domenica 29 novembre 2015

Pedro Pietri

Diceva Miguel Algarín: “Il poeta vede la propria funzione come quella di un trovatore. Narra alle strade il racconto delle strade”. Era proprio quello il ruolo principale di Pedro Pietri, solo che lo interpretava a modo suo, seguendo l’istinto più di tutto, e restando incollato a quel proposito che ripeteva sempre: “Non voglio parlare di quello che succede nella vita reale perché allora finirei per mentire”. Ne parlava, eccome, e l’umanità degli scarafaggi e delle cause perse di Pedro Pietri si rivela, poesia dopo poesia, una visione eccentrica, eppure stimolante, non addomesticata, incorreggibile. La sua lingua è inafferrabile, tambureggiante, un modello di carta vetrata che la poesia e l’America non hanno più in catalogo. Basta una piccola selezione delle sue Cabine telefoniche, schizzi di vita quotidiana nelle strade di New York e impressioni di un artista fuori servizio, come si descriveva nella Cabina telefonica 972: “Quando non sono in giro e qualcuno giura d’avermi visto nel periodo in cui non mi sono visto io (quel che faccio allora è andare di filato a casa per sognare a occhi aperti d’essere in qualche altro posto) finché diventa una noia e accendo le luci spegnendole”. A volte sono frammenti di dialoghi a cui manca l’esatta metà, avvisi ai naviganti di relazioni claudicanti come il messaggio della Cabina telefonica 580: “Non ci sarò per colazione come ti avevo promesso ma tu non starci troppo male prendi le ciambelle incollale al soffitto e quando ti vien fame fatti un paio di salti”. Ancora di più, quello della Cabina telefonica 801, un calembour che ben rappresenta i coloriti toni di Pedro Pietri: “No certo che no non guardo un uomo come guarderei una donna c’è una bella differenza in un caso mi tira da matti nell’altro no, ma non ti dico qual è l’uno e qual è l’altro, se vuoi proprio saperlo comincia a toglierti qualcosa”. Se il primo strato appare luccicante, per via dei riflessi di quell’ironia brillante e tagliente, sbucciando i versi emerge davvero lo spirito del troubadour, la lucidità dei sognatori indefessi, dei fuggitivi, dei bardi imprigionati nelle mura delle metropoli, New York nel caso specifico. Il luogo, la terra di nessuno è proprio quella, come scriveva in Intermezzo da lunedì: “Devo lasciare la città, quando quel che vedi è quel che vedi e quel che non vedi non vedi e l’immaginazione è classificata come bagaglio eccedente all’aeroporto dove cornici per quadri sono cornici per quadri e le code si allungano sempre di più per biglietti di prima classe su uno scaffale dove un poeta è diventato poeta agli occhi di tutti tranne che ai suoi”. Quel retrogusto amaro e malinconico, complementare all’irrequieta voce di Pedro Pietri si rivela in Una poesia senza titolo (che, a ben guardare, c’è un motivo anche in quest’assenza) quando dice: “Non ho progetti per oggi o domani, i muri son già stati scrutati per bene. Ogni cosa è compresa incompresa, riesco solo a pianificare il passato di questi giorni”. Se ne è andato dieci anni fa, e il suo epitaffio potrebbe coincidere benissimo con la conclusione di Biglietto d’addio d’uno scarafaggio suicida in un complesso popolare: “Addio, mondo crudele, ne ho abbastanza di prenderlo in quel posto a causa delle tue parole incrociate. Non ci sarò quando cadrà la bomba, inoltra la mia corrispondenza alla tua coscienza, quando ne rimedi una”. 

domenica 22 novembre 2015

Kurt Vonnegut

Le Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa: “L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi, quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione, garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili, inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto, lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi, proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà, poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos, quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse, magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente, sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere gravemente alla salute.

giovedì 19 novembre 2015

Kent Haruf

Diceva tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy, si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco, nel Canto della pianura c’è la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf come una ballata country & western, diciamo Alone And Forsaken di Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto della pianura è fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più, nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale (perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto della pianura sta proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra, nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli sei accanto. Lo senti, il Canto della pianura. Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti, complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda. Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa, inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota di brio nei loro passaggi in Canto della pianura, ma l’effetto benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori, mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.

lunedì 16 novembre 2015

Wallace Stevens

Le ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il mondo come meditazione suonano come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento, saluto e arrivederci. E’ vero che “una poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte considerare Il mondo come meditazione implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne del New England, quando “il modo della persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via dell’autobus, perché “siamo esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto, essendo fatta di parole che “sono insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel sapere interpretare Il senso ordinario delle cose o Il corso di un particolare, ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il fiume dei fiumi in Connecticut (“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”, iniziando con La regione novembre (“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano, ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione in Il mondo come meditazione quando scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La vela di Ulisse (“Non è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi, quasi con un tono colloquiale, in L’uomo malato, firmando un toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio, le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”. Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso, secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non resta altro, come diceva qualche anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.

lunedì 9 novembre 2015

Benjamin Franklin

La Cronaca di un massacro di indiani è un pamphlet di Benjamin Franklin che rilegge un episodio della vita lungo la frontiera negli anni precedenti l'inizio della guerra d'indipendenza americana. Siamo nel 1763 quando i Paxton Boys, una pattuglia di coloni di origini irlandesi, massacra un manipolo di indiani Conestoga, senza alcun motivo apparente. Le notizie dell'epoca riportano un eccidio efferato, ma di dimensioni numeriche ridotte, rispetto a scontri, guerre e guerriglie ben più disastrosi. Solo che la strage avviene in un contesto politico già squilibrato, su linee di confine, fragili e limitate che non riescono più a definire con qualche margine di sicurezza i rapporti tra i nativi, i coloni e gli inglesi. Le terrificanti scorribande dei Paxton Boys non sono casuali: c'è un metodo nella concatenazione dei loro assalti che si nutre del rifiuto delle leggi e degli accordi e dell'apologia della violenza come strumento per regolare la vita (e la morte) nella wilderness. Le motivazioni hanno sottili connotazioni economiche e politiche che un altro testimone, il predicatore John Woolman spiegava così: “La gente di frontiera tra cui tale male è così diffuso, è spesso povera, e si avventura oltre i confini di una colonia per poter vivere in maniera più indipendente da coloro che possiedono la ricchezza, i quali spesso fanno pagare alti canoni d'affitto per le loro terre”. Questa reazione a catena, sulle basi dello sfruttamento della terra e degli uomini, lascia intravedere nelle gesta dei Paxton Boys i germi della rivolta che porterà alla guerra d'indipendenza. Le parole del pamphlet di Benjamin Franklin lasciano intendere che quello è un solco ben preciso nella genesi della nazione americana. Quello che contempla non è soltanto la condanna, logica e spontanea, del massacro di civili inermi e delle dinamiche in cui è maturato. Mette in evidenza anche la debolezza delle istituzioni, del diritto, delle colonie, persino della conoscenza dei nativi e delle terre che abitano. In un pamphlet successivo, quando già gli Stati Uniti erano diventati una realtà, Benjamin Franklin scrivevrà: "Chiamiamo selvaggi questi popoli perché i loro costumi sono diversi dai nostri; che crediamo rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno la stessa opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi delle diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è alcuno così educato che non conservi qualche residuo di barbarie". Nella perentoria presa di posizione, in Cronaca di un massacro di indiani, non solo in difesa dei nativi, ma anche di una logica di vita civile e pacifica, non mancava l'affondo morale: “Concluderò dicendo che qualunque codardo può maneggiare le armi, colpire dove sa che non vi sarà reazione, ferire, mutilare e assassinare, mentre risparmiare e proteggere è prerogativa degli uomini coraggiosi”. Tanta ostinazione gli guadagnò l'ostilità generale tanto da costringerlo a lasciare l'America per Londra. Un esilio che non gli ha impedito di diventare uno degli intellettuali fondamentali per l'America anche e proprio per la sua predisposizione a cercare di capirne le contraddizioni già agli albori della sua storia. L'America si è retta, e si regge da sempre, sul confronto degli opposti, su una convivenza difficile e complessa, con una violenza pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Altro che melting pot.

giovedì 5 novembre 2015

Philip Caputo

Un libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam. Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato: “In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio, cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a Inseguendo Cacciato di Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana. Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata, la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una sconfitta qualsiasi.

lunedì 2 novembre 2015

Anne Waldman

La necessità di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una qualche forma di selezione si è resa via via sempre più indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica, anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta Anne Waldman: “Curare questa antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende bene la spontaneità della natura di The Beat Book, costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel, Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure, John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima: a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The Beat Book un vademecum solido e coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria, ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946: “Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia al livello del pubblico; era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi, perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat Book: “Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non battuto.