venerdì 26 maggio 2023

John Hopkins

Nel cercare di definire una cultura utopica, ma quanto mai necessaria, Henry Miller diceva che “la nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. È stato un viaggio coraggioso, imprevedibile e per molti versi bizzarro, ma Le voci degli hippies, nella sequenza di articoli tratta dalla stampa underground offrono un interessante spaccato del periodo storico, con una serie di reportage e di testimonianze di prima mano, non filtrate, immediate. Le preoccupanti attività dei pericolosi ribelli che si inalberano per “strani discorsi sulla letteratura” e l’ineluttabile presenza di strutture sempre più oppressive tra “l’espandersi di una burocrazia sempre più incombente e di un tipo di amministrazione sempre più impersonale” sono le due masse critiche che si sono scontrate, dalla fine della seconda guerra mondiale fino all’avvento di Reagan. Da una parte happening, raduni, manifestazioni ed espressioni colorite e fantasiose; dall’altra complotti più o meno oscuri che prevedevano persino campi di concentramento americani per i giovani facinorosi, anno di grazia 1950. È un dato storico e i risvolti giuridici e istituzionali legati a quelle installazioni mettono in evidenza gli abusi di potere in nome dell’ordine costituito, insieme alle perquisizioni delle comuni e alla negazione delle diversità. Il motivo del contendere è la guerra del Vietnam, che è sempre in primo piano, e “milioni di individui che dovrebbero essere liberi sono esposti all’insidia della tirannia da parte di uomini senza onore che si servono dell’apparato più criticabile che si possa immaginare, che comprende il lavoro di corridoio, l’isterismo giornalistico e l’interesse della burocrazia ad autoconservarsi al di là delle funzioni”. È la negazione del futuro che l’apparato politico, poliziesco e militaresco ha perseguito e “ha soltanto prodotto questo presente”, fatto di violenza e di prevaricazione. David Crosby, forse il più affascinante anfitrione dell’epoca, scriveva: “Vedo il presidente Johnson e quegli altri energumeni con i loro mostruosi ego girare in tondo con sordi brontolii minacciosi, come gladiatori in un’arena, gente! Non si rendono conto che il mondo ha la grandezza di una pallina da golf; che non c’è più posto per i loro giochi. Sono come sei persone in uno sgabuzzino. Ognuno ha in mano una bomba e tutti si odiano; poi uno sfila la sicura e tutti saltano in aria. Non è la guerra, è solo una scena disgustosa”. L’immagine rende l’idea e Le voci degli hippies nella forma irrisolta di quella “anarcodemocrazia” in cui si riconoscono cercano invece forme di pensiero che riflettono sulle funzioni della scuola, sui diritti delle minoranze, sul ruolo della musica, dai Beatles al festival di Monterey, e dell’arte in generale. Il dettato è quello sintetizzato da Richard Pine: “Crediamo nell’amore, nella tolleranza, nella comprensione dei giovani, dei vecchi e degli indifesi e di coloro che hanno opinioni diverse”, e questo vale per il sesso e per l’amore, così come per le sostanze stupefacenti: le considerazioni sono lungimiranti e validissime, purtroppo rimaste inascoltate. Le voci degli hippies sono molte e diverse: l’articolo di Alan Katzmann sui Kennedy (Almanacco del povero paranoide) sembra un estratto di American Tabloid, l’apologia di Phil Spector per Lenny Bruce è da incorniciare, l’analisi di Tuli Kupferberg (l’altra metà dei Fugs) è lucidissima quando dice: “Il paese è spaccato in due”, tra un’idea di America e cosa è diventata. Per John Hopkins, “la parola è una capsula vuota in attesa di essere riempita” e allora rileggendole a distanza nel tempo, Le voci degli hippies non appaiono poi così fuori luogo, e andrebbero rilette e ascoltate in un mondo e in un tempo costretti dalla miseria e dalla paura. È ancora David Crosby a cogliere lo spirito che riunisce, grazie a John Hopkins, tutte Le voci degli hippies: “Ogni etichetta ti impiccolisce, ti chiude in un recinto. L’intero universo è la tua casa se tu riesci a crescere abbastanza per viverci”. La destinazione è ancora là, che ci aspetta.

giovedì 11 maggio 2023

Lewis Shiner

Durham, North Carolina: un intero quartiere, Hayti, è scomparso sotto le colate di cemento di autostrade e di nuovi insediamenti. La gentrificazione ininterrotta e senza controllo (come si è visto poi in tutte le città, e non solo quelle americane) cancella intere epoche, ma “il passato non se ne sta mai al suo posto”, e torna a turbare il presente e il futuro. Il presupposto storico su cui si basa Black & White è concreto: la cancellazione della memoria non solo è destinata a difendere lo status quo, che (non dimentichiamolo) nello specifico comprendeva anche la segregazione. È anche un’erosione culturale senza ritorno. Ad Hayti, risuonavano nell’aria Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane, bianchi e neri ballavano insieme e la musica era un primo collante per la condivisione della lotta per i diritti civili, ma non era soltanto quello. È l’intera vita del quartiere che le infrastrutture, all’improvviso diventate indispensabili, sono andate a cancellare, come nota Lewis Shiner: “Il concetto stesso di progresso sembrava disperatamente ribaltato. Che senso aveva un luminoso futuro di cemento senza balli, senza parquet tagliato a mano e arcate in stile art déco?”. La domanda sottintende è la scintilla che muove Michael Cooper, il protagonista di Black & White, attanagliato da “una dolorosa nostalgia per un tempo e un luogo che non aveva mai conosciuto”. L’indagine per scoprire chi è davvero lo porta a ripercorrere un albero genealogico piuttosto intricato, una scelta dolorosa ma necessaria per comprendere i contorni della sua identità. Bugie e segreti non lo aiutano e nascondono il vero pericolo, quando “certe sensazioni dell’infanzia non ti abbandonano mai e sono sempre in agguato per quanto meno te l’aspetti”. Il confronto con il padre, ormai al crepuscolo, e la madre, lo portano ad aprire ampie finestre sul passato che sono altrettanti, corposi flashback in Black & White. Le contorsioni del romanzo hanno una logica nell’evidenziare le contraddizioni storiche, reali e non: Lewis Shiner ama attraversare le coordinate temporali e sapendo che “la narrazione è un’arma a doppio taglio” ed “è sempre, almeno in parte, una menzogna”, cerca di mantenere un difficile equilibrio nel corso della storia, almeno fino a quando la speranza si accompagnava alle canzoni, alla danza e in generale alla colonna sonora di un momento in cui certi segnali “erano tutti sintomi della stessa idea, l’idea che il cambiamento fosse possibile, che le cose potessero andare in modo diverso”. L’assassinio di Martin Luther King, nel 1968, traccia una linea brutale, e così in Black & White, come nella realtà, la vita diventa “precaria e rischiosa”. Lewis Shiner usa un tono molto sciolto, senza particolari pretese e apprezzabile nel saper gestire tutte le fratture orizzontali e verticali dell’America a cavallo di due secoli: tra vita cittadina e rurale, ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e adulti. Il cardine resta il rapporto tra padre e figlio, quello più complicato e che contiene in sé tutta l’architettura di Black & White. Nel tormentato dialogo con i genitori, Michael Cooper ricostruisce così gli incontri con Denise Franklin, splendida femme fatale (e qualcosa di più, come si scoprirà), con l’attivista Barrett Howard e con Randy Fogg, un pericoloso estremista ed emblema della corruzione e della violenza che si celano dietro ogni alito razzista. D’altra parte, nell’evolversi  di Hayti, l’alone del voodoo e della magia è una componente altrettanto importante, perché “i simboli sono cose potenti”, ma più di tutto è il destino di un’area, di una città e di una o più generazioni che vengono narrate in Black & White con il ritmo esplosivo di un thriller (comprensivo di colpi di scena ed effetti speciali), ma con una mano sulla coscienza e con una rara sensibilità per gli argomenti trattati e per il lettore. Di questi tempi, non è poco.

lunedì 8 maggio 2023

Cormac McCarthy

Sommozzatore professionista, a cui, per puro caso, tocca una scoperta in gran parte inspiegabile, Bobby Western ha un passato tumultuoso appesantito dalla zavorra del legame fortissimo e contorto con la sorella Alicia. La sua storia scorre in parallelo, anche se in realtà rivela soltanto “uno sterminio di fottuti misteri” e ospita una serie di presenze anomale, a partire dal Talidomide Kid, un essere deforme che la tormenta in continuazione, insieme a pupazzi meccanici parlanti e insolenti. L’ambientazione sudista e le strane progenie ricordano da vicino Thomas Pynchon di Mason & Dixon, ma forse non è un caso: quando Il passeggero parla di meccanica quantistica sembra un libro di Don DeLillo che ha deragliato ed è come se mezzo secolo di letteratura americana fosse collassato in un romanzo. Tutti i tecnicismi particolareggiati in eccesso, dai dettagli delle perforazioni petrolifere al tuning dei motori, sono una dimostrazione di forza non strettamente necessaria, e a tratti davvero ingombrante, che si incastra nel viaggio, che forse è più una fuga, di Bobby Western. Nei suoi incontri prende forma una danza di fantasmi che dovrebbero aiutarlo a ritrovare un’identità ancora in fase di definizione, oltre che a sopravvivere mentre un’oscura entità governativa gli sta dando la caccia, per quello che ha visto o non ha visto sul fondo del mare. Gli sbalzi paesaggistici, da New Orleans a Knoxville, dalle paludi alle highway desolate, dai boschi alle spiagge dell’oceano sono altrettante coordinate da osservare con attenzione visto, come scrive Cormac McCarthy, che è necessario “vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature”. Il passeggero offre una scelta complessa di personaggi che siedono al tavolo con Bobby Western dedicandosi all’esegesi dei menù e delle carte du vin, nonché di divagazioni sorprendenti, dalle speculazioni filosofiche a una minuziosa ricostruzione dell’assassinio di JFK. L’effetto è straniante: non c’è il lirismo della Border Trilogy e nemmeno la tagliente essenzialità di La strada, per non dire l’epica di Meridiano di sangueIl passeggero è “un cazzo di enigma”, dove i dialoghi scorrono incontrollati, con dozzine di citazioni perché “la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue”. È un concetto che viene ripetuto più volte, come ad affermare una sorta di naturale complicità, che però Il passeggero tende a eludere, contorcendosi tra il crudo impatto della realtà che perseguita Bobby Western (a cui gli agenti della riscossione bloccano persino i conti correnti) e le deviazioni nel mondo di Alicia che è tutt’altro che meraviglioso, anche se nei suoi contorni Cormac McCarthy trova degli inediti risvolti psichedelici. In effetti, Bobby Western non attraversa soltanto gli spazi americani, ma anche lunghi segmenti temporali che vanno dagli insediamenti dei pionieri alla realizzazione della bomba atomica con sbalzi nella lettura degni di un rimorchiatore nella tempesta. Quando qualcuno dice che “questo posto è tutt’altro che perfetto. Ma è quello che c’è”, il riferimento può essere applicato a una moltitudine di probabilità: un’intera nazione (con un bel po’ di incongruenze), una tavola calda, un rifugio nei boschi, un’amicizia, una svolta improvvisa, e al romanzo in sé. Le connessioni sono a carico del lettore: Il passeggero è inadempiente, e non solo perché è la conclusione avviene in separata sede, con un secondo romanzo, Stella Maris, ma perché, proprio come Bobby Western, sfugge a ogni collocazione e nel continuo movimento tra cercarsi e nascondersi, tra rivelarsi e celarsi dietro una maschera resta oscuro e fosco, come un’immersione nel Mississippi.

giovedì 4 maggio 2023

Carl Hiaasen

In questa piccola e moderna favola, Carl Hiaasen, senza rinunciare alla semplicità, all’eleganza e all’ironia che lo distinguono, riesce a decifrare una bella serie di conflitti, tutti molto pertinenti e sempre attuali. Tutto comincia con un ragazzo sensibile e acuto, Roy Eberhardt, che viene vessato da un compagno di scuola, e con un misterioso coetaneo che armeggia con i mocassini acquatici come se fossero animali domestici. A Coconut Grove, la cittadina della Florida dove la famiglia di Roy si è trasferita dopo una lunga serie di traslochi (l’ultimo da Bozeman, Montana, praticamente agli antipodi) nello stesso tempo si sta verificando una serie di strani vandalismi nel cantiere che dovrà ospitare dell’ennesimo fast food, quello rinomato di Mamma Paula. L’inaugurazione è prevista a breve, con la presenza della starlet di turno, l’appariscente e annunciata Kimberly Lou Dixon, che avrà un ruolo tutto suo nello svolgersi di Hoot. Intanto Roy deve vedersela con il suo nemico e “una parte di lui voleva farla subito finita. Non per arroganza, ma per orgoglio, perché non aveva alcuna intenzione di passare il resto dell’anno ad acquattarsi nei bagni o a sgattaiolare nei corridoi nel tentativo di evitare quel bulletto idiota”. Una saggia decisione, che però porterà a conseguenze incontrollate e a scoprire che gli scherzi e le intrusioni a danno del cantiere di Mamma Paula sono dovuti alla necessità di salvaguardare l’habitat dell’athene cunicularia floridiana o civetta delle tane, una piccola e innocua creatura minacciata dalla speculazione edilizia. A quel punto, lo scontro si propaga in un’altra direzione e vede i ragazzi confrontarsi con il mondo degli adulti che in Hoot è ritratto con una carrellata di personaggi maldestri che vengono travolti da un’ondata di bugie e sotterfugi. I giovani e improvvisati attivisti moltiplicano gli sforzi e si ritrovano ben presto degli imprevisti e importanti alleati che saranno determinanti nella rocambolesca ma sacrosanta avventura per salvare le civette dai bulldozer. La loro mobilitazione è raccontata da Carl Hiaasen con un piglio molto frizzante, che lascia intendere come molte distanze, non ultime quelle generazionali, di fronte alla necessità di tutelare l’ambiente in cui viviamo, che poi è lo stesso per tutti, possono diventare relative. Ci vuole quel po’ di convinzione e di ostinazione che distinguono Roy Eberhardt e poi la soluzione, può arrivare a sorpresa con un coro che canta This Land Is Your Land, una canzone quanto mai appropriata, e nel caso più potente della televisione e dei giornali che, come al solito, giocano un ruolo ambivalente nella battaglia per un piccolo angolo di paradiso, popolato non solo dalle civette, ma anche da falchi pescatori, aironi, coccodrilli e triglie. Hoot riserva molti episodi divertenti e una graditissima leggerezza nel collocare una morale che più candida non si può: tutto succede dal basso verso l’alto e la partecipazione resta l’arma più potente. La lezione, più o meno, è quella e Carl Hiaasen di sicuro non pretende di deviare il corso della storia ma si accontenta di concedere un’illusione che potrebbe benissimo essere un’ipotesi, e, per l’occasione, basta e avanza.