mercoledì 28 marzo 2018

Joy Harjo

Questa selezione di liriche che, dal 1975 al 2001, attraversa un periodo consistente della poesia di Joy Harjo mette in luce una voce singolare, non sottomessa, ricca e coraggiosa. Capace di ricordare che se, all’inizio, “volevamo solo parlare, sentire una qualche voce per rimanere vivi” (Chiamala paura), con il tempo è cresciuta la certezza che “continuiamo a respirare, a camminare, più piano ora, con le nuvole in vortici dell’aria sopra di noi. Cosa possiamo dire per comprendere meglio di quanto già abbiamo capito?” (Anchorage). Il persistente uso della prima persona plurale, che diventa predominante ed esplicito in Promessa di cavalli blu (“Noi siamo una piccola terra. Non è una cosa semplice. Alla fine noi saremo polvere insieme, da usare per una casa, fermare un’inondazione o coltivare cibo per quelli che non ricorderanno mai chi fummo, o mai sapranno della furia del nostro amore”) è un tratto che rimanda sia alle caratteristiche native, sia alle peculiarità femminili, rese chiarissime in Per Alva Benson e per coloro che hanno imparato a camminare: “E noi proseguiamo, continuando a partorire e a guardare noi stesse morire, sempre e di nuovo. E la terra che ruota sotto di noi continua a parlare”. Le immagini danzanti di spiriti, alberi e animali, di tribù e famiglie, dello Scheletro dell’inverno o di un’Orsa bianca, di Bird alias Charlie Parker (“A volte sopravvivere è un salto nella pazzia”), dei sogni e delle preghiere e delle cerimonie nell’oscurità e nella luce e dei “ruderi indiani” sono “poesie viventi” che si nutrono di simboli per evocare “la storia fantastica e terribile” di una sopravvivenza. Una lingua tortuosa, sensibile, speziata che ha una sua precisa identità perché, secondo Patricia Clark Smith e Paula Gunn Allen, “ciò che vive nell’opera della Harjo è che tutto il paesaggio che incontra di volta in volta ha un’identità, una vitalità e un’intelligenza particolari. Vitalità e intelligenza nella natura che sono del tutto diverse dalle emozioni che un poeta angloamericano proietta su di esso: la vita nei paesaggi della Harjo fa sì che le poesie siano scritte al di fuori di un mero tentativo di compenetrazione”. I richiami fortissimi vanno oltre le radici native: consapevole che “c’è qualcosa più vasto della memoria di un popolo espropriato” (Grazia) e , nello stesso tempo, che “ci sono altre parole in altre lingue, sempre in movimento” (Qualcuno sta parlando), Joy Harjo tesse una ragnatela di “impulsi” e “frammenti” che hanno la sequenza ritmica di un assolo di sassofono, uno strumento che “può complicare le cose” e il tono e l’atmosfera che sfiorano L’ultimo canto: “L’unico modo che conosco per respirare, un canto antico, mia madre sapeva che era nato da una storia intessuta di alta erba umida nel suo grembo, e non conosco altro modo se non avvolgere la mia voce con canti estivi di grilli in quest’aria umida e notturna del sud”. Spesso sono racconti distillati in versi, appunti di viaggio (compreso l’omaggio a New Orleans) e  corrispondenze da crinali e frontiere, compresi quei “cavalli che piangevano nella birra”.  Anche immersa nell’incanto dell’elemento naturale, tra il deserto e l’oceano, la scrittura di Joy Harjo si distingue con fermezza, come declama in Fuoco: “Guardami, io non sono una donna divisa, io sono la continuità del cielo azzurro, sono la gola delle montagne, un vento notturno che brucia a ogni suo respiro”. Ed è con la stessa forza che torna ancora a richiamare un antico senso comune, ribadendo come “non ci siamo mai illusi di essere altro che umani”. Almeno questo, sarebbe da studiare a memoria.

sabato 24 marzo 2018

Raymond Carver

L’ultima raccolta di racconti di Raymond Carver, che recupera storie scritte tra il 1983 e il 1987, celebra quella capacità che, come ha scritto Salman Rushdie, “gli consente anche di riflettere l’oscura e disordinata realtà del cuore”. Lo stile oltre a consolidarsi nella brevità dei soggetti, si è fatto ancora più misurato, quasi rarefatto da una meticolosa economia di parole. Più che short stories queste sono sospensioni sul ritmo, conversazioni lasciate a metà, luci che si accendono e si spengono, come quella che brilla nella veranda in fondo a Scatole. Spesso i dialoghi scorrono lungo le linee telefoniche, la cadenza dettata dalle pause per un boccata di sigaretta, come succede in Chi ha usato questo letto, o dalle indecisioni sulla soglia di porte che il più delle volte si aprono sul passato, sui dubbi, sulle sconfitte. In questo senso, l’incipit di Intimità è memorabile perché concentra in un poco meno di una pagina tutta la sensibilità di Raymond Carver. L’incontro fortuito, tra ex (marito e moglie), in una discussione serrata è un crescendo di reciproche  rimostranze finché il protagonista, ormai cose se stesse parlando solo con sé stesso, dice: “Rimpianti, dico io. Non è che mi interessano tanto, a dir la verità. Non è una parola che uso molto spesso. Soprattutto perché non ne ho molti, immagino. Ammetto di aver un debole per il lato oscuro delle cose. Il più delle volte, almeno. Ma rimpianti? Mi pare proprio di no”. Nello spontaneo accostamento tra Intimità e Menudo, un dettaglio ricorrente suggerisce l’idea che tra i due racconti non ci sia soluzione di continuità. Il proposito di rastrellare le foglie che l’autunno lascia libere di cadere, apparso nel finale di Intimità, viene svolto da un personaggio secondario, il signor Baxter, in Menudo. L’osservazione del suo lavoro è solo un piccolo intervallo nelle riflessioni del protagonista (“Non mi sto mica lamentando, sto semplicemente dicendo le cose come stanno. Sono ridotto a non credere più a niente. E devo andare avanti così. Senza destino. Solo la prossima cosa che mi capita e che significava quello che penso che significhi. Mi tocca andare avanti per impulsi ed errori, come tutti del resto”) eppure, anche soltanto per quel breve momento, incarna l’identikit del personaggio tipico di Carver, quasi una sorta di modello definitivo perché “anche nei suoi momenti migliori il signor Baxter è una brava persona, un tipo qualunque che non si può prendere per una persona speciale neanche per sbaglio. Ma lui è una persona speciale almeno secondo me sì. Tanto per cominciare ha una notte intera di sonno dietro di sé, e poi ha appena abbracciato la moglie prima di andare al lavoro. Ma prima ancora che parta, è già atteso a casa un certo numero di ore dopo. È vero, nel più grande ordine delle cose, il suo ritorno a casa sarà un evento della minima importanza, però sarà sempre un evento”. Questo limite, nella sua essenzialità, diventa l’affilato contorno anche di Elefante e Pasticcio di merli, come se Raymond Carver, tra una telefonata nel pomeriggio e una busta infilata sotto la porta, volesse mostrarci le vere dimensioni del contrattempo di vivere, avendo acquisito la certezza, come scriveva in Menudo, che “siamo tutti gente per bene, tutti noi, ma solo fino a un certo punto”. Il nucleo è sempre quella precarietà che trova un’applicazione eccezionale in L’incarico. Frutto dell’equilibrata simbiosi tra un saggio e un racconto dedicato al crepuscolo di Čechov ricorda come lo scrittore russo in mancanza di “una visione politica, religiosa o filosofica del mondo” si dedicasse a descrivere come i suoi eroi “amano, si sposano, si riproducono, muoiono e come parlano”. Non è difficile intuire che, nel fragile gioco delle parti, Raymond Carver parlasse di se stesso.

lunedì 19 marzo 2018

Tom Drury

La canzone che Tom Waits canta da un ispirato jukebox dice che “c’è una casa nel mio isolato, che è abbandonata e fredda delle persone se andarono da lì tanto tempo fa, e presero tutte le loro cose e non tornarono più indietro sembra come stregata con le finestre tutte rotte e tutti la chiamano la casa, la casa dove nessuno vive”. Per Follard, solitario e piromane, che sta architettando un disastro e la ascolta mentre mangia “luccio e patatine”, è una canzone “triste”. Per la cameriera che gli avvicina con i dessert che hanno “un’aria vecchia e rinsecchita”, non di meno è “una cazzo di canzone tristissima”. Può essere, ma il senso di A caccia nei sogni è proprio nel refrain di House Where Nobody Lives, quando dice: “Ciò che rende splendida una casa non sono i tetti o le porte se c’è amore in una casa sicuramente è un palazzo, senza amore… Non è altro che una casa, una casa dove nessuno vive”. Fin dall’inizio, nella Grouse County ritorni e partenze sono determinanti per trovare un posto da chiamare “casa” e se “finché non si è indipendenti ci si accontenta di un letto improvvisato, sognando il letto robusto e bello che un giorno o l’altro si avrà”, prima o poi “è una cosa sensata, in una certa misura” pensare di fermarsi tra quattro mura. Sarà per quello che i percorsi nella Grouse County si sono fatti più brevi e le sue frazioni non sono così numerose come in La fine dei vandalismi. Ne vengono attraversate più o meno sono la metà, visto che: a) il tempo tende a smussare gli istinti per la fuga e: b) “i fantasmi non scelgono dove andare”. Charles (che non vuole più essere chiamato Tiny) Darling è tornato a casa, sta cercando quel “senso di solidità” che a lungo gli è sfuggito, ha imparato un mestiere (l’idraulico) e a muoversi da animale domestico, compresa la riflessione che l’ha portato ad aver “capito troppo tardi quali erano le persone che voleva vicino e cosa avrebbe dovuto fare per non perderle”. Gli rimane un’ossessione nella forma di un fucile a cui è legato, ma che è rimasto nelle disponibilità di una vedova. Siamo in America e un’arma è più di un’arma. È un diritto sancito dalla costituzione e ribadito (in tempi recenti) dalla corte suprema. E così “Charles era convinto che un’arma andasse usata, una volta ogni tanto. Un fucile non poteva essere soltanto un oggetto decorativo appeso alla parete da una persona che non aveva alcun legame con il suo primo proprietario”. Charles e la sua idea fissa, proprio al contrario di quello che succedeva in La fine dei vandalismi, rimangono immobili al centro di una spirale di movimenti imprevisti. Arriva Lyris, Joan parte e trova il dottor Palomino, Follard vaga nei boschi e la tragedia incombe, ma Tom Drury ha tutta una sua gentilezza nei confronti dei spersonaggi, un modo per aiutarti a trovare una collocazione, anche quando se ne devono andare o sono sull’orlo del fallimento (quasi sempre) o sono proprio a metà strada, in transito, “a caccia nei sogni” o in balia degli eventi. Tom Drury li assiste da vicino i personaggi, non li lascia mai soli dato che s la Grouse County è un luogo dove non è difficile finire nei guai, nel caso chiedere a Follard, e alla sua passione per il cherosene. A sottolineare questa vicinanza, come se fosse lì, sono i dialoghi brevi, incisivi, espressivi. Un risparmio di parole che alla fine serve con tutti i piccoli rimandi e le connessioni tra i personaggi, soprattutto ad annodare i singoli racconti di quella comunità di storie che distingue lil territorio della Grouse County. Non c’è consolazione in A caccia nei sogni, ma almeno Tom Drury sente l’urgenza di avvertire che “il meglio che possiamo fare è ricordarci l’uno dell’altro e, per l’amor del cielo, fare una telefonata quando vediamo che è tardi”. Un’avvertenza più che opportuna,  prima che le case restino vuote e fredde. Rimane sottinteso, nell’oggetto del desiderio di Charles Darling, la questione pubblica numero uno dell’America, che Tom Drury rende esplicita nell’acronimo “TCDA”, ovvero “troppe cazzo di armi”. Il vero dramma è quello lì.

mercoledì 14 marzo 2018

Bob Dylan

Premesso che Dylan ha trasformato il conferimento del premio Nobel in un happening della Beat Generation (compresa l’emozionantissima Patti Smith), nell’incredulità, nella meraviglia e nello stupore, con cui l’ha ricevuto va trovato il primo germe delle risposte ufficiali raccolte in The Nobel Lecture. Quando dice che si tratta di “una cosa che va al di là delle parole”, si rivela ancora una volta sorprendente in tutti i suoi amletici dubbi. Il tentativo di renderli pubblici, se non proprio di sviscerarli, nella “lecture” vera e propria, parte proprio da Shakespeare, perché come diceva Ralph Waldo Emerson “la sua mente è l’orizzonte oltre il quale, al momento attuale, non vediamo”. L’influenza, inevitabile, passa, secondo Dylan, nel distinguere   tutte le sfumature, nell’imparare i dettagli, e nel “concedersi” di sognare, un proposito che trova l’humus ideale per e con la letteratura. I tre libri messi al centro dell’attenzione da Dylan sottolineano un’idea di un conflitto continuo che va ben oltre il tentativo di ricondurlo su un piano intelligibile anzi, piuttosto con l’idea di espanderlo verso “nulla di davvero razionale”. Ed è contigua e parallela la condizione del viaggio, di un’eterna transazione, di un esilio mascherato che comincia con Moby Dick. Il motivo potrebbe spiegarlo Harol Bloom: “In Moby Dick e nel capitano Achab si scontrano a viso aperto due poteri, o agenti (per usare il termine di Angus Fletcher), demonici. L’intervento demonico è la tradizione nascosta della letteratura americana, un’affermazione più chiara se riferita alla narrativa (Poe, Melville, Hawthorne, Twain, James Faulkner) che alla scrittura sapienza (Emerson, Thoreau) o alla poesia (Whitman, Dickinson, Frost, Stevens, Eliot, Hart Crane). Nella narrativa, i personaggi sono posseduti da demoni, conquistatori che in qualche modo mettono ordine in un caos di altri io indisciplinati. La creazione lirica e saggistica di immagini diventa un metodo per ordinare l’io autobiografico in suoni più sottili, demarcazioni più spettrali”. L’idea del “demone” non gli è mai stata estranea, almeno quanto una vicinanza alla realtà del “political world” che nell’immenso songwriting dylaniano si è tradotto attraverso i suoi “principi, una sensibilità e una certa consapevolezza del mondo”. Un ruolo a maturare quella percezione che porterà Bob Dylan nei libri di storia (molto prima del Nobel) l’ha avuto Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il romanzo  di Erich Paul Remark alias Erich Maria Remarque, ha convinto Dylan che  “la guerra non ha limiti”, ma per comprendere l’immane frattura del primo conflitto mondiale, che in La bellezza e l’orrore Peter Englund definisce “un universo emotivo”, occorre rileggere quello che, nelle stesse pagine, scriveva René Arnaud: “In tempo di guerra la sofferenza mentale peggiore è quando il pensiero precorre l’azione, il gioco irrefrenabile dell’immaginazione che dà forma in anticipo ai pericoli e li moltiplica. È noto che la paura del pericolo è più snervante del pericolo stesso, come il desiderio è più inebriante del suo appagamento”. I veri demoni del genere umano passano in quelle trincee. Rimane l’Odissea, che in sé riassume gli altri due volumi: c’è il mare, il viaggio, le battaglie, soprattutto l’idea omerica di una storia cantata, a cui Dylan si ricollega per una sua autobiografica esegesi. Sintetica e conclusiva quando dice, con molta semplicità: “Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che importa. Io non so qual è il significato di una canzone, ho scritto qualunque cosa nelle mie canzoni e di sicuro non mi preoccupo di quale sia il loro significato”. Il discorso di The Nobel Lecture è un po’ tortuoso, ma ne vale la pena perché quello di Dylan è un canone a parte e chiedersi se è letteratura (o non lo è) è una speculazione limitante (certo che lo è), salvo voler relegare la letteratura all’accademia e ai topi da biblioteca e il Nobel a un ruolo di custodia che non ha mai avuto. La bizzarria imposta da Dylan a tutto il processo non è stata soltanto folklore, quanto un modo di liberarsi di un peso, di smaltire la sorpresa, di concedersi una via di fuga sempre nella convinzione “che la prima regola per chi vuole essere sovversivo è di non far sapere a nessuno che sei sovversivo”. Inafferrabile.

lunedì 5 marzo 2018

Tom Wolfe

Un uomo vero è Il falò delle vanità rivisto alla fine del ventesimo secolo: l’idea di “tessere i fili di una narrazione”, sperando “soltanto che si dipani naturalmente” porta Tom Wolfe a disseppellire i fotogrammi di un’era e ad aggiornarli. A modo suo perché, come ha detto presentando Un uomo vero nella sua complessità “la maggior parte degli scrittori dice di scrivere qualcosa di cui si conosce. Non c’è niente di male, ma c’è sempre qualcosa di limitante nel mettere una sorta di recinto attorno a chi sta scrivendo”. È vero, si è preso tutte le libertà necessarie, ma una crisi dopo l’altra, la storia non è andata molto diversamente. Per Un uomo vero come Charlie Earl Croker, il self-made man protagonista del romanzo di Tom Wolfe, è venuto il momento della verità: il suo mondo sfarzoso, fatto di jet personali, mogli e figli da mantenere in abbondanza, rischia il fallimento. Croker, un tycoon che ha imposto un nuovo skyline ad Atlanta, si è avventurato sull’onda lunga delle speculazioni finanziarie, quando ormai “le cose sono cambiate”. Una fase a cui Tom Wolfe dedica un lungo passaggio all’inizio di Un uomo vero, che nasce da una riflessione molto più ampia: “Penso che il ventunesimo secolo sia cominciato nel 1989, quando è caduto il muro di Berlino: l’America è oggi al suo zenith e questo è il suo secolo e l’America è il paese in cui tutti vorrebbero essere. È libero, sano ed eccitante”. Lo spot contiene molta della pungente ironia che distingue Un uomo vero come un “romanzo sociale” (la distinzione è dello stesso Tom Wolfe) e nello stesso tempo offre la cornice in cui si svolge la rovinosa caduta di Croker. Dopo l’euforia degli anni delle reaganomics, un periodo in cui la cognizione di debito è stata stravolta fino alla radice, le banche scoprono voragini e sperperi e cominciano a rastrellare i crediti che ancora sono esigibili, prima che sparisca tutto nel nulla (compresa la loro parte del bottino). Il dato economico è solo una componente della dimensione delle distorsioni del potere, visto che Croker e i suoi accoliti “erano persone di cultura che discutevano di prestiti, di edifici e di magazzini alimentari, ma dovevano ridurre sempre tutto a sesso, o a sesso e merda”. È una lotta per la sopravvivenza che non ha ruoli definiti, e Wolfe è abilissimo nel tracciare le coordinate di quell’intreccio tra finanza, mondanità, politica e vita quotidiana in una città ambiziosa e complessa come Atlanta. S’incrociano destini impossibili, e ad un tratto, diventa chiara tutta la sequenza dei legami che possono unire ambienti apparentemente distanti e diversi tra loro: la working class di Oakland, California (dove l’altro personaggio del romanzo Conrad Hensley si ritrova nella disperazione), l’establishment politico di colore e il gotha finanziario bianco, Un uomo vero che si è costruito una fortuna da solo (ed è interessante leggere quale doppia funzione possano rappresentare il credito per lui e per i suoi banchieri) e il brusio in sottofondo alle mostre di arte contemporanea. Tom Wolfe non fa che elevare all’ennesima potenza la sua specialità, ovvero “esplorare e descrivere meglio che posso i mondi in cui si muovono i miei personaggi” e si dimostra un cronista infallibile, e divertente (che non guasta mai). In Un uomo vero, l’obiettivo è raggiunto: il nuovo falò delle vanità si consuma attorno a uomini e donne e, per estensione, a un’intera città, sono così presi dall’orgoglio, dalle voglie sessuali e dalle ambizioni politiche da non accorgersi nemmeno del proprio fallimento.

giovedì 1 marzo 2018

Elizabeth Strout

Tornare ad Amgash, Illinois vuol dire riaprire ferite mai rimarginate, ritrovare quello che è successo nell’infanzia, che resta per sempre, e riprendere la cernita tra chi è partito e chi è rimasto. Amgash è una cittadina circondata da campi di patate ed è vero che Tutto è possibile, anche che ai genitori venga perdonato il passato, ma altrettanto vero che i Burton (e non solo) hanno vissuto un’infanzia degna di Charles Dickens, così poveri da dover rovistare nei bidoni della spazzatura. I morsi della fame non riguardano soltanto il cibo. Quello è solo l’effetto collaterale di famiglie, che pur deboli e claudicanti, restano un centro di permanente gravità dove tutti sono “cresciuti nutrendosi di vergogna; la vergogna era stato il concime del loro terreno”. Di motivi ce ne sono almeno quanti tuberi nella terra e, con metodo, con lentezza, con un senso della misura (persino eccessivo) nei dialoghi in cerca delle “frasi vere”, Elizabeth Strout ricostruisce tutto lo scenario di Amgash che resta una piccolo luogo di provincia “in the middle of nowhere”, dove tutti conoscono tutti eppure si confondono perché “non sappiamo che cosa vuol dire un bel niente, a questo mondo”. Spesso sono storie di un dolore indicibile, che viene esorcizzato attraverso i dialoghi (soprattutto) femminili, come se parlarne servisse a limitare le perdite, ricucire gli strappi, circoscrivere i danni. Non è così, anche se rimane Tutto è possibile, e i racconti sono concatenati uno nell’altro, con una certa naturalezza e con la figura di Elvis che appare a ricordare che è stato lui, più di tutti, a fuggire e a inseguire un sogno. Non è una coincidenza che Lucy Barton, evocata in continuazione nella prima parte di Tutto è possibile, entri in scena proprio al centro, in coabitazione con il fantasma più famoso d’America. Lucy “se n’era andata da tanto e aveva finito per sistemarsi a New York”, è una delle poche che ha studiato, ha superato i confini imposti da Amgash e ha avuto “molte cose da fare”. Un prezzo da pagare c’è comunque e lo si vede nello straziante incontro con il fratello Petie e la sorella Vicky: Lucy è colta da un attacco di panico e riparte in tutta fretta verso Chicago. È il climax di Tutto è possibile, alimentato poi dalle sorelle Nicely, da Charlie Macauley, da Mississippi Mary e da altre famiglie, i Guptill, gli Small, che cercano con risultati alterni “la sola guaina capace di proteggerti dal mondo: amare un’altra persona di cui si condivide la vita” e si ritrovano a considerare che, sì, Tutto è possibile, compresa la sensazione di non riuscire a cogliere un senso, una destinazione, anche soltanto per un fugace momento. Sarà Annie Appleby, un’altra ragazza che se ne è andata per diventare attrice (e che è una specie di riflesso di Lucy) nel corso della ricostruzione del Canto di Natale a spiegare il varco temporale tra immobilità e possibilità: “Pensò a come per anni in palcoscenico aveva usato l’immagine di se stessa sulla via sterrata per mano a suo padre, con la distesa dei campi coperti di neve intorno, i boschi in lontananza, e la gioia a fiotti nelle vene, come aveva usato quella scena per sentire gli occhi che le si riempivano di lacrime, di felicità e di perdita al tempo stesso. E ora si chiedeva se addirittura fosse mai successo, se davvero la via fosse stata un tempo stretta e sterrata, se mai suo padre l’avesse tenuta per mano e le avesse detto che la cosa più importante per lui era la sua famiglia”. E si torna lì, è inevitabile, ed è così che lo rappresentava Elizabeth Bowen in La morte nel cuore: “Come le guaine dei germogli, l’immaginazione infantile non solo protegge, ma modella il terribile germogliare dell’anima; non solo protegge l’innocenza contro il mondo esterno, ma il mondo contro la forma dell’innocenza”. La stessa metafora (la guaina) è più che un indizio: sì, Tutto è possibile, eppure qualcosa rimane inalterato, un nucleo delicato e pesante, votato a segnare il destino. Più delle storie, più delle parole.