sue analisi (che comunque sono accurate e documentate), risulta essere il collante ideale per rendere coerente e uniforme una composizione in realtà molto eterogenea. Contenuta da due estremi opposti e sovrapponibili: cool e underground sono le parole d’ordine che comprimono tutto quello che c’è dentro la Musica celestiale, i tempi e i rituali, le epifanie e le interpretazioni, gli alti e i bassi perché, come si premura di ricordare Rick Moody, “nella vita capita di toccare il cielo con un dito e di capire quanto sia importante quell’istante, ma poi ci si sveglia e ci si rende conto di avere ancora molta strada da fare. Oppure: tutte le cose giungono alla loro conclusione, specie la sensazione che la tua giovinezza sia stata memorabile; questa sensazione si affievolisce, gli occhi luminosi della giovinezza si velano di oscurità, tutto quel danzare attorno a certe colonne sonore di quegli anni finisce, e ti trovi a passare da un lavoro incompiuto a un altro e a cercare di tenere i creditori a bada. Arrivano più bollette che lettere d’amore”. La sfida ai luoghi comuni non è del tutto convincente, rimangono in sospeso La questione del declino o quella dei Piaceri inconfessabili, la musica come rifugio e come hobby, così come Rick Moody alterna fiction fiction e filosofia, narrativa e autobiografia, restando in bilico tra il racconto della sua esperienza e dell’esperienza in sé. Non a caso, I frammenti di Pete Townshend è forse il capitolo che rappresenta uno snodo, anche nella sua forma assemblata di più parti, perché Rick Moody sembra riflettersi, magari in modo involontario e spontaneo, nella tormentata personalità del chitarrista degli Who. Se non altro, Musica celestiale non cede alla tentazione di azzerare gli orologi o di cancellare una storia quando è chiaro che “questa musica del passato ci offre un rinnovato accesso alle nostre antiche percezioni e emozioni, e quindi con ogni probabilità c’è un che di intrinsecamente nostalgico nel piacere inconfessabile (benché ritenga la parola nostalgia inadeguata in questo contesto: sarebbe come dire che tutta l’opera di Proust ruota attorno alla nostalgia per un dolce). Ma se la musica riesce a dar voce a emozioni che altrimenti rimarrebbero inespresse, questa non è forse una ragione sufficiente per considerarla valida e importante?” Il senso più intimo e profonda della Musica celestiale è proprio nella risposta di Rick Moody quando dice che “la memoria è difettosa, costellata di errori, trasuda desiderio, eppure interagisce con la musica in modo duttile; come il jazz, la memoria è imprevedibile, e offre ai musicisti qualcosa su cui puntare, così come offre agli scrittori qualcosa su cui scrivere”. La definizione rimane quella, l’entusiasmo resta intatto ed esplicito quando viene così condensato e sollecitato: “Prendete il controllo del vostro splendido linguaggio. Mettete in funzione il vostro gergo alchemico. Rimescolate il vostro slang. Suonate i vostri innumerevoli fiati. Suonate bene. Suonate con sentimento”. L’esortazione, molto Beat Generation, in coda all’introduzione della Musica celestiale, è ambivalente e si può leggere anche al contrario visto che, come ribadisce Rick Moody, “la letteratura, pur manifestandosi sulla pagina, è un fenomeno acustico”. Ecco perché, tra l’altro, il Nobel è andato dove è andato.

martedì 13 dicembre 2016

Walt Whitman

Negli anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln, Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”. Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali, incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione, e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata, non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”. L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie: ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre lì, ancora più grande, ancora più evidente.

mercoledì 7 dicembre 2016

Denis Johnson

Mostri che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze, “la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001, ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando “correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio. Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni, ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione. L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte, e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger, portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione, prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che non ha più nulla di umano.

domenica 4 dicembre 2016

Hart Crane

Daniel Mark Epstein chiama i versi di Hart Crane “assalti alla logica” ed è una definizione ben allineata a quella di Waldo Frank che a sua volta li inquadrava in “una superba espressione del caos”. Non c'è alcun dubbio che la poesia di Hart Crane sia un Giardino astratto, popolato da immagini e associazioni forti ed eccentriche che mettono in rilievo le parole, le levigano e le lasciano libere di mutare “cavalcando spontaneità che formano le loro orbite indipendenti”, come dice un verso in Le mele della domenica mattina. Le forme sono sempre ingombranti (Harold Bloom parla di “complessità”, e per dirlo lui), ma l’insistenza del ritmo è feroce, non lascia scampo, è tambureggiante, ed è piena di svolte, come avviene in Chaplinesque. Se all'inizio, “noi docilmente ci adattiamo, contenti di quelle fortuite consolazioni che il vento depone in tasche sfondate e troppo grandi”, poi il poeta e la sua poesia ci conducono a un livello superiore dove “il gioco impone compiacenti sorrisi; ma noi abbiamo visto la luna in vicoli solitari fare di un bidone vuoto dei rifiuti un fulgido graal di risate, e fra tutti i suoni della gaiezza e della ricerca, abbiamo sentito un gattino nella desolazione”. Se si segue con attenzione la cadenza, è facile intuire la stessa avvolgente natura del jazz che Hart Crane riassumeva nella meravigliosa percezione degli “ipnotismi di ottone”, poi particolareggiati in “mille piccoli sobbalzi ci bilanciano in mezzo a minacciosi soprassalti di melodia, ombre bianche scivolano sul pavimento, disseminate come carte aperte da una mano fiacca; ritmiche ellissi ci portano al galoppo in un qualche luogo con un gallo insolente”. Le destinazioni finali restano sempre un'incognita e un discorso a parte meritano i Viaggi compresi alla fine di White Buildings. Sono uno dei momenti più alti ed evoluti della poesia di Hart Crane, che qui si intreccia inevitabilmente con la sua umanità, come ricorda Harold Bloom: “I Viaggi sono poesie di intenso appagamento erotico ambientate nel Mar dei Caraibi, dove Hart Crane aveva trascorso le estati insieme alla nonna, sull’isola dei Pini, sin da quando aveva quindici anni. Proprio in queste acque il poeta, ormai trentaduenne, di ritorno a a New York dopo essersi mantenuto per lungo tempo a Città del Messico con la borsa di studio Guggenheim, cadde in depressione e si annegò”. Per questo i versi del secondo movimento, quando Hart Crane dice che “il sonno, la morte, il desiderio, sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia”, sempre secondo Harold Bloom hanno “l’autorevolezza di una profezia”. Questa proiezione, la visione dentro e oltre il tempo, è una proprietà che appartiene a tutta la poesia di Hart Crane e se serve un punto di riferimento, tra tutte le liriche di White Buildings, forse lo si può scovare in Leggenda: “Silenziose come si crede uno specchio, le realtà affondano nel silenzio vicino. Non sono pronto al pentimento; né a misurare rimpianti. Perché la falena non piega nulla più che la fiamma, ancora implorante. E tremuli, fra i bianchi fiocchi cadenti, sono i baci, l’unica verità che vale tutto. Questo va appreso, questo scindere e questo bruciare, ma solo quelli che ancora si consumano”. Follia e ragione possono aspettare in un angolo, il tempo, almeno qui, è dettato dal mistero della musica e della poesia.

giovedì 1 dicembre 2016

Flannery O'Connor

Al di là dei racconti selezionati con La schiena di Parker (e tra gli altri alcuni classici come Un brav’uomo è difficile da trovareIl fiumeLa vita che salvi può essere la tua o Non si può essere più poveri che da morti), questa selezione ha il pregio di annoverare alcuni frammenti di notevole valore tratti da Il territorio del diavolo e soprattutto una piccola campionatura delle lettere di Flannery O’Connor che rivelano un rigore nella formazione delle riflessioni poi espresse con un tono tagliente. La predisposizione a separare (a incidere) nettamente a dividere gli aspetti più superficiali della scrittura (dell’arte in generale) sono evidenti in Natura e scopo della narrativa dove Flannery O’Connor si dimostra una grande teorica e trova sempre il modo di puntualizzare la sua visione senza paura di prendere posizione, per esempio sparando ad alzo zero sulla didattica perché “vogliamo l’abilità ma, da sola, è mortale. Necessaria è la visione che l’accompagna e non la otterrete da un corso di scrittura”. Il territorio della narrativa è sempre “qualcosa da desiderare”, e questo vale anche per tutti: “C’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, al fine di offrire a chi cade la possibilità di risorgere. Il lettore di oggi, anche giustamente, cerca questo processo, ma ne ha dimenticato il prezzo. Il suo senso del male è diluito o manca completamente, e così ha dimenticato il prezzo del riscatto. Quando legge un romanzo vuole il tormento dei sensi o l’elevazione dello spirito. Vuole essere trasportato all’istante in una finta dannazione o in una finta innocenza”. Nessuno sconto né ai principianti, né all’accademia: “Ovunque vada mi chiedono se, secondo me, le università soffocano gli scrittori. Il mio parere è che non ne soffocano abbastanza. Con un buon insegnante più di un best-seller si sarebbe potuto prevenire”. La distanza è ancora più evidente nelle lettere dove Flannery O'Connor mostra una verve impagabile. Essendo già autocritica a sufficienza, di fronte a un'analisi tutta imperniata sugli aspetti gotici della sua scrittura risponde:“Mi fa sorridere vedere le mie storie descritte come storie dell’orrore perché il recensore ha sempre un senso dell’orrore sbagliato”. Più in là, in un'altra corrispondenza sembra, rincarando la dose in modo ruspante e senza inibizioni: “Il senso morale è stato geneticamente estirpato da certe categorie di popolazione così come geneticamente sono state fatte nascere galline senza ali per ricavarne più carne. La nostra è una generazione di galline senza ali che suppongono sia stato quello che Nietzsche intendeva dire quando disse che Dio era morto”. Non le sfugge nulla: nel campo della fede (cattolica), un tema su cui non teme di spendersi con generosità riesce a inventarsi un'acrobazia linguistica al limite del paradosso (se non oltre) quando dice: “Trovo ragionevole credere, sebbene queste credenze siano al di là della ragione”. Quella di Flannery O'Connor è una voce inconfondibile e la sua unicità è tale che, fatte salve le diverse prospettive, non si intravedono differenze tra il tono dei racconti, dei saggi o delle lettere, a conferma dell'idea che “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere narrativa”, e così sia.