Negli
anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln,
Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i
moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie
degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla
secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una
nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad
affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni
sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata
alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e
i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna
voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si
sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”.
Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla
tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a
corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali
meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più
grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali,
incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto
forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è
mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel
momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non
sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi
di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La
speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale
americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato
umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la
modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della
compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt
Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in
gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità
inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di
questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non
dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore
assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle
circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non
nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle
divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione,
e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi
confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non
parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La
retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata,
non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e
secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro
l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il
popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi
e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati
superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere
d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e
illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente
sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman
avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie
politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham
Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto
bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come
se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio
sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi
cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando
misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei
governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al
protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di
vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”.
L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è
nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie:
ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di
Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le
storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre
lì, ancora più grande, ancora più evidente.
Nessun commento:
Posta un commento