martedì 30 dicembre 2014

Harry Crews

Gli effetti dell’arrivo di Too Much nel villaggio di roulotte e caravan chiamato Vita Serena sono quelli di una reazione chimica: come iniettare una massa adrenalina impazzita in un cuore addormentato. L’imprevedibilità di Celebration s’impenna pulsazione dopo pulsazione, anche per via della peculiare condizione degli ospiti. Vita Serena è occupato da anziani che vagano come ombre, e sappiamo bene che non è un paese (e nemmeno un mondo) per vecchi. La routine  è parecchio modesta e a Vita Serena vige una calma piatta, grigia e crepuscolare ovvero “come diceva Janis Joplin: altro giorno, stessa merda”. E’ una palude in cui le vite sono sospese tra un nulla e l’altro. Too Much è il sasso che increspa la superficie dell’acqua e appare incontenibile perché parte dal presupposto che “il tempo è passato e ha rovinato questo. Il tempo è passato e ha rovinato quello. Il tempo è una cagata. E la morte è una cagata finché non muori”. Il primo ad esserne affascinato e poi travolto è Stump alias Bubba, un reduce della guerra di Corea, mutilato, che gestisce il Vita Serena e che adotta Too Much, quando si presenta sulla sua soglia. Too Much è poco più di una bambina  che si manifesta con tutta se stessa, a partire dal corpo. L’espressione della fisicità, e della sessualità, uno dei temi ricorrenti dei romanzi di Harry Crews, è il preludio all’escalation di mosse che portano Too Much a ribaltare il tran tran di Vita Serena, cominciando un modo molto (molto) creativo di usare il moncherino di Stump.   Tutto perché secondo Too Much “la noia era imperdonabile in un mondo in cui esisteva palesemente la possibilità dell’occasione assoluta”. Non è chiaro cosa rappresenti quest’ultima definizione, ma è proprio attraverso la propagazione dell’idea di una “possibilità dell’occasione assoluta” che il parcheggio è attraversato da una serie di miracoli, non tutti destinati a un lieto fine, perché “le vie convergenti del caso” (indispensabile corollario della “possibilità dell’occasione assoluta”) non sono così logiche. Johnson Meechum, che passava le giornate sparando nel fango, riscopre la moglie Mabel, Justice abbandona alle ortiche la servizievole identità da pronipote di schiavi e riscopre il passato prossimo di pugile e Ted Johanson, passati gli ottant’anni, ricorda di essere stato un boscaiolo capace di arrampicarsi sulla cima degli alberi e tutti tornano a rivelare le proprie arti e mestieri, dal falegname al borseggiatore. Con la sua esuberanza, Too Much manipola e indirizza e sprona, ma è come se soffiasse un ultimo alito di vita. Un concentrato esplosivo per gli anziani di Vita Serena, che si riscoprono ancora vivi, vegeti e utili ed è quello il problema perché “il mondo sa che cosa fare del dolore. Non ha mai saputo che cosa fare della felicità e dell’esultanza”. Episodio dopo episodio, Celebration si evolve come una specie di situation comedy urticante e sarcastica. Non è né bello né comodo: è sgraziato e contorto ma ha anche un fascino particolare nell’immaginare la metamorfosi di tutto un microcosmo di loser. Come direbbe Too Much: “Un tantino crudo, magari, ma onesto che di più non si può”. Proprio così. 

sabato 27 dicembre 2014

T. C. Boyle

Gli amici degli animali si contendono la difesa dei fragili ecosistemi delle Channels Islands, al largo della California. Dave LaJoy è un attivista antipatico e insopportabile, ma è nel giusto perché si fa guidare da un solo comandamento: non uccidere. Alma è politically correct, ma nei suoi interventi di conservazione e/o ripristino c’è l’ambiguità della supponenza di poter decidere il destino degli eventi naturali con strumenti artificiali, se non proprio artificiosi. Il contrasto emotivo tra i protagonisti pare una semplificazione, ma l’ordine delle cose non è così: c’è molta della condizione isterica del nostro mondo che Gli amici degli animali interpretano, come se i tentativi, opposti e speculari,  con cui cercano di ripristinare il caos appartengano più ad una dimensione empirica che scientifica, amplificata dalla particolare cornice insulare e marina. Come scriveva Judith Schalansky nel bellissimo Atlante delle isole remote: “L’isola appare un mondo sé stante, ancora allo stato naturale originario, come il paradiso prima del peccato originale, impudico ma innocente”. L’introduzione naturale o artificiale (quale che essa sia) di una specie, implica il rischio, l’eventualità, più che probabile, di una trasformazione repentina della vita, di un ribaltamento della catena alimentare. E’ la storia (vera) del boiga irregularis, che introduce il tema corrente tra Gli amici degli animali: è una bella creatura di tre metri che, arrivata in modo fortuito sull’isola di Guam, si è moltiplicata per tre milioni e mezzo di esemplari, trasformando l’isola in un nido di serpenti. Il dilemma della sovrappopolazione e della convivenza (e della sopravvivenz)a di forme di vita diverse sullo stesso, limitato pianeta è il nocciolo degli scontri che Gli amici degli animali sovrappongono a battaglie di ego insaziabili. E’ una storia dei nostri giorni, una storia paradossale, volendo, che racconta i pericolosi malintesi che si accumulano nel convulso rapporto tra l’uomo e la natura (o il suo consumo). L’idea al centro del corto circuito, che il genere umano possa decidere di vita o morte su tutti, si rivela in modo diverso e drammatico sia ad Alma che a Dave LaJoy e T. C. Boyle è molto lucido nel far capire che, in realtà, l’unico deus ex machina è il caso. Gli amici degli animali è avvincente nel ritmo, essenziale nella scrittura, molto pertinente e urgente nel rivelare le contorsioni del genere umano di fronte ai processi naturali, come se T. C. Boyle avesse letto La natura delle cose nel De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro: “Vediamo che la natura, nel dissolvere i corpi, libera i vari elementi ma non li distrugge: se no tutto potrebbe cessare all’istante di esistere se contenesse in se stesso qualche elemento mortale non occorrendo che giunga una forza a dividere le parti di cui si compone e a disfarne la trama”. Come diceva T. C. Boyle in un’intervista: “Io penso che tra 50 anni andrà a finire come raccontava Cormac McCarthy con La strada. Noi mangeremo tutto e quando non ci sarà più nulla, ci mangeremo l’un l’altro. Ma il mio piano, personalmente, è morire. Questo è come affronto la questione”. Non è l’unico omaggio a un grande scrittore che riserva T. C. Boyle: Gli amici degli animali cela anche un tributo per La fiera dei serpenti di Harry Crews utile a comprenderne il finale, beffardo e perfetto. 

martedì 23 dicembre 2014

Don DeLillo

Si può leggere La stella di Ratner come un’inconcludente teoria di scrittura, fine a se stessa: un’elaborazione infinita del rapporto (non del tutto improbabile) tra lettere e numeri, visto che lo stesso Don DeLillo ha ammesso di aver “provato a scrivere un romanzo che non solo avesse la matematica tra i suoi argomenti, ma che, in un certo senso, fosse esso stesso matematica. Doveva incarnare un modello, un ordine, un’armonia: che in fondo è uno dei tradizionali obiettivi della matematica pura”. Il sistema è solo un’apparenza, un abbaglio o un miraggio: La stella di Ratner ha piuttosto le sembianze di un tema jazzistico su cui piovono improvvisazioni, interludi e incognite assortite. La trama è sintetizzata, ormai a metà del romanzo, dallo stesso DonDeLillo: “L’ombra dell’era matematica moderna prese a stagliarsi sulle pareti imbiancate suppergiù in contemporanea con il manifestarsi dello spirito della ghigliottina, turbando i sogni di un esile fanciullo che in seguito si sarebbe distinto per precisione, sgomberando con maestria il flusso regolare dell’analisi di tante incertezze”. Si chiama Billy Twillig e sarà il genio principale di una cosmopolita task-force incaricata di decifrare un messaggio proveniente dai dintorni della stella di Ratner. Endor vive in un buco e mangia larve, Hoad arriva in elicottero, Otmar Poebbels è il suo superiore ed è seguito in ordine sparso da Simeone Goldfloss, Desilu Espy, Harouh Farad, Kidder, LoQuadro, Mutuka alias Gerald Pence, Hoy Hing Toy e poi Celeste Dessau, U.F.O. Schwarz, Shirl Trumpy, Viverrine Gentian, Rahda Hamadyad, Armand Verbene, Siba Isten-Esru fino a contrazioni come Grbk o Troxl. La lunga trafila di nomi, più che di personaggi con identità vere e proprie è una sequenza linguistica parallela al corso aritmetico e algebrico. Con tutti loro (visto che “i nomi raccontano storie”), Don DeLillo mette il piccolo “mago dei numeri” al centro di un labirinto narrativo. Una folle danza di parole che comprende “una modalità di esistenza subidiotica” piuttosto che “un’indagine sui composti silfizzanti esoionici” o una non meglio identificata “repressione analogica ideativa”. Un rumore bianco di perversa ironia: più ci si addentra nell’underworld della strampalata comunità scientifica che cerca di decifrare il messaggio alieno e più è evidente il ruolo (provocatorio) dei giocatori. A partire da Don DeLillo “in orbita” (la definizione è usa) con la rivoluzione che compie La stella di Ratner attorno ai suoi romanzi: in fondo, è il frutto di “uno spionaggio poetico praticato dai sensi per contrastare il sospetto di vuoto che alberga in noi riguardo all’esistenza stessa”. Marshall McLuhan, una decina d’anni prima che La stella di Ratner apparisse all’orizzonte, diceva che “il medium è il messaggio”. Don DeLillo sostiene che “forse non esiste alcun messaggio” e tutto quello che facciamo “in realtà, è imporre i nostri limiti concettuali a un argomento impossibile da concludere entro i confini delle nostre conoscenze attuali. Ci parliamo intorno. Emettiamo suoni al fine di rassicurarci. Tentiamo di sbucciare i sassi”. Quanto agli extraterrestri, siamo sicuri che Don DeLillo è sempre d’accordo con il famoso parere Arthur C. Clarke: “La miglior prova dell’esistenza di forme di vita intelligente nello spazio cosmico è il fatto che non sono mai venute da noi”. Un paradosso, ma nemmeno tanto. 

domenica 21 dicembre 2014

William Carlos Williams

Paterson è una città cresciuta per accumulo, nell’arco di vent’anni, dal 1946 (anche se le sue radici arrivano fino al 1926) al 1963, un work in progress che William Carlos Williams ha sviluppato partendo da un’ipotesi quasi matematica nella sua dimostrazione: “Cerca il nulla, sbaraglia il tutto, l’N di tutte le equazioni, quella roccia, il vuoto, che le sostiene, una volta strappato via, la roccia è la loro caduta. Cerca quel nulla, che sta oltre ogni visione, la morte di ogni cosa che sta oltre, oltre ogni essere”. Tutto comincia con le domeniche d’estate a Paterson, New Jersey,  le conversazioni open air, il pulviscolo sfuggente della quotidianità, la semplicità di una passeggiata sotto gli alberi. La realtà rientra nelle parole in modi misteriosi e, come scrive Octavio Paz, i versi di William Carlos Williams sono “fiori immaginari che operano sulla realtà, ponti istantanei tra gli uomini e le cose. Ed è così che il poeta fa del mondo un luogo vivibile”. L’edificazione di Paterson procede fluttuando nel tempo visto che la città “un luogo è fatto di ricordi al pari del mondo che lo circonda” e coincide con “la fantasia che non si può scandagliare”. William Carlos Williams avanza senza esitazioni: non cerca la “sporca argilla”, vuole il “prodotto finito”, la pietra d’angolo su cui innalzare un tempio degno della capitale di un sogno, di un’idea, di una rivoluzione. Il genio sta nell’abbandono, nell’inseguire un miraggio, in fondo, nell’estrema consapevole per cui “noi non sappiamo nulla, salviamo la danza: il ritmo è tutto ciò che abbiamo”. La materia prima, la parola, ricostruisce sulle fondamenta di Paterson “l’affinità tra la mente dell’uomo moderno e una città”. E’ una svolta epocale del ventesimo secolo: nell’interpretazione di William Carlos Williams “un uomo in sé è una città e inizia, cerca, realizza e conclude la sua vita in modi personificabili nei vari aspetti di una città”, e nessuno, come lui, ha tradotto in poesia questa simbiosi. Come una marea, Paterson avanza e scompare, mostra e nasconde, parte e ritorna rispondendo a quella sensazione “anfibia” che, secondo Octavio Paz “unisce e allo stesso tempo ci separa dalle cose. E’ la porta attraverso cui entriamo nelle cose ma anche uscendo dalla quale facciamo nostra l’idea che noi stessi cose non siamo. Perché la sensazione lasci il passo all’oggettività delle cose essa deve a sua volta trasformarsi in oggettività. Il linguaggio è l’agente di questa trasformazione: le sensazioni diventano oggetti verbali. Una poesia è dunque un oggetto verbale, fusione di due proprietà tra loro in contraddizione: la vitalità delle sensazioni e l’oggettività delle cose”. Paterson è quello, è tutto proprio perché, come scrive William Carlos Williams, “tratti via dalle strade noi rompiamo la clausura della mente e siamo presi dal vento dei libri, cercando, cercando nel vento, finché non sappiamo più quale sia il vento quale il potere del vento su di noi che porta la mente lontano”. Da leggere, rileggere, consultare come un vocabolario magico.

mercoledì 17 dicembre 2014

Greil Marcus

Attorno a Like A Rolling Stone, una delle canzoni più famose e importanti della storia del rock’n’roll, Greil Marcus ricostruisce la storia dei personaggi, delle svolte e degli eventi che portarono alla sua incisione e che seguirono la sua pubblicazione, nel 1965. L’inquadratura è dichiarata fin dalle primissime pagine dove Greil Marcus dice che in quel preciso momento “la corsa non era solo tra i Beatles, Bob Dylan e i Rolling Stones e chiunque altro. Il mondo del pop era in gara con un mondo più vasto, il mondo delle guerre e delle elezioni, il lavoro e lo svago, i poveri e i ricchi, i bianchi e i neri, le donne e gli uomini: nel 1965 potevi sentire che il mondo del pop stava vincendo”. I crocevia di cui si parla in Like A Rolling Stone, oltre a richiamare l’enigma di Robert Johnson, illustrano meglio le svolte affrontate da Bob Dylan nel e dal 1965. E’ attorno a quell’anno che maturano alcune delle scelte, molti imprevisti e altrettante decisioni che cambieranno la storia della sua vita, ma anche quella del rock’n’roll. In questo Like A Rolling Stone è fedele al concetto espresso da Greil Marcus nella parte centrale dove dice che “la canzone è un suono, ma prima di questo è una storia. Ma non è un’unica storia”. Diventa allora il cardine attorno al quale ruota tutto l’immaginario pubblico e giovanile (ma non solo) di un’intera epoca e come tale assume un valore universale perché, come scrive Jann Wenner “riguarda il crescere, scoprire quello che succede intorno a te, realizzare che la vita non è affatto quella che ti è stata raccontata”. La ricostruzione è certosina perché gli snodi di Like A Rolling Stone, proprio come nella canzone, sono tanti e importanti. Tra gli antefatti vanno elencati la crisi dei missili di Cuba nel 1962 (il mondo sull’orlo dell’apocalisse già evocato da un profetico Bob Dylan in A Hard Rain’s A-Gonna Fall) e l’assassinio di JFK concentrati nella bellissima epigrafe di Allen Ginsberg. Tuoni e fulmini che Like A Rolling Stone invocava e superava perché come scrive ancora Greil Marcus “c’erano rabbia e paura, alla fine venivano lasciate alle spalle dalla vera e propria euforia dell’avventura che la canzone prometteva. Adesso non c’è alcuna promessa e la rabbia e la paura sono l’unica moneta di cui si fida. Ma i frammenti di quella vecchia euforia sono ancora presenti, come accade per il desiderio di uccidere il passato eliminando chiunque ne indossi il volto, una vecchia amante, un vecchio amico, te stesso. La tempesta di Like A Rolling Stone, la tempesta che fa piazza pulita di ciò che è familiare e rivela un migliaio di strade, è ora una tempesta di pura distruzione, ma la brama che conduce il cantante verso la tempesta è la stessa”. In appendice, c’è una dettagliatissima rivisitazione delle session che portarono a Like A Rolling Stone, take dopo take. Tra questi due estremi, Greil Marcus, più divulgativo e meno intricato che altrove, riesce ad illustrare con chiarezza perché, in quel preciso momento storico “nessuno ascoltava la musica alla radio come se facesse parte di una realtà separata”, ovvero dove hanno portato quei crossroads che Dylan, e con lui tutto un mondo, si trovò davanti.

venerdì 12 dicembre 2014

Jason Starr

Richard Segal e la moglie Paula sono due giovani in carriera nella frenesia workaholic di New York, scenario perfetto per mettere in luce il confronto quotidiano con realtà ossessive e il minimo comune denominatore che le unisce nell’incapacità di comunicare. Lei ha appena ottenuto una promozione, ed è integrata alla perfezione, compresa la visita settimanale dall’analista. Lui, che è un esperto venditore di software e altri derivati informatici, sta attraversando un periodo negativo dovuto al trasferimento in una nuova azienda e ad un’oscura ferita che emerge dal passato. “Lo scopo del gioco è vincere” scrive Jason Starr e quando la vita è dominata dalla competitività, in ufficio come a letto, in strada come sul campo da tennis, le ambizioni e le frustrazioni viaggiano insieme, inestricabili. La pressione, che pare mutuata dalla stessa architettura di New York, è opprimente per tutti figurarsi all’interno di un matrimonio di per sé già traballante. Le dinamiche della coppia, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, lei in trincea di giorno e di notte, lui con una vocazione irrisolta all’alcol, diventano il motore torbido della storia. Insieme, Paul e Richie sembrano il trionfo della noia. Separati, sono, nello stesso tempo, mine vaganti e bersagli mobili. La tensione è costante, a tratti insopportabile, una violenza che cova nell’alveo degli uffici open space, dei debiti accumulati sulle carte di credito, di una vita sempre un po’ oltre i limiti, tra il sogno dell’ufficio d’angolo con panorama su Central Park e l’incubo della destinazione più temuta, un anonimo cubicolo in mezzo a milioni di altri. Richie ci arriverà, per poi risollevarsi quando deciderà di affrontare le ombre degli abusi che ha subito da bambino. I Cattivi pensieri a Manhattan lì prendono una parabola spietata e il romanzo, nella sua brevità, diventa durissimo e tagliente. Jason Starr non perde tempo, la sua lingua è limitata ed essenziale, molto realistica (fin troppo) e senza contorni moraleggianti: i personaggi si muovono veloci nel disperato tentativo di restare a galla, non altro. L’impressione di averli già visti con le bugie, i sotterfugi, gli inganni con cui sopravvivere alla ragnatela di New York, è forte. Come i loro simili in Chiamate a freddo o in Piccoli delitti del cazzo, Jason Starr li trascina verso il fondo, con la velocità di un videoclip. Scena dopo scena, pagina dopo pagina, la spirale di Cattivi pensieri a Manhattan si fa sempre più stretta e se è evidente fin dalle prime battute che né Paula né Richie hanno scampo, poco importa perché per Jason Starr esiste soltanto il ritmo tambureggiante, i dialoghi sferzanti, le frasi tagliate a colpi d’accetta, i rapporti umani circondati da un’ombra livida e senza speranza. Non c’è via d’uscita, e il vagabondare di Richie è soltanto il riflesso di un’identità che non riesce più ad afferrare e tappa dopo tappa, stazione dopo stazione, il suo downtown train giunge al capolinea. Si legge in una sera e fa pensare per due settimane.

martedì 9 dicembre 2014

Donna Tartt

Travolto dalle esplosioni di un attentato in un museo di New York, Theo Decker perde la madre e salva un piccolo quadro, Il cardellino, a cui si aggrappa come se fosse l’ultimo appiglio sulla terra. Succede tutto con “il brivido di una connessione interrotta, i secondi sul marciapiede come un singulto del tempo perduto, la manciata di fotogrammi tagliati di un film”, poi Theo viene ospitato dalla famiglia del suo amico Andy, i Barbour che, con i loro modi aristocratici, cercano di aiutarlo, per quanto possibile perché Theo è cosciente di ciò che è successo e “di sicuro non urlavo di dolore né prendevo a pugni le finestre, né facevo alcuna delle cose che uno si sentiva come me avrebbe potuto fare. Eppure a volte, senza preavviso, il dolore m’investiva a ondate, lasciandomi boccheggiante; e quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla morte”. Nella prima parte (e in particolare nello svolgersi del rapporto tra Theo e la madre) Il cardellino è davvero da Pulitzer, poi, come se l’onda d’urto delle bombe, cominciasse a rimbalzare, trascina la storia in un vortice di volti e suggestioni: Hobie, l’artigiano e l’antiquario che sembra in grado di sopportare tutto, persino la morte, il padre Larry e Xandra, Boris, Hart Crane, i Beatles, Bob Dylan. Dal suo approdo Las Vegas, “un enorme fanculo a Thoreau”, Il cardellino si accumula, si addensa, non si risolve, e il più delle volte è ridondante, come se Donna Tartt non fosse così sicura della corretta sequenza delle frasi, delle immagini e delle scene, e dovesse ripetersi, più di una volta. Arrivati a metà si prosegue per capire, giusto per curiosità, come andrà a finire. Donna Tartt, se non altro, ha la grazia di una scrittura accattivante e ben organizzata, agevole e pop, una sorta di Stephen King (peraltro nascosto in un paio di citazioni) senza l’elemento fantastico. Nella seconda parte, Il cardellino è assalito dai colpi di scena che si susseguono a ritmo tambureggiante, non sempre coerente, e si tinge anche di una sfumatura noir, non del tutto appropriata. In questo passaggio non si può svelare di più, per le ovvie ragioni legate alla trama e ai suoi sviluppi, ma l’epilogo è contorto, anche se tra le righe Donna Tartt spiega che “è questo che fanno tutti i veri maestri. Rembrandt. Velásquez. L’ultimo Tiziano. Giocano. Si divertono. Costruiscono l’illusione... Ma appena ti avvicini un po’, ecco che il trucco si svela e appaiono i segni del pennello. Astratti, ultraterreni. Una bellezza diversa e molto, molto più profonda. La cosa in sé e il suo contrario”. Se si prendono le dovute misure, Il cardellino si rivela un romanzo che procede per tentativi, uno strato sopra l’altro: non sempre i contorni coincidono e rimangono nella cornice. E’ un bel soufflé, forse lievitato un po’ troppo: se è vero che “tutto ciò che ha davvero valore rappresenta una scommessa”, è altrettanto ovvio che in un labirinto di ottocento pagine non sia facile trovare la soluzione.

mercoledì 3 dicembre 2014

Charles Bukowski

Taccuino di un vecchio sporcaccione raccoglie le rubriche che Charles Bukowski tenne su una rivista undeground, a partire dal 1967. Una condizione ideale, tanto per cominciare: “Non c’erano pressioni di nessun tipo. Bastava semplicemente mettersi a sedere vicino alla finestra, alzare la lattina di birra e lasciare che il pezzo venisse fuori da solo. Tutto quello che doveva arrivare, arrivava”. Settimana dopo settimana, il Taccuino di un vecchio sporcaccione cresce grezzo, risoluto, spontaneo perché Bukowski è proprio nel suo elemento naturale, quello autobiografico, senza altro recinto. L’elenco delle possibilità e delle opportunità è elementare: “Pensateci anche voi: totale libertà di scrivere qualsiasi cosa che vi passi per la testa. Io mi ci sono divertito, mi sono anche fatto dei problemi, qualche volta; ma soprattutto mi è sembrato di capire che, col passare delle settimane, i pezzi venissero fuori sempre meglio”. Nella felice confusione del suo taccuino, il Buk tiene insieme Satchmo e T. S. Eliot, un effervescente ritratto di Jack (Kerouac) & Neal (Cassady) attraverso uno strambo flusso di coscienza. Molto musicale nell’appuntare le vicende quotidiane di cavalli di razza e corse sconclusionate, donne e uomini che si inseguono, “party girls & broken poets” per dirla con Elliott Murphy, sullo sfondo di una città aperta tutta la notte. I frammenti del Taccuino di uno sporcaccione si agganciano uno all’altro, anche in modo disordinato e senza soluzione di continuità, comprese le licenze igieniche necessarie: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un libro, quel che gli pare e trascurano il resto, ma quel che gli serve è quel che in realtà non gli serve mentre trascurano quel che gli servirebbe maggiormente, insomma tutto ciò mi consente di eseguire le mie piccole sante variazioni e nessuno mi disturberebbe se venissero comprese, ma in questo caso non ci sarebbero più creatori, ci troveremmo tutti nello stesso paiolo di merda. Nella situazione attuale io mi trovo nel mio paiolo di merda e loro nel loro, penso che il mio puzzi di meno”. Non manca la classica autoassoluzione bukowskiana, che collima con il paesaggio umano raccolto sul Taccuino di un vecchio sporcaccione: “Io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare”. Partendo da sé, Bukowski condivide una sorta di infinita apologia generale con gli outsider, con gli eterni sconfitti (“E per pessimi che fossimo eravamo la fine del mondo”), con i cronici inconcludenti, con i recalcitranti. Il suo Taccuino di un vecchio sporcaccione diventa un trionfo verboso e incontinente, caotico e sarcastico nello stesso tempo, come nella migliore tradizione bukowskiana. La percezione, a livello epidermico, è di una specie di ritmo che, anche nelle scadenze di una modesta rivista underground, diventa persino una filosofia di vita, che poi è quella di sempre: “Non potevo far altro che scolare la lattina di birra e aspettare che cadesse l’atomica”.