Un
libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una
bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam.
Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato:
“In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e
casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi
terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte
definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo
vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e
meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui
i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto
sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la
sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra
condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei
nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato
convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di
arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava
nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le
opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori
dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur
sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della
storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza
una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i
caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di
Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le
emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In
Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle
battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore
dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non
risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio,
cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice
qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha
sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre
come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una
vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio
nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con
abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono
reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto
tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta
anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza
coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le
decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a
Inseguendo Cacciato di
Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone
di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un
interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam
è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito
americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con
l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana.
Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata,
la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di
un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità
del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra
spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una
sconfitta qualsiasi.
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