sabato 25 maggio 2013

Denis Johnson

Train Dreams affonda nelle radici delle origini di una nazione, nella sua terra, nelle miniere scavate per il carbone, nelle foreste disboscate per farne legname per i faraonici ponti ferroviari che superavano gole impossibili, nelle praterie solcate dai binari, dalle route e poi dalle highway. Nel perimetro esterno di Train Dreams si intravedono le contraddizioni che minano le fondamenta alla base della costruzione di un paese e Denis Johnson è molto abile a dissimularle nel corso del racconto perché la storia del suo protagonista, Robert Grainier, scorre in parallelo e in simbiosi con la metamorfosi di un intero paesaggio. E’ la “terra trasformata” di William Cronon, quella che vive e lavora Robert Grainier, una frontiera che si snoda nelle foreste e sul fiume, ma che è anche un confine, una linea nella coscienza degli esseri umani perché la lotta con e contro la natura (c’è un fiume che si porta nella corrente un intero ufficio postale, neanche fosse una barchetta, e un incendio distrugge la sua famiglia, moglie e figlia) è impari. Come scrive William Cronon “Tutti i gruppi umani modificano consapevolmente il proprio ambiente fino ad un certo limite, si potrebbe sostenere che questo, insieme al linguaggio sia il tratto che distingue gli uomini dagli altri animali, ed il modo migliore per misurare la stabilità ecologica di una cultura potrebbe essere il successo dei cambiamenti ambientali sviluppati per mantenere la propria capacità di riprodursi. Ma se prescindiamo dall’asserzione circa l’equilibrio ambientale, l’instabilità delle relazioni umane con l’ambiente può essere usata per spiegare le trasformazioni sia culturali sia ecologiche”. E’ proprio quello che ha sviluppato, in termini narrativi, Denis Johnson in Train Dreams: attraverso la vita di Robert Grainier, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, visto che “aveva cominciato la storia della sua vita con un viaggio in treno di cui non ricordava nulla, ed era finito a gironzolare intorno a un treno con a bordo Elvis Presley”, ricostruisce il legame controverso con la mitologia del West (e qui s’incrocia con l’epopea di Cormac McCarthy) e il radicale confronto con la wilderness dove (prima regola) “un albero finché lo lasciavi indisturbato, poteva esserti amico” e poi (seconda e ultimo avvertimento) “eccoti sistemato. Ecco cosa succede, ecco quello che dicono: non esiste lupo vivente che non possa addomesticare un uomo”. In effetti c’è un larice che i boscaioli chiamano “crea-vedove” e sono loro, e gli abeti, i lupi, gli animali e senza dimenticare i nativi Kootenai a condividere l’avventura in un territorio selvaggio e in gran parte ancora sconosciuto. Come dice ancora William Cronon “un mondo lontano e i suoi abitanti gradualmente divengono parte dell’ecosistema di un’altra popolazione, cosicché è sempre più difficoltoso sapere quale ecosistema sta interagendo con quale cultura. L’annullamento dei confini può di per sé diventare la questione principale”, ed è per questo che Train Dreams spiega la frontiera, e il West, più di mille saggi.

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