Nella
sua vita errante e apparentemente inconcludente, Neal Cassady ha
ribaltato il concetto di eroe americano. Con lui, costantemente
nascosto tra le pieghe di romanzi, poesie e vite altrui (a partire da
Jack Kerouac), l’eroe non è chi persegue uno scopo, quale che esso
sia, fronteggiando tutte le difficoltà a testa alta fino ad arrivare
alla fine. E’ piuttosto chi sceglie di vivere la vita, di seguirla
negli anfratti più strani, per scoprirla e per scoprirsi in luoghi
impensabili, come racconta uno dei passaggi migliori dei vagabondi:
“Ero tutto preso nel leggere le lunghe colonne che elencavano città
e stati, nel confrontare la loro posizione geografica sulla grossa
mappa, e in modo particolare mi interrogavo sui diversi cognomi e la
loro origine: i destini di quegli uomini mi erano tutti sconosciuti e
sognando a occhi aperti la diversità delle sorti possibili per la
prima volta mi sorpresi della vita”. Composto, più che scritto,
tra il 1948 e il 1954, I vagabondi racconta
l’inseguimento di una libertà assoluta che è prima linguistica e
letteraria e poi esistenziale, e non il contrario. Perché Neal
Cassady, “rapirto dalle parole e dai pensieri”, gioca con le
frasi, le immagini, i resoconti giornalieri del suo diario, le
lettere agli amici (lo stesso Kerouac e Ken Kesey), con la scrittura
vera e propria nello stesso modo in cui amava guidare: senza mai
toccare i freni. Ha assolutamente ragione Lawrence Ferlinghetti a
definirla “una saga americana”, termine che con ogni probabilità
non comprende soltanto l’autobiografia e il romanzo, ma la vita
reale di Neal Cassady, nato in viaggio, innamorato mille volte,
sposato tre, tentato suicida molte altre di più, fino a quando non
ce l’ha fatta. Era già oltre il confine in Messico, nel 1968,
quando Allen Ginsberg lo salutava così: “O.K., Neal, spirito
etereo, lucente come l'aria che muove azzurro, come alba di città,
felice come la luce, emanato dal giorno, sulle nuove case della
città”. E’ proprio ad Allen Ginsberg che Neal Cassady confessa
nell’autunno del 1963 la sua vera vocazione, la velocità: “Be’,
mettiamolo nero su bianco. Voglio ancora fare il corridore
automobilistico. Non è una cosa simbolica di questo secolo e
dell’altro?”, e la domanda nella sua espressione retorica è
fondamentale. Contiene il soffio vitale di Neal Cassady, declamato
“in modo molto sicuro, del tutto soggettivo, personale” perché
poteva essere soltanto così, usando le pagine dei suoi diari e le
lettere all’amico e alter ego Jack Kerouac per dare forma ad na
convulsione in prosa che sembra non avere fine, un rito che toglie il
fiato, come se fosse un assolo di Coleman Hawkins. Alla velocità
serviva spazio e quindi la strada, il viaggio, i treni presi al volo,
gli autobus e un cielo che sembra inseguirlo ovunque mentre cerca la
sua folle beatitudine: con I vagabondi si rende
giustamente omaggio ad un outisider della letteratura americana che
però ha lasciato tracce indelebili di quel sogno che continuiamo a
chiamare Beat Generation.
e c'e qualcuno che me lo può vendere 'sto libro?
RispondiElimina(se si contattatemi matteo_m@hotmail.it)