mercoledì 1 maggio 2013

Edith Wharton

Nel rileggere con La bellezza e l’orrore i destini travolti dalla prima guerra mondiale, Peter Englund chiama “un universo emotivo” quello che si è sviluppato trincea dopo trincea, battaglia dopo battaglia, massacro dopo massacro. Il punto di vista della sua analisi, sottolineato dal titolo, è molto coraggioso perché non si accontenta di descrivere lo spirito malefico della guerra. Parte dal fatto che per un’intera generazione di giovani europei all’alba del ventesimo secolo lo scoppio delle ostilità fu salutato come una possibilità di cambiamento, persino eroico. Poi la guerra li ha privati di tutto “della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell’umanità. Della vita”. Non solo: La bellezza e l’orrore spiega come “la guerra mette a disposizione pretesti, crea dicerie, interrompe le comunicazioni, semplifica i ragionamenti, trasforma la violenza in norma”. L’incontro di Edith Wharton con H. Macy Greer, un autista del Corpo di Soccorso Americano, da cui si genera Il ritorno a casa sembra condensare quell’atmosfera in un gomitolo di storie che si avvolgono una dentro l’altra. Edith Wharton riprende le testimonianze del suo ospite e la sua versione delle notizie dal fronte occidentale è uno sguardo dentro e attraverso le tenebre, nelle pieghe emotive di incontri e addii che sono sempre estremi e dolorosi, perché circondati da un’aura percettibile di mortalità, che assume forme mutevoli perché “l’orrore non è certo diminuito, ma i nervi cominciano a essere abituati a un simile spettacolo. Senza scordare che, in quei primi giorni, i frammenti di esperienza ritorti a ciascuno parevano brandelli di carne mandati in aria dalle granate. Adesso le cose che sembravano disgiunte cominciano a collegarsi fra loro e dai campi di battaglia riemergono le ossa rotte della storia”. L’aria nei campi e nei villaggi francesi è cupa e apocalittica, ma Il ritorno a casa incanta con una scrittura sempre attenta, misurata, piena di raffinata grazia. Eppure se la forma induce a pensare a una delicatezza, a una particolare premura nello svolgere le parole, in Edith Wharton è chiarissima la percezione con cui “la bellezza e l’orrore” si attorcigliano. A suo tempo Wallace Stevens scriverà che “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” ed Edith Wharton sviluppa il suo tentativo di fare ordine in un racconto limpido, elegante, fluido, distaccato nello stile eppure appassionato nel ridisegnare i contorni atroci della prima guerra mondiale. L’effetto è spiazzante perché Edith Wharton ricolloca minuscole porzioni di esperienza umana, come se dovesse ricomporre uno specchio andato in frantumi. “Questa guerra finirà per insegnarci a non aver paura dell’ovvio!” è la rivelazione che concede Il ritorno a casa perché la dimensione degli uomini è schiacciata dalla cupa immensità del conflitto, dall’angoscia quotidiana di vite che sono accompagnate passo dopo passo a fraternizzare con la morte, che sembra l’unico destino possibile, peraltro persino un sollievo (alla fine, quando resta solo l'orrore).

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