Per
una volta lontano dalla serie dedicata al suo personaggio preferito,
Hoke Moseley, con La
macchina in Corsia Undici,
Charles Willeford sembra conoscere, e in parte condividere, le
riflessioni di Schopenauer sulla follia e sulla memoria, ovvero
l’idea che la prima si manifesti come nemesi della seconda. Il
protagonista di questo breve racconto, apparso per la prima volta su
Playboy nel 1961, è il primo a comprenderlo quando dice: “La
questione non è il dolore, è che non voglio perdere la memoria. I
miei ricordi non saranno un granché, ma non mi rimane altro, e li
voglio, li voglio tutti”. E’ quello che rimane a Jake Blake, nome
fin troppo evocativo per un regista con qualche problema di attinenza
alla realtà. Ha nutrito e coccolato la depressione e una pietra dopo
l’altra si è circondato di un muro impenetrabile. Coadiuvato
dall’alcol, ormai bollito in modo irreversibile, Jake Blake tenta
il suicidio con un rasoio malandato, ulteriore segno della sua
sgangherata corsa verso nel vuoto. Quando si ritrova immerso nel
candore di una clinica può soltanto credere che sia la sua salvezza,
quando è la plastica dimostrazione che non c’è limite al peggio.
Abituato a dirigere e a trastullarsi con le proprie titubanze
nell’effimera dimensione del cinema e della televisione, Jake Blake
è costretto a confrontarsi, ovvero a subire, una nuova routine fatta
di farmaci, infermieri, corridoi, incubi e dall’alta tensione in
fondo alla Corsia Undici. La violenza nella sua forma più abietta,
quella istituzionalizzata e codificata, è l’anticamera verso La
macchina in Corsia Undici
e, in effetti, Blake si trova in un cul de sac o meglio, per restare
negli ambiti delle patologie psicologiche, nella paradossale
situazione da Comma
22: se non ammette di
essere folle, e quindi di osservare le regole, la disciplina e gli
inviti dell'istituzione (ovvero se non collabora), lo aspetta un
trattamento più duro, ma se si convince e/o convince le istituzioni
della sua follia, ogni cura è possibile, compresa la macchina della
Corsia Undici, cioè l’elettroshock. Il ribaltamento dei ruoli,
imprevisto e repentino, conferma l’identità deviante di Blake e la
follia in sé dell’elettroshock e se un brevissimo racconto, quale
è La macchina in
Corsia Undici, non
consente di trarre considerazioni definitive o soltanto una
valutazione morale (è più folle il folle o il medico che gli
prescrive l'elettroshock?) di sicuro suggerisce in poche dozzine di
pagine un’atmosfera plumbea, l’odore della claustrofobia che si
avvicina, e non poco, alla ricostruzione di Ken Kesey in Qualcuno
volò sul nido del cuculo.
Con un taglio netto, nitido, preciso, essenziale nella forma ed
incisivo nel ritmo, con pochi ed evidenti dettagli che bastano a
creare un mondo credibile (se non proprio realistico), prerogativa,
quest’ultima, di ogni grande scrittore. In aggiunta, nonostante il
ridotto formato in cui è condensata La macchina in Corsia Undici,
non manca la sentenza definitiva di Charles Willeford, peraltro
emblematica: “Quello che ci resta, a fine partita, sono i ricordi,
e la capacità di ridere della nostra follia, o della nostra
stupidità”. Da non perdere.
Nessun commento:
Posta un commento