martedì 14 giugno 2016

Bruce Springsteen

Un rapinatore che passa tre dei suoi primi sei mesi di vita in cella per aver svaligiato una banca. A venticinque anni, ruba un cavallo e diventa inafferrabile. Come succede spesso con i personaggi delle sue canzoni, Bruce Springsteen cerca di renderli simpatici e accattivanti, ma dove arriva Outlaw Pete, le donne piangono e gli uomini muoiono. Una notte si sveglia nell’incubo di aver visto la propria morte e parte al galoppo verso il West, un passaggio obbligato dentro l’America in cerca di una nuova vita. Per quanto citi, tra le fonti d’ispirazione, i personaggi di The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, a parte i contorni picareschi Outlaw Pete appartiene più al fiume carsico di profili noir e nerissimi che affiora con una frequenza disordinata nel songwriting di Bruce Springsteen e che ha avuto un ruolo predominante della galleria degli assassini di Nebraska, da Charlie Starkweather a Johnny 99 fino alle guerre mafiose evocate nell’incipit di Atlantic City. L’epopea del fuorilegge e lo scenario del West servono a condensare “passione e tragedia” di alcuni temi fondamentali: la formazione di un uomo e la sua distruzione, l’amore, la redenzione, la vendetta e, più di tutto il senso, della giustizia e della predestinazione, della lotta e del rimpianto. Come spiega lo stesso Bruce Springsteen: “Outlaw Pete, in sostanza, è la storia di un uomo che tenta di sopravvivere ai propri peccati, che sfida il destino cercando di sfuggire al veleno che lui stesso porta in corpo. Il che è impossibile, naturalmente: ovunque andiamo, i nostri peccati ci seguono, e noi possiamo soltanto imparare a conviverci”. Concentrare tutto il racconto epico in una canzone è stata un’impresa complicata, mentre la versione arricchita dalle immagini di Frank Caruso gli restituisce un senso di profondità e insieme di leggerezza. Il disegno, i colori riescono a fissare alcuni passaggi, a distinguerli con maggiore precisione, come l’incontro con la ragazza navajo e la nascita della loro figlia. E’ il frangente più sfumato e in ombra della storia di Outlaw Pete, una deviazione momentanea che funziona da preludio allo scontro con il cacciatore di taglie. La svolta Outlaw Pete, anche dal punto di vista grafico, è proprio lì perché come dice l’unico vero giudice in tutto il West, quello di Cormac McCarthy in Meridiano di sangue, “la legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo. Di un uomo che cada morto in un duello non si penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore riguardo al suo punto di vista”. La sentenza, come il cavaliere sull’orlo del precipizio, rimane sospesa: l’eroe soccombe ai suoi demoni, il fuorilegge entra nella leggenda, Outlaw Pete continua a chiedersi se qualcuno là fuori riesce a sentirlo, ma la vera risposta è un’altra domanda. Quando Peter Bogdanovich chiese a John Ford se la morale di un personaggio di uno dei suoi film non fosse un po’ ambigua, si sentì ribadire: “Non è sempre un po’ ambigua la morale?”, ed è un interrogativo che è sempre lì, ad aspettare, non solo nel selvaggio West di Outlaw Pete.

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