mercoledì 22 settembre 2021

Richard Lange

La desolazione del paesaggio umano di Richard Lange è quella già vista in molta letteratura americana e ormai costituisce una sorta di standard, o almeno una cornice che si riconosce subito, fin dalle prime battute nei racconti di Come morti. Un’atmosfera sfuggente, friabile, che si sbriciola nel sapore del fumo degli incendi incendi californiani, nella polvere delle strade che portano in Messico, nella limitata igiene dei motel da quattro soldi, dove la noia è in agguato. I racconti di Richard Lange sono amari, a tratti visionari e onirici, ma collimano con i “contorni minacciosi” del mondo che per gli outsider rappresentano i confini di una gabbia e di una decadenza bella “come uno specchio rotto”. Come morti è popolato da disperati, inconcludenti, illusi e confusi, gente con la tendenza alla fuga, e a sparire, tanto che uno di loro ammette: “È come se fossimo finiti fuori asse”. Sullo sfondo, su uno schermo al contrario, le luci di Los Angeles vengono scambiate per stelle e Hollywood è arsa e disperata, un pulviscolo di false partenze e film di serie b. Richard Lange somma tutto con una scrittura stringente, dura e aspra che non lascia nessun spiraglio: le emozioni sono sfregiate e le ossessioni, le piccole ossessioni che non lasciano scampo, ricordano ogni volta che “qui è sempre buio”, e Ogni bellezza è lontana, proprio come recita il titolo dell’omonimo racconto, definizione che si estende a tutte le short story di Come morti. È una disgregazione continua e il danno è già compiuto. Non c’è la seconda chance prevista per gli americani e ci sono tutti i tranelli della vita, tutte le trappole che scattano come tagliole, e che spesso (se non sempre) i personaggi si infliggono da soli. La frammentazione delle relazioni, i confronti famigliari ridotti all’osso, se non proprio inutili o dannosi, generano un tempo sospeso in cui tutto può succedere, compresa l’esplosione della violenza (in Prevenzione perdite: una rapina disastrosa con la colonna sonora di Neil Young e con special guest: Scarlett Johansson) o che la fuga finisca a casa della mamma (succede in Ritratto di eroe) perché poi lì “ti risollevi e vai avanti. Tutto qui. Per l’ennesima volta”. È l’eccezione che conferma la regola, perché se “a volte la felicità ti sorprende come una canzone portata dal vento”, ci sono momenti di una tristezza infinita e lacerante come in Perso di vista, un “canto di Natale” in cui va tutto a rotoli, come se non ci fosse una rete di salvataggio, o con La difesa-bogo indiana, dove un’urna funeraria viene rubata e sostituita con i resti di un barbecue. Va da sé che il protagonista del racconto “sapeva sempre qual era la cosa giusta da fare o da dire, ma solo perché nella vita aveva commesso un sacco di errori”. La tensione è costante e consuma le storie, anche quando una specie di lieto fine sembra apparire all’orizzonte. Succede in Banca d’America, un racconto costruito attorno a un gruppo di rapinatori dilettanti, che hanno una doppia vita, e sono pure fortunati, al punto che uno di loro dice: “Sembrerà una storia pazzesca sentita in giro, più che una parte della mia vita”. La linea di partenza, si capisce, è Carver, ma gli sviluppi sono più articolati e i dettagli più diluiti: i personaggi sembrano parlare ad alta voce, come quel tizio in Uccello-telefono, che riesce a sostenere che “Prima le cose mi succedevano, adesso invece sono io a decidere quando succedono”, o quell’altro in Prodotti realizzati da non vedenti che dichiara così la sua resa: “Ho tirato avanti. Ho lasciato passare gli anni. E adesso sto bene”. Ma siamo all’apice della rassegnazione: intorno c’è solo il deserto, la birra e il whisky al bancone di un bar, un’auto (a noleggio e in riserva) e un’idea fugace dell’amore, impalpabile come il crepuscolo ai limiti della civiltà occidentale.

Charles Wright

Il mare (“Il peso del mare uccide: te lo porti dietro per sempre. Spostalo, smistalo; te lo porti dietro, madre blu, per sempre”), la terra (“La terra è saliva, ciò che s’attacca come colla fresca. È per camminarci, è per distendersi, un lenzuolo sicuro per la risurrezione. La terra è quel che viene dopo di te, seguendo i tuoi passi, contandoti i denti, padre e figlio, padre e figlio del figlio, un coltello, un seme, piantati profondi quanto basta”), la luce (“La luce dalle stelle fa l’ombra uguale al corpo, la luce dal fuoco la fa più grande, là, sotto la parola”), l’incerto destino (“La polvere, com’è certo, risorge, allora risorgeremo, e ci raduneremo nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, una cascata nella cascata del mondo”) e un’intera visione viene ricondotta nei versi di Breve storia dell’ombra, un’accurata ed estesa antologia che racchiude tutta l’esperienza poetica di Charles Wright, comprendendo mezzo secolo di versi, dal 1975 a oggi. Una tensione costante verso il sublime, rintracciato e osservato con assiduità nella natura, cercando con convinzione di dimostrare che “in tutta la bellezza c’è qualcosa d’inumano, qualcosa che non si può sapere: nel nerbo e nel midollo d’ogni radice, d’ogni fiore; nella vena di sangue d’ogni roccia; nel polmone nero d’ogni nuvola, il seme, il seme infinitesimale che ti condanna, che ti rende un nulla, si nutre dei suoi confini e cresce”. Gli estremi richiamati con insistenza sono Dante e William Blake, maestri indiscutibili di ombre e guadi: Charles Wright deve aver pensato proprio a loro quando ha scritto che “il mondo è un libro magico, e noi le sue frasi. Lo leggiamo e leggiamo noi stessi. Si chiude, si volta pagina e non si torna indietro, restituiti a ciò che eravamo un tempo prima di diventare ciò che siamo. Ecco la storia che racconta il mondo, ecco come finisce”. La forma della poesia di Charles Wright è costante, un segmento che si ripropone lungo una linea precisa, senza sbavature, senza deviazioni: ineccepibile nell’enunciazione, ma i temi sono salti sorprendenti dalla descrizione della wilderness all’introspezione fino alla levigatura maniacale dei dettagli. Un metodo svelato in una poesia notturna dato che, “come la memoria, la notte è gentile con noi, cancella gli inutili dettagli”. Lo stupore è facile, perché “ogni parola, come uno scrisse una volta, contiene l’universo”. E c’è qualcosa di aulico, metafisico nelle poesie collezionate in Breve storia dell’ombra, un rapporto intimo, viscerale con le parole, eppure un modo distaccato, a volte persino leggiadro di affrontarle con uno stile rigoroso nella metrica, eppure fluido e sorprendente dato che, come dice il poeta, “anche se le situazioni e i concetti sono ampi, spero che le divagazioni portino nei pressi di casa”. L’indirizzo resta sconosciuto perché “ognuno è il suo inizio; ognuno, in sé, una fine” e alla fine anche Charles Wright diventa a sua volta un traghettatore che mostra la direzione, con un’indicazione sibillina, senza svelarla: “Cercateci presto sull’altra sponda dove la strada smotta, svoltano nella città invisibile”. In mezzo ci sono enormi silenzi, una componente irrinunciabile nelle allegorie di Charles Wright che, come ammette in Figliastri del Paradiso: “Con o senza lingua, c’è sempre spazio per un’altra vita. Abbiamo scaricato questa in un’incertezza inquieta, facendo un po’ di questo e un po’ di quello, mentre il tempo, disfattore vero, ci erode la punta delle dita, lasciandoci la memoria e la sua mossa finale, carta del cielo sfocata nella luce nera”. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, non sono molti i poeti che vantano questa artigianale raffinatezza nel lavorare le parole, e sono ancora più rari quelli che l’hanno fatto con la discrezione e l’umiltà di Charles Wright che in Riunione confessa: “Scrivo poesie per liberarmi, far penitenza e sparire dall’angolo alto a destra delle cose, per rendere grazie”. Un grande poeta, un libro prezioso.

martedì 7 settembre 2021

Barry Lopez

I capodogli spiaggiati e le reazioni della gente e delle istituzioni, le migrazioni degli uccelli, il deserto e il ghiaccio, i tori e i cowboy: lucidissimo osservatore, Barry Lopez tiene un filo perfettamente riconoscibile nel labirinto del paesaggio americano. Il suo “considerare ogni elemento del paesaggio, un canyon, una vita, un canto, come foriero di possibilità” è un lavoro di tessitura che cerca con costanza di “familiarizzare con l’ambiente”, perché è proprio lì che “talvolta basta concedersi di indugiare su colline e rive di fiumi senza pretese per sentire il cuore sazio di ciò che a lungo ha bramato”. Anche in condizioni estreme riesce a cogliere e a raccontare con precisione le connessioni dell’essere umano con il territorio, con la flora e la fauna: Barry Lopez è un narratore acuto e scrupoloso: consapevole che “ogni singola argomentazione in favore della difesa degli spazi incontaminati è tener conto del peso che questi ultimi possono avere nell’imprimere una direzione alla vita umana”, focalizza una splendida simbiosi tra passione e rigore, come quando nota “un’esplosione di fotoni che sprigiona nell’aria un tripudio di colore, giallo zafferano e ocra, rosa albicocca, rosso di robbia, verde perlaceo e grigio verde, rame, ambra e terracotta”. Le sue analisi del paesaggio sono mappe dettagliate e precise, ma anche visioni, ascolti, percezioni dettati dalle emozioni e nello stesso tempo dalla consapevolezza che “siamo capaci di riconoscere la bellezza di uno stormo di oche delle nevi che si staglia contro un cielo in tempesta così come riconosciamo la bellezza di una suite di violoncello; e da questo, a mio parere, si fa presto ad arguire che, se lasciamo che spettacoli simili vengano violati o distrutti per ragioni economiche o più frivole ancora, ne usciremo tutti profondamente e irrimediabilmente impoveriti”. Questo perché, seguendolo Attraverso spazi aperti, si incontra la distinzione (e la comunione) tra un “paesaggio esteriore” e un “paesaggio interiore”, dove “il paesaggio interiore risponde alla qualità e alla complessità di un paesaggio esteriore; la forma della mente è plasmata dalla collocazione geografica dell’individuo tanto quanto lo è dai geni”. È un equilibrio fondamentale e Barry Lopez tiene a precisare che “oltre a questo, al fatto che il paesaggio interiore è una rappresentazione metaforica di quello esteriore, che la verità si rivela più pienamente non nel dogma ma nel paradosso, nell’ironia e nelle contraddizioni che caratterizzano le storie migliori, oltre a questo c’è solo il fallimento dell’immaginazione: nel campo scientifico il riduzionismo, in quello religioso il fondamentalismo, il quello politico il fascismo”. Lo stato di precarietà del visitatore, l’empatia per la natura e la terra tout court, smuove quel  “sentimento per eccellenza che gli spazi aperti sono capaci di suscitare, questo sentirsi parte di un sistema di relazioni complesse che non ruotano intorno all’uomo, può essere inebriante quanto superare una serie di rapide particolarmente difficili. A volte le due cose coincidono addirittura”. In questo, Attraverso spazi aperti celebra “il potere della narrazione di nutrire e guarire, di lenire le pene dello spirito, si fonda su due aspetti: l’abile evocazione di fonti attendibili e la consapevolezza, in chi ascolta, dell’assenza di ipocrisia e inganno nel racconto”. Tradotto nell’afflato di Barry Lopez per il paesaggio (interiore ed esteriore) questo vuole dire “vivere la vita, qualunque vita, implica una sofferenza grande, intima, che perlopiù taciamo. In luoghi come l’Inner George questa sofferenza ci scivola via dalle dita. Lì non regna un silenzio reale, né si è così lontani dal tutto, da riuscire a sentirsi pensare; quello viene dopo. Prima senti il cuore che batte. Prima senti la vita”. Dopo aver letto Barry Lopez, si esce di casa e si vede il mondo in un modo diverso.