mercoledì 22 dicembre 2021

Robert Gordon

Nel raccontare la turbolenta biografia di Muddy Waters, Robert Gordon riporta per ben due volte la zuffa, avvenuta in nome dell’autenticità, tra Albert Hoffman, il manager di Dylan, e l’etnomusicologo Alan Lomax. Entrambi avevano ormai una certa età, eppure non trovarono di meglio di darsele di santa ragione. C’è una logica nella rissa e Robert Gordon, con la complicità di Keith Richards, spiega che l’oggetto del contendere era che “la purezza e la semplicità del blues, il suo carattere primitivo, sono un mito. Il blues, come le emozioni, è complesso. Blues è cantare per alleviare l’afflizione, sentirsi bene per il fatto di stare male. È una musica nata dalla sofferenza, che però trasmette piacere, un mezzo che ci consente di passare dal dolore al sollievo”. Quella di Muddy Waters è una vita che spiega il blues, come non si potrebbe diversamente, ma è vissuta a ritmi del rock’n’roll. Un’espressione legata al contesto sociale, che non ha dubbi sulla natura, sull’origine e sulla progressione del blues: “Il blues è un’arte mirabile, ma le condizioni che l’hanno creata erano strazianti. C’è una sola verità riguardante il blues che è rimasta praticamente immutata nel corso dei decenni ed è il fatto che tuttora è considerata una musica che affonda le sue radici nella povertà”. Robert Gordon narra con l’occhio del testimone oculare anche se, nei fatti, la sua ricostruzione è una storia orale, vista l’enorme massa di interviste e commenti che ha raccolto. Nella vita di Muddy Waters si sentono le voci di Honeyboy Edwards, Son House, Johnny Shines, Barbecue Bob, Texas Alexander, Roosevelt Sykes, Junior Parker, Willie Mabon, James Cotton, Chris Barber, Junior Wells, Pinetop Perkins, Alexis Corner, Steve Miller, Eric Burdon e Keith Richards che dice: “Questa musica è stata chiamata blues circa un secolo fa, ma la musica è una sensazione e non è possibile stabilire una precisa data d’inizio per le sensazioni. Le sensazioni nascono dalle persone e penso che questo sia il motivo per cui il blues è universale, perché è parte di ognuno di noi”. Robert Gordon è puntiglioso nel descrivere ogni singolo dettaglio, ogni aneddoto collocandoli nel contesto generale dello sviluppo del blues secondo Muddy Waters, per poi riportarlo alla sua essenza naturale con una definizione estrema, forte, incisiva: “Il blues, nato dalla frustrazione della libertà, cominciava a prendere forma. Il blues traeva origine dalle privazioni e divenne né più né meno di uno strumento di sopravvivenza. Come la musica gospel, il blues significava liberazione, forniva conforto. Il blues riguarda il momento presente e ti impone di dimenticare le tribolazioni passate e i guai futuri, di penetrare in quella canzone e in quella sensazione adesso, di abbandonarti completamente a essa. Anche se attinge da un enorme serbatoio di versi, distici, filastrocche e detti preesistenti, il blues è un genere di musica profondamente personale”. Muddy Waters si definiva “un cantante del ritardo”, perché c’era qualcosa di sospeso nel suo blues e c’è un senso se “in meno di tre minuti, arrivava dritto ai visceri, non servivano occhiali né istruzione”. L’unico segreto è molto semplice ed è stato svelato dallo stesso Muddy Waters: “Amavo la musica, ecco tutto”, e nemmeno il mercato discografico, i cui metodi non sono molto dissimili dalla mezzadria, è riuscito a piegarlo. Il valore delle sue canzoni è parte di un’evoluzione che va ben oltre il valore commerciale perché è un dato di fatto che “la ragione per cui il blues ha attratto tante persone differenti che appartengono a differenti culture, la ragione per cui questa musica continua a parlare al nostro cuore, è che il blues non è legato al luogo più di quanto non lo sia alle circostanze”. Ecco, ripercorrendo l’esistenza di Muddy Waters diventa chiaro che ha trasformato il blues, non solo dalla versione rurale e minimale a quella urbana, dal Mississippi a Chicago, ma anche nella sua sostanza tematica, e questo Robert Gordon lo dice in modo esplicito: “Attraverso Muddy il blues divenne una musica di speranza, non solo d’evasione. Quella che era stata la musica dell’oppressione diventò la musica della liberazione”. Indispensabile.

lunedì 20 dicembre 2021

Barry Gifford

Nella radio, Little Richard canta Lucille e il groove scandito asseconda e sottolinea la conversazione in corso tra madre e figlio, in viaggio attraverso l’America. Le voci si distinguono nitide e seguono un ritmo sincopato, ma non privo di una sua dolcezza. La vita si svolge tutta dentro l’abitacolo dell’auto, Roy, nove anni, è uno sguardo alimentato da una curiosità insaziabile e per la madre è una sorta di riflesso imprevedibile, che rimbalza in continuazione, tappa dopo tappa. Il viaggio non è organizzato, prevede deviazioni di percorso, reali e immaginarie, “una religione della geografia” che comprende frammenti del passato (“Ti ricordi come risuonavano le onde sulla spiaggia a Cuba? Il modo in cui schiaffeggiavano la sabbia, poi facevano una specie di sussurro mentre l’acqua si spargeva ovunque prima di ritirarsi. Una cosa completamente diversa dal suono del fiume a New Orleans”), valutazioni dedicata ai luoghi incontrati di volta in volta (“Secondo me dappertutto è successo qualcosa di importante per qualcuno, solo che certi ci hanno tirato su un polverone, a differenza di altri”) e di persone abbandonate al proprio destino (“Uomini e donne, che non si capiscono tra loro e non hanno neppure voglia di provarci, o non ne sono capaci”). Ogni frase è centellinata a costruire un microcosmo in movimento e l’ossessione di Barry Gifford per i dialoghi trova in Wyoming la sua apoteosi: sono il plasma che genera tutto, dai personaggi che vengono ricreati nel fluidificare del confronto tra madre e figlio alla visione del paesaggio che scorre parallelo alla strada. Le loro voci disegnano una fitta simbologia americana al 100%: una carrellata che scorre senza fine: motel, il serpente reale e quelli arboricoli, i seminole, la wilderness, la guerra di secessione, il Mississippi (“Scommetto che gli schiavi non pensavano che i campi di cotone fossero così belli”), il Texas alle spalle, New Orleans di passaggio, l’Alabama da qualche parte. Il percorso è tortuoso e contorto: un po’ elencano le località, un po’ gli stati che si susseguono, come a voler trovare una posizione, uno schema che nemmeno la mappa riesce a garantirgli. Si passa dentro l’America con una sequenza di città e smalltown, di incroci e mete oscure, evocando figure lontane o scomparse (a partire dal padre di Roy)  o che tendono a dissolversi nei ricordi e nella limitata ricostruzione delle parole. Nel colloquio senza sosta tra madre e figlio, il passato scorre almeno quanto la strada, due componenti che si srotolano apparentemente senza fine. È lì che Barry Gifford lascia intravedere un senso senza rivelarlo: l’impressione è proprio che il loro sia anche un viaggio nel tempo perché “gli anni si perdono, volano via e non riesci a ricordarli”. La vita resta inafferrabile e il Wyoming, tra l’altro nemmeno sfiorato nel lungo tragitto, è un’aspirazione, più che una meta reale, è uno stato della mente, una necessità, forse anche una scusa, proprio come dice Roy: “Mi piace quando siamo a metà strada, tra i posti da cui veniamo e quelli a cui siamo diretti”. Da grande narratore quale è, Barry Gifford non lo dice, ma lo lascia capire: una volta arrivati, è troppo tardi. La felicità resta tutta, sempre e solo nell’incertezza.

venerdì 10 dicembre 2021

Harlan Ellison

Secondo Stephen King, la letteratura per Harlan Ellison “è ed è sempre stata un nervoso groviglio di contraddizioni”, e ciò dipende dalla capacità di vedere altrove, di rispondere e corrispondere alle Visioni che fluttuano nel tempo e nello spazio, indagando simboli e miti di società distopiche del futuro che somigliano molto a quelle del passato e del presente, senza nascondere un’aperta avversione per la violenza, il controllo e, in definitiva, l’esercizio del potere. Il voluminoso complesso dei racconti di Visioni consente di avere una copertura totale delle tematiche attraversate da Harlan Ellison, a partire dal rapporto con le macchine, in particolare in Non ho bocca, e devo urlare o in 480 secondi, o la città condannata, dove l’ammirazione per i robot è palese: “Piccoli individui di metallo e plastica. Ho sempre provato simpatia per loro. Volete sapere perché? Chiedono così poco e danno tanto. Sono così gentili che a nessuno potrebbe venire in mente di essere crudele con loro, e perciò la loro è una vita felice. Sono soddisfatti del loro lavoro. Anche se voi non ci siete più le ruote del commercio continuano a girare per opera loro”. Ancora di più in Stazione di soccorso, dove l’uomo e l’automa destinato ad aiutarlo sono entrambi guasti e intrappolati in una sfida mortale, che sfida le regole di Asimov. Il rapporto con il futuro e con la mitologia è un continuum spazio-temporale parallelo all’ossessione per la diversità e l’alienazione che si vede nei personaggi richiamati di volta in volta: Arlecchino, la revisione di Jack lo Squartatore in L’ombra in caccia nella città sull’orlo del mondo, (“Siamo una cultura che crea i suoi assassini e i suoi mostri e poi fornisce loro l’unica cosa che Jack non è mai riuscito ad avere: la realtà”), un viaggio di Gulliver nell’era dei talk show in Ma guarda, un uomo in miniatura, ma anche Django dedicato a Django Reinhardt e ai maquis francesi, fino alla celebrazione di Anubi. È l’apologia per Gli svitati o Gli scarti, dove “ciascuno pensava d’essere meno orribile e ripugnante degli altri”, e l’emarginazione da sistemi omologati e oppressivi diventa un’indispensabile via di fuga. La scrittura è friabile, pop, effervescente, psichedelica (e, sì, contraddittoria), ma ricchissima nel collocare i dilemmi filosofici, i rapporti con creature di altri universi (Il cielo sta bruciando), le mutazioni del nostro pianeta, raccontate con proprietà scientifiche efficaci quando Harlan Ellison spiega Il morso della seggiola e racconta degli “gu” o di uomini e animali parlanti in Un ragazzo e il suo cane, un racconto paradossale in una città devastata dai combattimenti. C’è comunque una guerra che ha distrutto tutto e in Fenice, o Soldato, il senso antimilitarista e pacifista di Harlan Ellison affiora nitido: le sue Visioni sono “un universo oscillante”, ma il valore aggiunto della fantascienza diventa il carburante di una percezione critica. La costruzione dei racconti segue uno schema consolidato, ma non per questo privo di sorprese, perché riguarda sistemi che sono diventati incontrollabili. Le dimensioni si dilatano, le forme mentali e quelle reali tendono a sovrapporsi e a intersecarsi: per esempio, Nel quarto anno di guerra in realtà non parla di un conflitto armato, ma una presenza nella mente, uno scontro schizofrenico, che trasforma una persona in un killer. E così ogni storia è un tuffo senza rete in direzioni impensabili, che Harlan Ellison mostra con nonchalance e nella somma di tutti i racconti il paradosso diventa una logica stringente: “Qualunque cosa avessero pensato di essere, qualunque forma di arroganza avesse dato origine ai loro sogni, ora era giunta ai suoi ultimi momenti e, dopo quei momenti, non c’era nulla. Niente spazio e niente tempo, niente vita e niente pensiero, niente dei, niente resurrezione e niente rinascita”. Le Visioni di Harlan Ellison conservano e tramandano un grande scrittore, capace di forzare l’immaginazione a esplorare mondi impossibili, mondi che non finiscono mai, o che finiscono un’infinità di volte perché contengono “un germe di pensiero” che ci accompagna in dimensioni dove gli esseri umani si rivelano per quello che sono: fallibili.