giovedì 30 giugno 2016

Charles Willeford

Per una volta lontano dalla serie dedicata al suo personaggio preferito, Hoke Moseley, con La macchina in Corsia Undici, Charles Willeford sembra conoscere, e in parte condividere, le riflessioni di Schopenauer sulla follia e sulla memoria, ovvero l’idea che la prima si manifesti come nemesi della seconda. Il protagonista di questo breve racconto, apparso per la prima volta su Playboy nel 1961, è il primo a comprenderlo quando dice: “La questione non è il dolore, è che non voglio perdere la memoria. I miei ricordi non saranno un granché, ma non mi rimane altro, e li voglio, li voglio tutti”. E’ quello che rimane a Jake Blake, nome fin troppo evocativo per un regista con qualche problema di attinenza alla realtà. Ha nutrito e coccolato la depressione e una pietra dopo l’altra si è circondato di un muro impenetrabile. Coadiuvato dall’alcol, ormai bollito in modo irreversibile, Jake Blake tenta il suicidio con un rasoio malandato, ulteriore segno della sua sgangherata corsa verso nel vuoto. Quando si ritrova immerso nel candore di una clinica può soltanto credere che sia la sua salvezza, quando è la plastica dimostrazione che non c’è limite al peggio. Abituato a dirigere e a trastullarsi con le proprie titubanze nell’effimera dimensione del cinema e della televisione, Jake Blake è costretto a confrontarsi, ovvero a subire, una nuova routine fatta di farmaci, infermieri, corridoi, incubi e dall’alta tensione in fondo alla Corsia Undici. La violenza nella sua forma più abietta, quella istituzionalizzata e codificata, è l’anticamera verso La macchina in Corsia Undici e, in effetti, Blake si trova in un cul de sac o meglio, per restare negli ambiti delle patologie psicologiche, nella paradossale situazione da Comma 22: se non ammette di essere folle, e quindi di osservare le regole, la disciplina e gli inviti dell'istituzione (ovvero se non collabora), lo aspetta un trattamento più duro, ma se si convince e/o convince le istituzioni della sua follia, ogni cura è possibile, compresa la macchina della Corsia Undici, cioè l’elettroshock. Il ribaltamento dei ruoli, imprevisto e repentino, conferma l’identità deviante di Blake e la follia in sé dell’elettroshock e se un brevissimo racconto, quale è La macchina in Corsia Undici, non consente di trarre considerazioni definitive o soltanto una valutazione morale (è più folle il folle o il medico che gli prescrive l'elettroshock?) di sicuro suggerisce in poche dozzine di pagine un’atmosfera plumbea, l’odore della claustrofobia che si avvicina, e non poco, alla ricostruzione di Ken Kesey in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Con un taglio netto, nitido, preciso, essenziale nella forma ed incisivo nel ritmo, con pochi ed evidenti dettagli che bastano a creare un mondo credibile (se non proprio realistico), prerogativa, quest’ultima, di ogni grande scrittore. In aggiunta, nonostante il ridotto formato in cui è condensata La macchina in Corsia Undici, non manca la sentenza definitiva di Charles Willeford, peraltro emblematica: “Quello che ci resta, a fine partita, sono i ricordi, e la capacità di ridere della nostra follia, o della nostra stupidità”. Da non perdere.

mercoledì 29 giugno 2016

Willa Cather

E’ stata un’idea eccellente quella di assemblare Il caso di Paul e La scarpetta d’oro perché sono speculari nello spiegare che “il mondo è piccolo, le persone sono piccole e la vita umana è piccola. Esiste solo una cosa grande: il desiderio”. Il legame e insieme il contrasto tra I racconti di Pittsburgh è palese già in quello che Willa Cather chiama anche Uno studio sul carattere, che è poi Il caso di Paul. Un adolescente ribelle e scontroso, che ha un modo tutto suo di reagire e di parlare (“Non volevo essere gentile o scortese. Credo sia semplicemente un modo che ho di dire le cose”) e a cui “bastava una scintilla, l’emozione indescrivibile che faceva sì che la sua immaginazione s’impadronisse dei suoi sensi, e la sua testa diventava tutto un fiorire di immagini e storie. Allo stesso modo era vero che non aveva la passione del teatro, perlomeno non in un modo tradizionale. Non aveva alcun desiderio di diventare un attore, non più di quanto lo avesse di diventare un musicista. Non sentiva alcuna necessità di essere nessuna di queste due cose: quello che voleva vedere, fare parte di quell’atmosfera, galleggiare su quell’onda ed essere trasportato via, per miglia e miglia di azzurro, lontano da tutto”. L’espressione del desiderio è anche la volontà di non restare imprigionato nella cornice soffocante (anche un po’ bigotta) della famiglia e di Cornelia Street, dove le vite sono precostituite sui luoghi comuni, da cui è impossibile fuggire. E’ il leitmotiv della prima parte del racconto che Willa Cather trasmette con grande efficacia. La tensione generata dalle emozioni, dalle ambizioni e in definitiva dalle scelte di Paul, lasciano intuire che si tratti di qualcosa in più di Uno studio sul carattere e la partecipazione al dilemma e poi al suo drammatico epilogo è assidua, intensa e senza filtro. Questo succede perché, come scriveva Eudora Welty, “quando leggiamo il mondo di Willa Cather lo sentiamo e lo tocchiamo”. Vale a maggior ragione per La scarpetta d’oro, dove il confronto tra Marshall McKann e Kitty Ayrshire è alimentato dall’attrito tra la presunta normalità e una vita di “emozioni disordinate” e/o un “mondo fatto di svolazzi”. Marshall McKann è un industriale che, “ostile a mode, entusiasmi, individualismo, a qualsiasi innovazione che non riguardasse macchine minerarie o mezzi di trasporto”, è attirato e insieme respinto dal fascino di Kitty Ayrshire, cantante e rock’n’roll star ante litteram. La serrata discussione, a bordo di quel treno (molto simbolico) che appare anche in Il caso di Paul, non è alimentata solo dalla diversità tra uomo e donna che comunque Willa Cather, attraverso Kitty Ayrshire, preferisce rimarcare: “Se riuscissi a trovare un uomo davvero intelligente che fosse in grado di sostenere le proprie opinioni, sarei disposta a cambiare le mie”. La divisione riguarda le aspirazioni e i miraggi, la sensibilità e l’ammirazione, in definitiva quel bisogno di “dissolversi in qualcosa di più completo e più grande” (come ribadisce Kitty Ayrshire ispirata da Cos’è l’arte di Lev Tolstoj). Alla fonte, diceva ancora Eudora Welty, c’è sempre “il desiderio di un singolo cuore, di una singola anima di rivendicare ciò che gli spetta, di attingere alla sua quota di grandezza” ed è proprio quella pulsione primordiale che Willa Cather sa distinguere anche nel tono, ponendo l’accento sui contorni della tragedia per Il caso di Paul e su quelli della commedia con La scarpetta d’oro. Due racconti, un piccolo libro, una grande lezione.

venerdì 24 giugno 2016

Kent Haruf

Il baricentro della trilogia della pianura si sposta nel secondo capitolo verso i fratelli McPheron, Harold e Raymond. Attorno a loro due e a Victoria Robideaux e alla figlia Katie si coagulano, secondo vie casuali e non, le gesta della tristissima famiglia Wallace, Luther e Betty (i genitori) e Joy Rae e Richie (i figli), dell’assistente sociale che li segue, Rose Tyler, di DJ Kephart e del nonno Walter, di Dena ed Emma e della madre (Mary Wells) e volti già apparsi, come Maggie Jones che, anche davanti a tanto disordine e a tanta solitudine, non si scompone e dice: “Ho già visto un sacco di casino in vita mia”. Capita a tutti e per ognuno è un piccolo tassello, la battuta di un ritmo, e succedono così tante cose nello “spettacolo della vita” di Holt, dove non succede niente, ma è tutto importante perché, come dice Raymond McPheron “ci sono cose che non si superano mai”. La concatenazione degli eventi è tale che, raccontando anche un singolo episodio, si rischia di rivelare tutta la trama di CrepuscoloMerita di essere ricordato almeno il passaggio in cui i piccoli Dena e DJ si ricavano uno spazio in una baracca costruita e arredata con i resti trovati per le strade di Holt. E' dentro quelle sgangherate pareti che “per quel breve momento ciò che succedeva nelle case da cui venivano sembrò avere scarsa importanza”. Quel poco di salvezza è lì e si tratta di una distanza universale: più che l’America, Holt è la provincia, dove tutti si conoscono e all’emporio ti chiedono se paghi subito o se te lo addebitano sul conto della fattoria. In Crepuscolo, quasi a rimarcare i confini della trilogia, la mappa di Holt e dei dintorni che si allungano su tutti i quattro punti cardinali (Fort Collins, Norka, Brush, Phillips, Fort Morgan, Greeley via via fino a Denver che resta molto lontana) emerge come un bassorilievo. Anche i ritrovi abituali, persino le strade e le campagne, ricorrono con maggiore frequenza, come a confermare che “contavano quasi soltanto le consuetudini e i capricci del momento”. Sono punti di riferimento nello spazio e così nel tempo, perché come scriveva Simon Shama in Paesaggio e memoria“il paesaggio, del resto, può essere intenzionalmente disegnato per esprimere le virtù di una determinata comunità politica e sociale”. Il genius loci di Crepuscolo e per estensione di tutta la trilogia della pianura ha il volto di tutti i volti, la vita di tutte le vite e Kent Haruf è stato straordinario a renderlo trasparente con una “visibilità” come la intendeva Italo Calvino che è l’altra faccia, quella in ombra, del suo raffinatissimo stile. Parafrasando Dante nel corso delle sue Lezioni americane, Calvino diceva che “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”, e a Holt piove, nevica, tira vento, gli unici elementi degni di nota sono quelli meteorologici, insieme ai movimenti del cielo in lontananza, all’orizzonte. D’altra parte l’economia rurale dipende dalle stagioni e dalle declinazioni climatiche e carpire le sfumature è l’elemento trainante, in fondo la cifra stessa dell’abilità principale di Kent Haruf. Ed è leggere nei paesaggi, nelle luci e poi nei gesti e nei dialoghi che si innestano l’uno nell’altro, trasformandoli in strati ben accuditi di parole che formano le storie. L’equilibrio si vede anche nella forma dei paragrafi, che si modellano con armonia e si incastrano uno nell’altro, senza soluzione di continuità. Tirando le somme per Crepuscolo e allargando l’ispezione all’intera trilogia della pianura, il modello di riferimento e l’influenza più evidente, riconosciuti a sua volta da Kent Haruf, vanno cercati in William Faulkner, in particolare, quello di Mentre morivo, dove scriveva: “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una qualità irrevocabile. E’ come se tutto il tempo, smettendo di scorrere dritto davanti a noi in linea decrescente, corresse ora parallelo fra noi”. La stessa natura di Holt (e dintorni) riporta alla contea più famosa (per quanto altrettanto immaginaria) della letteratura americana, quella di Yoknapatawpha e, sì, il termine di paragone resta quello. Solo che Kent Haruf lo stempera con più speranza e meno angoscia e anche una sua delicatezza che si traduce, prima di tutto, nell’invenzione di un nome infinitamente più accessibile, scelta di cui, tra l'altro, gli saremo grati per sempre.

mercoledì 22 giugno 2016

Flannery O'Connor

La calligrafia è nitida, uniforme e lineare, almeno quanto ricco di dubbi e paradossi è il contenuto del Diario di preghiera. Un piccolo taccuino che funziona come una carta d’identità perché Flannery O’Connor lo riempie di appunti mentre sta scrivendo il suo romanzo d’esordio, tra il 1946 e il 1947, partendo dall’istinto di riscrivere le orazioni, e un po’ anche la dottrina. Il moto è spontaneo e condizionato, alla fonte, dall’ingombrante personalità di Flannery O’Connor: “Non intendo rinnegare le preghiere tradizionali che ho detto per tutta la vita; ma le dico e non le sento. La mia attenzione è sempre molto fuggevole. In questo modo sono attenta in ogni istante”. Il rapporto con la preghiera si scioglie ben presto nel confronto con la scrittura e di conseguenza con se stessa: “In qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per pavimenti o alle uova di piccione, l’inizio di una bella preghiera può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di elevato. Non sono una filosofa altrimenti queste cose le potrei capire”. Cerca un aiuto concreto nelle letture di Kafka, Coleridge, Bernanos, Rosseau, Freud, Proust, Lawrence e Bloy (ce n’è abbastanza da studiare tutta una vita) e se arriva a una conclusione è che “La speranza, tuttavia, deve essere qualcosa di diverso dalla fede. Inconsciamente la metto nel comparto della fede. Deve essere qualcosa di positivo che non ho mai provato. Deve essere una forza positiva, altrimenti perché distinguerla dalla fede? Vorrei riuscire a fare ordine, per potermi sentire coerente da un punto di vista spirituale. Non credo di essere io quella in grado di fare ordine. Ma tutte le mie richieste sembrano fondersi in una, quella della grazia, quella grazia soprannaturale capace di realizzare tutto ciò che fa”. E’ il Diario di preghiera di una credente piena di domande, ma le sue incertezze non riguardano la fede, cui dedica un’energia costante (anche con una certa ironia quando scrive: “Se potessimo mappare accuratamente il cielo alcuni dei nostri promettenti scienziati inizierebbero a disegnare progetti per migliorarlo e i borghesi venderebbero guide a 10 centesimi la copia a chi a più di 65 anni”), piuttosto il suo ruolo sul mondo terreno, in particolare la sua vocazione per la scrittura e per l’arte. Essendo molto severa con se stessa, persino scrivere una breve preghiera per Flannery O’Connor è uno splendido tormento perché si trova ad analizzare con grande scrupolo ogni singola parola, ogni motivo per cui dovrebbe inciderla sul suo taccuino. Nonostante tutto, gli sforzi per vivere fino in fondo la fede non sono diversi da quelli per comprendere l’utilità della scrittura: la passione è sanguigna, intensa, reiterata e pagina dopo pagina il piccolo Diario di preghiera si svela così un workbook in cui Flannery O’Connor apre porte e finestre sulle sue insicurezze e, insieme, sulle sue aspirazioni. Il Diario di preghiera è colmo di riflessioni sullo spirito e sulla natura della scrittura, vista in tutta la sua difficoltà, quasi una confessione quando dice: “Quanto è difficile mantenere qualsiasi proposito, qualsiasi atteggiamento verso un’opera, qualsiasi tono, qualsiasi cosa. In questi giorni trovo una certa pace nella mia anima il che è molto bene, non ci indurre in tentazione. Il livello della storia, boh. Lavoro, lavoro, lavoro”. E’ un’altalena di stati d’animo estremi & assoluti, che vanno da considerazioni critiche (“Mediocrità è una parola dura da attribuire a se stessi; eppure mi ci ritrovo a tal punto che è impossibile non attribuirmela, e mi accorgo addirittura mentre lo faccio che sarò vecchia e decrepita prima di accettarla”) a constatazioni rassegnate (“Penso che forse la speranza possa essere capita a fondo soltanto mettendola in contrasto con la disperazione. E io sono troppo pigra per disperarmi”) da plateali invocazioni (“Vorrei tanto riuscire ad avere successo in questo momento riguardo ciò che voglio fare”) a momenti di pura e semplice delusione, in cui la solitudine e l’isolamento sembrano trionfare (“C’è così poca aria nella mia scatola”). Eppure la forza di Flannery O’Connor è tale che anche dopo aver strappato la sua ultima produzione perché “era certo proprio degna di me; ma non degna di quel che dovrei essere” (e la differenza è una preghiera in sé) aspira ancora & sempre a scrivere un romanzo, “un bel romanzo”. Sarà La saggezza nel sangue.

martedì 14 giugno 2016

Bruce Springsteen

Un rapinatore che passa tre dei suoi primi sei mesi di vita in cella per aver svaligiato una banca. A venticinque anni, ruba un cavallo e diventa inafferrabile. Come succede spesso con i personaggi delle sue canzoni, Bruce Springsteen cerca di renderli simpatici e accattivanti, ma dove arriva Outlaw Pete, le donne piangono e gli uomini muoiono. Una notte si sveglia nell’incubo di aver visto la propria morte e parte al galoppo verso il West, un passaggio obbligato dentro l’America in cerca di una nuova vita. Per quanto citi, tra le fonti d’ispirazione, i personaggi di The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, a parte i contorni picareschi Outlaw Pete appartiene più al fiume carsico di profili noir e nerissimi che affiora con una frequenza disordinata nel songwriting di Bruce Springsteen e che ha avuto un ruolo predominante della galleria degli assassini di Nebraska, da Charlie Starkweather a Johnny 99 fino alle guerre mafiose evocate nell’incipit di Atlantic City. L’epopea del fuorilegge e lo scenario del West servono a condensare “passione e tragedia” di alcuni temi fondamentali: la formazione di un uomo e la sua distruzione, l’amore, la redenzione, la vendetta e, più di tutto il senso, della giustizia e della predestinazione, della lotta e del rimpianto. Come spiega lo stesso Bruce Springsteen: “Outlaw Pete, in sostanza, è la storia di un uomo che tenta di sopravvivere ai propri peccati, che sfida il destino cercando di sfuggire al veleno che lui stesso porta in corpo. Il che è impossibile, naturalmente: ovunque andiamo, i nostri peccati ci seguono, e noi possiamo soltanto imparare a conviverci”. Concentrare tutto il racconto epico in una canzone è stata un’impresa complicata, mentre la versione arricchita dalle immagini di Frank Caruso gli restituisce un senso di profondità e insieme di leggerezza. Il disegno, i colori riescono a fissare alcuni passaggi, a distinguerli con maggiore precisione, come l’incontro con la ragazza navajo e la nascita della loro figlia. E’ il frangente più sfumato e in ombra della storia di Outlaw Pete, una deviazione momentanea che funziona da preludio allo scontro con il cacciatore di taglie. La svolta Outlaw Pete, anche dal punto di vista grafico, è proprio lì perché come dice l’unico vero giudice in tutto il West, quello di Cormac McCarthy in Meridiano di sangue, “la legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo. Di un uomo che cada morto in un duello non si penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore riguardo al suo punto di vista”. La sentenza, come il cavaliere sull’orlo del precipizio, rimane sospesa: l’eroe soccombe ai suoi demoni, il fuorilegge entra nella leggenda, Outlaw Pete continua a chiedersi se qualcuno là fuori riesce a sentirlo, ma la vera risposta è un’altra domanda. Quando Peter Bogdanovich chiese a John Ford se la morale di un personaggio di uno dei suoi film non fosse un po’ ambigua, si sentì ribadire: “Non è sempre un po’ ambigua la morale?”, ed è un interrogativo che è sempre lì, ad aspettare, non solo nel selvaggio West di Outlaw Pete.

giovedì 9 giugno 2016

Stephen Witt

Crisi? Quale crisi? Pirateria? Quale pirateria? Sembra che Stephen Witt stia dicendo: è successo qualcosa di epocale nell’industria discografica negli ultimi vent’anni (sì, è così), ma cosa? Free indaga con parecchi suggerimenti, tantissimi riscontri, un’idea tutto sommato coerente del giornalismo d’inchiesta e un ottimo piglio narrativo, che non guasta. Dall’inizio alla fine, la trama è annodata alla vita, alla morte e alla resurrezione dell’ mp3, raccontata in tutti i suoi particolari da Stephen Witt, come se Free fosse La stella di Ratner di Don DeLillo. E’ giusto, ma è come trovarsi in un labirinto di sensi unici e di domande paradossali. Valido per un romanzo, nella realtà abbastanza ambiguo: l’architettura di Free è elegante, colta, scorrevole, ma traballante a dir poco. Perché multinazionali che producono prodotti fisici finanziavano la ricerca di formati digitali compressi? Perché l’industria discografica è passata dall’euforia del compact disc all’attuale diffusa malinconia con un genocidio di posti di lavoro, ma lasciando inalterati gli stipendi (milionari) dei manager? Per dare una risposta a quest’ultima domanda, Stephen Witt segue la figura emblematica di Doug Morris, executive che nel corso della lunghissima carriera è stato sempre (ed è) al timone principale, una parabola rappresentativa di alcuni vizi capitali dell’industria discografica. Nel farlo, distribuisce un po’ di aneddoti, un po’ di notizie, fa un gran lavoro di ricerca, ma quello che c’è di interessante, oltre alla pirateria, lo lascia a livello di allusione. Per esempio, cita il procuratore di New York Elliot Spitzer che ha costretto al patteggiamento extragiudiziale le principali etichette discografiche perché sono state responsabili di aver corrotto le stazioni radiofoniche (che novità, la payola). Ancora di più si scopre che è stata prassi assumere interi call center per bombardare di telefonate le emittenti televisive per far trasmettere questo o quel brano. Per non parlare di spropositati budget per il marketing e la promozione, tutto magari per dischi inutili come quello di Lindsay Lohan, comunque votati al fallimento (artistico e commerciale). Lì si vede che la pirateria è soltanto un placebo alla miopia (eufemismo) dell’industria discografica nei confronti del digitale prima, e della rete poi. All’avvento del compact disc, tutto quello che i discografici sono stati capaci di fare è stato prendere un catalogo e rivenderlo, e sono stati anni d’oro. Con la rete, per loro stessa ammissione, non hanno mai saputo come fare. Per dire, il massimo del successo ottenuto in questo senso da Doug Morris è stato Vevo, un canale che in sostanza è il vecchio catalogo di videoclip reso disponibile per vie digitali. Stesso meccanismo del compact disc, fantasia al comando, sotto lo zero. Altri sono stati più rapidi e scaltri, primo tra tutti Steve Jobs, uno che ha capito a fondo i meccanismi del pop e infatti prima con gli mp3 nell’iPod, poi nell’iTunes ha fatto saltare il banco. Non a caso, se si vuole prendere una data per ricordare un punto di non ritorno è stato quando gli U2 hanno regalato l'irrilevante Songs Of Innocence a mezzo miliardo di persone completando de facto la metamorfosi della musica, che infine è diventata il gadget di lusso dell’hardware e del software. Questo è il dettaglio vitale e mortale che sfugge a Stephen Witt, e per giunta con un libro chiamato Free. Altro che pirateria. E’ il mercato in tutto il suo splendore, decadenza compresa.

martedì 7 giugno 2016

Richard Price

New York, oggi, nei quartieri più popolosi, il Lower East Side, Long Island, Harlem, il Bronx, confini invisibili da una marciapiede all’altro, folla che sguscia dentro e fuori la metropolitana o è bloccata nel traffico o è in coda al pronto soccorso. Tutta una varia umanità di perdenti, di falliti, di piccoli criminali o, il più delle volte, di persone per cui l’esistenza della legge è altrettanto evanescente di quella della giustizia. Una squadra di detective (in alcuni casi, ex) con molti conti da regolare con se stessi, con un passato che ritorna come l’eco di una voce sconosciuta, con un presente che, come minimo, è piuttosto complicato, e infine con un nugolo di ossessioni e di fantasmi onnipresenti, inseguono ancora le Balene bianche ovvero “tutti criminali che avevano commesso delitti osceni sotto il loro naso ed erano sfuggiti alla giustizia”. Richard Price eleva all’ennesima potenza l’elaborazione di un paesaggio umano nel minimo comune denominatore di una metropoli che è sempre sorprendente nei suoi gangli storici e architettonici e nell’assenza di regole di ingaggio che rivelano una trappola, un agguato, un sotterfugio o un inganno a ogni angolo ed è fatta di notti insonni, alcol (molto alcol), armi improvvisate (e non), espedienti e coscienze tormentate. In questo habitat pulsante e nevrotico le Balene bianche hanno un ruolo predominante, pur essendo invisibili, e sono anche il riflesso delle occasioni perdute, dei rimpianti, dei fallimenti perché, come scriveva Herman Melville (uno che se ne intende, di balene) “la città è presa dai suoi ratti, ratti di nave, ratti di molo. Ogni civile bellezza e incanto sacerdotale che intimoriva i cuori, legati dalla paura, soggetti a un potere migliore del potere dell’io, questi come un sogno svaniscono e l’uomo arretra per intere età nella natura”. Nella sua centralità, la condizione esistenziale di Billy Graves riassume un po’ anche tutte le altre: non sono eroi senza macchia e senza paura, anzi. Hanno anche famiglie scomposte o disordinate con padri e figli e mariti e mogli, malati da curare, giornate lunghissime da risolvere. Nello stesso tempo, con un’indistruttibile vocazione all’amministrazione della giustizia e un’aderenza incondizionata ai dettati della legge, Billy Graves è anche la negazione delle Balene bianche e dei rispettivi cacciatori. L’atmosfera noir (nerissima) non è nella soluzione di un caso (anche se qui ce ne sarebbe un’ampia scelta, ogni santa notte), è frutto della costruzione di esistenze compresse dall’istinto della vendetta e dall’impossibilità del perdono. Il passato riemerge, rimbomba e si ripresenta, anche uno scambio di persona diventa la fonte di una reazione a catena di omicidi, le vittime tendono ad autoaccusarsi, non c’è certezza che regga, l’idea di verità vacilla e i detective sembrano ricordarsi a fatica che nella loro formazione “in una prospettiva a lungo termine, e al fine di formare gli uomini in modo ottimale e prepararli a svolgere al meglio il loro lavoro, si tolleravano errori e si passava sopra a tante azioni, proprie e altrui. Si creavano segreti, e se ne mantenevano altri”. Balene bianche è quasi naturalista nel cercare di imprimere a fondo la natura di NYC e dei suoi abitanti solo che Richard Price riesce a non perdere il senso dell’ironia e soprattutto l’innata predisposizione ai dialoghi, dove resta insuperabile. Sono le voci a dettare il ritmo (incalzante), a sottolineare il carattere cosmopolita della città, a rendere il senso del caos, fino all’ultima pagina, quando Balene bianche trova una conclusione amara, tagliente, perfetta in un’inquadratura che, da sola, rende l’idea di un grande romanzo dei nostri tempi.