domenica 26 luglio 2020

Kurt Vonnegut

Il primo ottobre 1998, in una libreria di Union Square a Manhattan, si incontrano Kurt Vonnegut e Lee Stringer, coadiuvati da Ross Klavan che legge anche parti dei rispettivi volumi, Cronosisma e Inverno alla Grand Central. La conversazione, con l’aggiunta di Daniel Simon prosegue all’inizio dell’anno dopo, nel corso di un pranzo al Café de Paris, un ristorante senza pretese dove gli scrittori, Vonnegut per primo, possono fumare liberamente. Il minimo comune denominatore di questo lungo dialogo autunnale è  il “potere salvifico della letteratura” e già nella Prima conversazione lo scambio tra i due scrittori prende un ritmo coinvolgente. Vonnegut esordisce spiegando una delle contingenze primordiali della letteratura: “Se hai una quantità spaventosa di idee in testa, la voce per esprimerle verrà da sola, le parole giuste verranno da sole, i paragrafi usciranno bene”. Lee Stringer, che in Inverno alla Grand Central ha raccontato le sue esperienze di homeless, coglie subito l’occasione e sposta l’attenzione su un altro piano, ancora più essenziale: “Già il fatto di essere umani è una sfida. Voglio dire: ci svegliamo ogni mattina in un ambiente alieno. Di certo non è l’ambiente in cui l’uomo è stato creato. È un caotico, palpitante, frenetico, ronzante, vorticoso, pazzo ambiente alieno. Per me, in tutto questo, la sfida è quella di restare umani, di provare a compiere gesti umani, di cercare di ricordarci la condizione nella quale siamo nati”. La risposta di Vonnegut è immediata e pur essendo una diretta conseguenza dell’osservazione di Stringer riporta la discussione nell’alveo degli argomenti di partenza che poi sono sempre la scrittura e la lettura: “È importante anche tenersi lontani da tutta la baraonda televisiva e dalla convinzione che quello che sentiamo in televisione abbia una qualche rilevanza e che non si possa fare a meno di parlarne. La letteratura è l’unica forma d’arte che esiga un pubblico composto a sua volta di artisti, naturalmente. Per fruirne bisogna saper leggere. E maledettamente bene, anche”. Quando Ross Klavan li interroga sull’esistenza del “concetto di avventura di vivere” e della “necessità di comprenderla”, i due scrittori si distinguono nel ripercorrere i rispettivi approcci all’uso continuato e insistito delle parole. Lee Stringer è il primo a intervenire “Ho dovuto trovare un procedimento e una ragione per scrivere il mio libro che fossero interessanti per me e, si spera, non una perdita di tempo per voi”. Il suo punto di vista è un assist perfetto per Vonnegut che torna a tessere un’apologia dei lettori sostenendo che “devono essere dei performer, devono aver compiuto un lavoro di decodificazione a loro volta. Diventano nostri soci, perché sono coinvolti in prima persona. Ci sono arrivati da soli, in quel luogo. È una dimensione estranea, della quale noi non sappiamo nulla. Però è un piacere sapere che siano in grado di raggiungerla per conto loro. Devono farlo, altrimenti significherebbe che non sono in grado di leggere”. Nel corso del confronto vengono evocati Jack London e Shakespeare, come se fosse inevitabile (e molto probabilmente lo è davvero), ma soprattutto, Billings, il personaggio di Viaggio in paradiso di Mark Twain, con il suo barile di scritti incompresi e inediti. La sua tragedia introduce alle forche caudine della scrittura che sono comuni e conosciute a tutti gli autori perché, come dice Kurt Vonnegut, “sappiamo cosa abbia significato la nostra lotta e ci rispettiamo l’un l’altro per averla condotta”. Incalzato dai suoi anfitrioni, Stringer si fa più esplicito e preciso ricordando due aspetti indiscutibili: 1) “Non c’è nessuno a dirti se quello che stai facendo è giusto o sbagliato. L’idea di passare un anno o giù di lì a fare solo questo è terrificante”; 2) “Esiste qualcosa che tutti facciamo ugualmente. Fermarsi a pensare di cosa si tratti è quasi una perdita di tempo, eppure risuona nel lavoro di tutte queste persone”. Quello che condivide con Vonnegut è “un processo di eliminazione del superfluo”, che anche in questa conversazione sulla scrittura offre ai lettori un’idea brillante di un’avventura che resta pur sempre un’incognita. Un piccolo e perfetto livre de chevet.

sabato 25 luglio 2020

Casey Rae

William Burroughs resta contagioso, anche se non è un virus. C’è qualcosa nelle sue intuizioni, negli esperimenti, nei spostamenti e nelle deviazioni che è destinato a essere sempre attuale, come se avesse compreso il ventesimo secolo, e quello che ne è seguito, più di tutti. Scegliendo da che parte stare perché, come riassume benissimo Casey Rae, “con l’utilizzo di parole, suoni e immagini, riassemblati e utilizzati come armi, Burroughs cercava di demolire sistemi di repressione e umiliazione, inclusi dogmi sociali, civili e religiosi”. Proprio così. Un protagonista scomodo e irriducibile, che qui viene collocato nell’epicentro di una complessa sequenza di mutazioni e metamorfosi del rock’n’roll. Una posizione che gli si addice alla perfezione. A conferma di un senso di stupore che matura mentre ci si addentra nelle pagine di Casey Rae, anche per chi conosce già a fondo la materia, va detto che “il rapporto di Burroughs con la musica era come un millepiedi intrappolato nell’ambra: sospeso nel tempo”. La definizione di Casey Rae è molto suggestiva e in stile, ma è difficile capire cosa voglia dire, se non che il legame con la musica e i musicisti di William Burroughs è stato continuo e fecondo, ma anche imperscrutabile. Eppure, se da Kurt Cobain a Tom Waits, dagli Hüsker Dü ai Beatles, da Frank Zappa a Patti Smith “il culto del rock’n’roll” ha individuato in Burroughs il suo “grande vecchio”, ci deve essere necessariamente una costante anche in un’esistenza feroce, frammentaria e dolorosa. Casey Rae pare identificare, non senza parecchie ragioni, nella tecnica cut-up, un cardine fondamentale del lavoro e del suo particolare magnetismo: “Burroughs era convinto che i cut-up rappresentassero la realtà in una maniera ancora più accurata, se non addirittura un effetto collaterale della nostra stessa esistenza”. L’uomo conviveva ed esprimeva l’essenza di un paradosso, ma c’era qualcosa di geniale, nella sua semplicità, quando spiegava che “non puoi volere la spontaneità. Però con un paio di forbici puoi introdurre il fattore spontaneo dell’imprevedibilità”. La gamma di annessi e connessi comprende fenomeni di trasformismo (e si capisce perché uno dei legami più immediati e spontanei sia quello con David Bowie), l’interesse per l’esoterico e l’occulto (ampiamente documentato da Casey Rae,  a partire dal rapporto con Jimmy Page), i filamenti di amicizia tessuti dalla e nella Beat Generation e persino un curioso aneddoto, che suona simbolico per uno che diceva che “il linguaggio è un virus”. Dopo un concerto dei Joy Division che, come è noto, l’avevano omaggiato con Interzone, mentre Ian Curtis gli parlava dei Suicide, William Burroughs percepiva un riferimento al suicidio, come poi, in effetti, avverrà. Nel fittissimo susseguirsi di testimonianze è soltanto un caso, per quanto emblematico perché quella di Casey Rae è una biografia e insieme una rivisitazione geografica e culturale dei semi distribuiti da William Burroughs. Il lavoro parte dalla fonte di altri biografi (Ted Morgan con Fuorilegge della letteratura e Barry Miles su tutti) ma si estende a comprendere la vasta cerchia di accoliti in modo molto personale, accentuando gli aspetti prominenti del lavoro di Burroughs, e le sue ossessioni. Se Burroughs resta indecifrabile, Casey Rae riesce a codificare tutte le connessioni che l’hanno posto al centro di una fluttuante topografia. In modo del tutto involontario, probabilmente, Burroughs ha disegnato una mappa di zone temporaneamente autonome che hanno attirato frotte di outsider. Tangeri, Parigi, Londra, New York: in ogni città attorno a “un enigma in esilio” si coalizzava un pulviscolo di personaggi con cui scambiava, in una specie di costante osmosi, le sue visioni e seguirlo “significa vedere il mondo che credevi di conoscere sottoposto a cut-up e riassemblato in forme strane, divertenti e talvolta spaventose”. Il processo è stato una reazione a catena ed è andato oltre alla fine dei suoi giorni. L’effetto finale è qualcosa di imperscrutabile che, al di là delle effettive e irrinunciabili intuizioni letterarie e artistiche, era più legato all’attitudine. È per quello che, arrivati alla fine del viaggio di Casey Rae, vi verrà voglia di prendere un paio di forbici e fare a pezzi giornali di ieri (ma anche quelli di oggi o di domani), o di formare una rock’n’roll band.

domenica 12 luglio 2020

Lance Weller

Il generale William T. Sherman scriveva al fratello il 30 giugno 1964: “C’è da far rabbrividire il mondo intero, nel vedere l’impressionante spettacolo di morte e distruzione. Nei due ultimi mesi l’azione ha progredito giorno per giorno, e non vedo nessun segno di possibile tregua finché uno o entrambi gli eserciti non saranno distrutti... Comincio a considerare la morte e il macello di un paio di migliaia d’uomini come una cosa da niente, una specie di piovasco mattutino; e può darsi che sia una bene esser divenuti così insensibili”. È la guerra di secessione che ha generato gli Stati Uniti d’America e, come un brutale peccato originale, la sua ombra si tramanda nei secoli, nella voce di chi ha “vinto e perso troppe volte”. L’urlo del generale Sherman arriva dagli stessi campi di Wilderness, Virginia, teatro di una delle più sanguinose battaglie, da cui si diramano le trame di Lance Weller. Seguendo l’odissea di un sopravvissuto, Abel Truman, il romanzo gioca con il tempo e la storia: è un lungo flashback che raggruppa segmenti di ricordi in ordine sparso, cercando di restituirgli una dignità, perché “non si può togliere un uomo dal suo tempo e aspettarsi di capirlo”. Abel Truman è un vecchio soldato, un relitto della guerra, è una figura sofferente, non del tutto vivo, non del tutto morto, che “non poteva impedire a se stesso di vedere ancora una volta le immagini della guerra, di sentire i suoni della guerra e di riconoscere ancora una volta le crudeltà lasciate in dote dalla guerra, con cui è così difficile convivere dopo”. Il suo è un viaggio in una catastrofe immane: attraversa la guerra, è ferito e abbandonato, poi si inoltra nella wilderness puntando verso la costa occidentale, l’oceano e le foreste, in cerca di “un odore buono, di un altro mondo, più pulito”. Viene aggredito, gli portano via il cane, ma in qualche modo viene anche soccorso, aiutato, difeso e ospitato. Il percorso è tortuoso e accidentato, ma Lance Weller riesce nell’impresa di renderlo fruibile, nonostante assecondi l’inevitabile confusione che prorompe dalla battaglia e le atrocità che si moltiplicano sugli uomini, sulle donne e sugli animali. La trama comincia a intravedersi con maggiore chiarezza a metà strada, dove poi s’invola in un finale devastante, non privo di un sua giustizia poetica. L’eredità di Cormac McCarthy è palese nella scrittura di Lance Weller che, nelle sue descrizioni (che non risparmiano alcun dettaglio), sceglie un tono molto più drammatico che epico, sapendo che le circostanze storiche hanno travolto ogni prospettiva. Lo dice Abel Truman: “A essere sincero non so più che cosa siamo. Eravamo una cosa, adesso siamo qualcos’altro. La guerra ha mischiato tutto. Ecco che cosa ha fatto la guerra”. È così che nel caos seguito all’apocalisse delle battaglie i fuggiaschi vengono curati dai nemici, i predatori restano in agguato e la lotta per la sopravvivenza prevede carne di cervo e di scoiattolo, mentre la terra è disseminata di resti umani. Un carro, un’abitazione, una strada sono nello stesso tempo una possibilità e un pericolo: nessuno è al sicuro e la compassione è un rischio come succede prima a Sherman Grant e Hypatia, e poi a Glenn ed Ellen Makers. Nel suo peregrinare verso ovest, Abel Truman ha la fortuna di incontrare entrambe le coppie, che hanno sperimentato la brutalità razzista e ignorante, ma nonostante tutto riescono ancora a provare pietà per il prossimo che gli appare in un essere disperato, affamato e mutilato. Questo barlume di umanità spicca nella generale ferocia che domina Wilderness, e spinge Abel Truman ad andare incontro al suo destino, salendo lungo un impervio sentiero, camminando nella neve, sapendo che in cima alla montagna lo aspetta un altro combattimento, senza paura perché ormai non teme più nulla. Il titolo, a quel punto, diventa ambivalente: là fuori l’America è selvaggia e crudele e la guerra civile è l’inizio, non la fine, di una storia scritta con il sangue.