giovedì 31 gennaio 2019

David Lynch

Con la filmografia che si ritrova alle spalle, David Lynch è stato un regista con un occhio molto attento sia alle idee (“Devi essere lucido per creare. Devi essere in grado di catturare le idee”) che alla loro realizzazione (“Fai semplicemente ciò da cui ti senti attratto, senza sapere mai che cosa accadrà”) e In acque profonde ha raccolto e reso pubbliche le sue riflessioni su Meditazione e creatività, due temi il cui accostamento non è così semplice, e che necessita una piccola premessa. La passione di David Lynch per la meditazione trascendentale non deve ingannare: nelle sue “acque profonde” non ci sono exploit esoterici, contemplazioni mistiche, sacre o profane che siano, o traballanti teorie new age. La sua attitudine e la sua percezione sono più legate all’arte, alla creatività e allo spirito di adattamento con cui è necessario affrontare la magia (e la fatica) di raccontare un mondo attraverso le immagini, la parola, il pensiero. Sfruttando l’equilibrio della meditazione, David Lynch racconta, rileggendo le sue esperienze cinematografiche, l’influenza che questa può avere sulla creatività, sulla gestione dei progetti e delle idee, sulla conduzione della vita quotidiana, a partire dall’intuizione principale, che spiega così: “Ti innamori della prima idea, quel tassello piccino piccino. Una volta che lo tieni in mano, il resto verrà da sé”. È in quel frangente che Meditazione e creatività si fondono e si sovrappongono per “catturare il pesce”, per isolare la scintilla perché “l’idea è tutto. Non tradirla e ti dirà tutto ciò che c'è da sapere, sul serio. Basta che continui a impegnarti perché il risultato abbia lo stesso aspetto, la stessa atmosfera, gli stessi suoni e sia preciso identico all’idea. È strano, quando ti allontani dal percorso, in qualche modo lo sai. Capisci che stai facendo qualcosa di sbagliato, perché lo senti”. La logica per navigare In acque profonde è quella che vede l’opera dell’ingegno davanti e sopra tutto, come scrive lo stesso David Lynch: “L’opera d’arte deve bastare a se stessa. Quello che voglio dire è che sono stati scritti tantissimi capolavori della letteratura, gli autori sono ormai morti e sepolti e non puoi tirarli fuori dalla fossa. Hai il libro però, e un libro può farti sognare e riflettere”. Ecco, se c’è qualcosa di misterioso, di fantastico che ritorna nelle sue riflessioni (scritte quasi in forma di aforismi, molto semplici, scorrevoli, agili ed eleganti) è l’aspetto onirico e qui si ritorna alla sua passione e al suo lavoro principale, il cinema, che anche qui descrive come un sogno: “Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C'è un silenzio profondo, ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo”. È proprio così ed è esattamente in quel mondo a parte in cui per le idee “il desiderio è come un’esca" che la meditazione aiuta ad entrare o almeno a creare lo stato d’animo per non perdere il treno che sta passando così veloce da rendersi, il più delle volte, invisibile. In un ultimo, ideale aforisma David Lynch svela il segreto per non lasciarselo sfuggire: “Le idee arrivano nei modi più impensati, basta tenere gli occhi aperti”. Per un regista, non poteva essere altrimenti.

martedì 29 gennaio 2019

Allen Ginsberg

La domanda era: “Se la verità fosse esplosa?”, e la risposta andarono a cercarla, più che nel vento, tra le note di Charlie Parker, Thelonious Monk, Dexter Gordon, Dizzy Gillespie, Lester Young, Lester Young, Wardell Gray, Lennie Tristano, Ornette Coleman e  Don Cherry che risuonavano nella notte. Questo è l’inizio di una “nuova visione”, emanata dalla purissima invenzione americana del jazz, quella “luce senza stelle”, come la definiva Gregory Corso, che spinse un manipolo di vagabondi a definire “l’opposizione alla civiltà delle macchine militari-industriali”, che non è mai abbastanza. Prima di arrivare a coltivare utopie profetiche e sacrosante, erano “sulla strada” e, come ricorda Allen Ginsberg, “stavamo facendo autostop e dovevamo ammazzare il tempo, quindi componevamo frasi per stupirci a vicenda”. Improvvisando, proprio come gli ammiratissimi jazzisti, capirono che “dimenticare il mondo e divertirsi con le parole” li portava lontano e, di sicuro, regalava “una certa dose di libertà”. Le Lezioni sulla Beat Generation di Allen Ginsberg cominciano proprio dalla sua definizione, ricordando il ruolo di Herbert Huncke nelle fasi embrionali (“Si può dire che Herbert Huncke sia stato il primo fautore della nozione di Beat Generation o della nozione dell’ethos del Beat e dei concetti di Beat e schiettezza”) e arrivando a delimitarne i confini, sulla coda dello sviluppo della discussione tra John Clellon Holmes e Jack Kerouac: “La Beat Generation è innanzitutto un movimento spirituale e quindi quello che ho raccolto sono campioni di risvegli spirituali, di esperienze rivelatrici, esperienze di illuminazioni, alterazioni della coscienza o intuizioni psichedeliche articolate da persone che c’erano fin dall’inizio come parte del gruppo originale”. Questi i presupposti, poi ampliati, un capitolo dopo l’altro, attraverso l’analisi e il dialogo con i protagonisti: Kerouac (“Era più uno scrittore che una persona. Il suo argomento era l’America e la promessa dell’America. L’America come poesia”), Burroughs (con la sua predisposizione a “esplorare le idee fino all’estremo”), Corso, Neal Cassady, e naturalmente lo stesso Ginsberg, trovano un posto di riguardo come “esseri umani che si confrontano l’un l’altro, a cuore totalmente aperto”. In apparenza, le lezioni sono tortuose, ma seguono un modello ben preciso: Allen Ginsberg è un divulgatore assiduo e innamorato, molto attento alle forme, ma anche alle biografie e persino a singolari aneddoti, ci cui è farcita la storia della Beat Generation. Episodi ben noti e ribaditi più volte e momenti più oscuri, sono collocati uno accanto all’altro e collezionati con cura, sempre a testimonianza del fatto che “chiunque fosse coinvolto letterariamente (nella Beat Generation) ha provato qualche tipo di rottura con l’ordinaria natura della coscienza e ha sperimentato, ha assaggiato una coscienza più espansa o una sorta di satori. C’è sempre stato, come elemento centrale d’indagine, quello della natura stessa della coscienza e di quelle che si potrebbero chiamare visioni o esperienze visionarie”. D’altra parte, le digressioni letterarie sono brillanti, puntigliose, molto attraenti, costantemente volte a ribadire “la letteratura come un nobile mezzo di indagine delle nostre menti”. Ginsberg procede illustrando le influenze e le letture: le più frequenti che si notano sono Thomas Wolfe (da non confondere con Tom Wolfe, come avrebbe puntualizzato la Pivano), Melville, Kafka, William Carlos Williams ed Edgard Allan Poe per non dire il richiamo continuo all’Idiota di Dostoevskij e a Il tramonto dell’occidente di Oswald Spengler. Quelle di Allen Ginsberg sono lezioni sui generis, certo né didattiche né accademiche. Il suo è un flusso continuo che riunisce ricordi e interpretazioni in un approccio che è, in sostanza, una testimonianza diretta. È un insegnante molto efficace perché genera entusiasmo, passione, interesse, procedendo senza schemi. Non poteva essere diversamente dato che “l’intera questione era raggiungere una relazione originale con la mente, la compassione e l’empatia, raggiungere una consapevolezza immediata piuttosto che farlo perché viene detto qui in un libro o nella società. Metà delle regole della società sono in ogni caso regole di guerra, prive di compassione”. Le uniche istruzioni sono contenute nell’appendice di Dottrina e tecnica della prosa moderna ovvero il decalogo che compone il metodo di scrittura di Jack Kerouac, e per estensione l’intero suo pensiero, ben riassunto dal comma che dice: “Componi in modo selvaggio, indisciplinato, puro, procedendo dal basso, più è folle meglio è”. Ginsberg non solo gli è molto vicino (“Se siete solidi, non dovete rispettare le regole di nessuno, non dovete neanche produrre senso, non dovete nemmeno scrivere una storia”), ma è come se, nelle Lezioni sulla Beat Generation, si fosse fatto carico di enunciare il valore di flusso che non si è mai fermato. Le convergenze sono lampanti. Dove Kerouac diceva che “perfino nel momento di maggiore piacere o soddisfazione, c’è un preciso centro vuoto di cui ci si accorge, che lo induce a pensare che il mondo fosse troppo carico di sofferenza perché qualcuno abbia avuto il tempo sufficiente per comprendere la difficoltà di fondo e l’insoddisfazione dell’esistenza”, Ginsberg ribadisce, nell’assemblare la sua versione della Beat Generation, che “tutto è poesia nel senso che lo abbiamo immaginato, lo abbiamo compreso e lo abbiamo fatto”. Tutto quello che c’è da sapere è qui dentro oppure in un cielo stellato, nella suite di un sassofono impazzito o nel sogno di una strada aperta, e di un mondo senza armi, e senza frontiere.

lunedì 28 gennaio 2019

Gregory Corso

Selezionate dallo stesso Gregory Corso le liriche raccolte in questa voluminosa antologia rappresentano, come meglio non si potrebbe, l’essenza della sua poesia che, senza alcun dubbio di sorta, coincide anche con la sua stralunata esistenza. Un risvolto autobiografico arriva nelle battute finali di Mindfield, quando il Poeta che parla a se stesso nello specchio si trova a fare un punto della situazione che recita così: “Salve, sono io. È diventata patentemente assurda questa caccia a me stesso, credendo che quando sarei stato stanato, avrei trovato non solo me ma tutto uno suolo, me passati, me futuri, l’intero armamentario, e tutti gli anni, dov’è che sono arrivato, in questo punto del tempo, questo non è lo stesso stesso specchio in cui mi sono contemplato anni fa. È lo specchio che cambia, non il povero Gregory”. Il percorso per arrivare lì in fondo è fatto di montagne russe che s’impennano e poi precipitano repentinamente, senza precauzioni, dato che l’unico segnale all’ingresso di Mindfield dice che è “inutile imbrattare il mondo con: pericolo, divieto d’accesso, teschio, è pericoloso sporgersi. La mia proprietà è il dolore! Qui non c’è ringhiera, non c’è avviso”. Il suo cut-up “naturale”, fatto di “trasformazione ed evasione” ha spinto Allen Gisnberg a sostenere che “Gregory Corso pensava, diciamo, per dissonanze”. La definizione è estrapolata da un’analisi molto più considerevole di un’estetica che “consisteva nella contraddizione, nel disaccordo delle idee e anche della musicalità, del suono del verso”. Secondo Ginsberg, Corso “era interessato a prendere gli effettivi elementi dei suoi pensieri, come il chiaro di luna, le prugne, le autopompe, il Natale, il padre, la madre, i piselli e poi capovolgerli perché si contraddicessero. E attraverso questi disaccordi, o autocontraddizioni, creare una divertente sorta di armonia o bellezza”. Concetti ribaditi anche nell’accorata prefazione di Mindfield che si conclude così: “Corso è un poeta dei poeti, il suo verso puro velluto, prossimo a John Keats per il nostro tempo, squisitamente addentro ai modi della musa. È stato e sarà sempre un poeta caro a molti, risvegliatore di giovani, indovinello e piacere per i più anziani e sofisticati bibliofili, immortale per quanto si può essere immortali, capitan poesia che incarna la rivoluzione dello spirito, la sua poesia come l’opposto dell’ipocrisia”. Non finisce qui perché gli appunti per un’altra presentazione, quella di William Burroughs, confermano che “Gregory Corso è un poeta. Ha la rara missione di un puro talento lirico. E non ha mai dubitato di questa missione”. Superati i tributi, gli omaggi, i riconoscimenti tutti giusti e dovuti e finalmente arrivati al poeta si capisce fin dalla dedica che il diluvio di Mindfield è destinato ai “conservatori di tutte le cose belle”, anche perché qui c’è il vero Gregory Corso, la sua voce, il suo ritmo, la sua musica, non l’immagine irruente, deviante, caotica che si portava dietro ai quattro angoli del mondo. Ed è una voce forte, senza esitazione, capace di omaggiare Charlie Parker (“Bird era più andato del suono, ruppe la barriera con un trillo del sassofono, Bird era più su della luna”) e Miles Davis e di fiutare nell’aria l’imminente apocalisse, ma anche di sentirsi parte di quei poeti battuti e beati, portatori sani di un’idea di America in lui e i suoi amici si ritrovarono “sradicati”, essendo diventati a loro volta delle “radici”, o meglio ancora, dei Semi in viaggio. Il confronto è continuo, serrato degno dell’esuberanza linguistica di Gregory Corso, un poeta che, evidentemente, conteneva moltitudini, come lui stesso ha ammesso ricordando anche “quelli, quelli senza nome, quelli che mi hanno messo al tappeto, ma io mi sono rialzato, io mi rialzo sempre, e giuro che quando andavo al tappeto, piuttosto spesso me ne sono stato; nulla muove una montagna, tranne se stessa. Quelli, è da molto che li chiamo me”. Se non bastassero le poesie (comprese porzioni di Benzina) e nell’insieme la dimostrazione di Elegiaci sentimenti americani nel “campo mentale” fioriscono anche i disegni, gli schizzi e una cronologia curata dallo stesso Gregory Corso, una serie di dettagli che lo rendono, così, una mappa ancora più fedele alla sua arte e alla sua vita. Nel bel mezzo c’è anche la Bomba, naturalmente, e un ultimo, puntuale ricordo di William Burroughs: “Il rozzo contestatore inglese che buttò una scarpa contro Gregory mentre leggeva Bomba non capirà mai la poesia e i poeti, poiché la realtà poetica non ha niente a che fare con la realtà politica o sociale. Gregory dispone di un altro raro dono. Ha una voce. Quando si pensa a Gregory, si sente la sua voce. Questo non è sempre un fatto positivo ma a Gregory giova, perché la sua è una buona voce. La voce di Gregory echeggia attraverso un precario futuro. La si sentirà finché ci sarà qualcuno in ascolto”. Il messaggio è sempre “on air”: esteso, multiforme, scoppiettante, e necessario.

giovedì 24 gennaio 2019

Wendell Berry

La filosofia di Wendell Berry è chiara, molto pragmatica, e per niente ideologica. C’è un mondo solo ed è destino viverci dentro, insieme, come un’unità, e “se vogliamo salvare la terra dobbiamo salvare le persone che appartengono alla terra. Se vogliamo salvare le persone dobbiamo salvare la terra a cui appartengono le persone”. Un’equazione ecologica ed economica che viene articolata attraverso i recenti saggi (dal 2010 al 2013) di L’unico mondo che abbiamo, nitide testimonianze della sua  distanza dai modelli di riferimento prevalenti. L’avversione di Wendell Berry per la meccanicità del pensiero è ribadita a lungo perché la frattura parte proprio da lì, dalla rimozione di alcune parole sostanziali (solidarietà, su tutte) e dalla ripetizione di leitmotiv frustranti e intoccabili. Wendell Berry è molto preciso nel sottolineare come la riduzione e la semplificazione del linguaggio sottintendono “un dissidio formale tra economia umana ed economia della natura, o tra economia ed ecologia”, al punto che “l’ipotesi dominante sembra essere che un’economia fiorente possa essere sostenuta solo dall’abuso: quello della terra e delle persone che la lavorano”. È da questa deformazione che discendono tutte le crepe insanabili nella connessione con la terra: come scriveva in Soluzioni agricole a problemi agricoli, ancora nel 1978, “è possibile che il cambiamento più drammatico e distruttivo dell’epoca moderna, in ultima analisi, sia stato un cambiamento di linguaggio: l’ascesa dell’immagine e della metafora della macchina”. Il processo di industrializzazione (comprese, non ultime, le sue propaggini belliche) obbliga “a sostituire la scienza alla cittadinanza, al senso di appartenenza alla comunità e alla buona gestione della terra”, ma “il vero problema è la politicizzazione della vita personale o privata”. È lì che “le certezze morali troppo semplificate, che richiedono sempre ostilità e sono sempre potenzialmente violente, ci isolano dalla clemenza, dalla pietà, dalla pace e dall’amore, per lasciarci soli e afflitti nella nostra miseria”. Mosso da una sincera preoccupazione per lo stato della terra (e dell’America in particolare), Wendell Berry denuncia senza paura, rilevando quanto siano pericolose e quanto costino, le idiosincrasie e la costruzione quotidiana dei luoghi comuni, ricordando che “quando la gente inizia a sostituire le storie della memoria locale con le storie degli schermi televisivi, un’altra parte essenziale della vita viene perduta. Io ho ancora memoria delle storie della mia piccola comunità rurale. Narrando e rinarrando queste storie, le persone raccontavano a loro stesse chi erano, dov’erano e che cosa avevano fatto. E così, nella conversazione ordinaria, mantenevano viva la loro stessa memoria”. Le sue valutazioni partono proprio dall’osservazione sul campo e dalle interazioni dell’uomo con la natura e consolidano l’urgenza di tornare a un senso di appartenenza alla terra, il valore in sé di “un’autentica, antica, necessità umana di possedere e di appartenere a un pezzo di terra, per quanto piccolo o povero, con cui e per il quale vivere e di cui prendersi cura, un luogo in grado di offrire sostegno per sé e le proprie famiglie e, se necessario, ai propri vicini”. La collocazione di quel “paesaggio economico” parte dall’unità di misura che Wendell Berry definisce “occhi-per-acro”, cioè una dimensione la cui visibilità è parallela alla vivibilità e in cui “camminare” non è soltanto il mezzo di locomozione preferito (insieme ai cavalli) ma la pratica iniziale di una vocazione: “Dobbiamo pensare di nuovo a cose come reverenza, umiltà, affetto, familiarità, vicinato, cooperazione, frugalità, appropriatezza e fedeltà locale: ci riporteranno al meglio del nostro patrimonio. Ci riporteranno a casa”. Ed è naturale che nel suo afflato si manifesti la speranza di “una popolazione di custodi della terra connessa ai nostri paesaggi economici di legami di piacere, d’economia, di affetto e di lunga memoria, in possesso dei mezzi culturali e dei giusti imperativi per esercitare una buona cura”. Nella percezione di Wendell Berry, nell’unico mondo che abbiamo “un ecosistema, la rete di relazioni attraverso la quale un luogo e le sue creature si sostengono reciprocamente in vita è, in ultima analisi, misterioso come la vita stessa” e “ogni volta che compiamo una scelta decidiamo per il nostro futuro, e ogni scelta fatta ci coinvolge nel mistero e in una sorta di tragedia”. Gli esempi, partendo dalla realtà del Kentucky, uno stato devastato dallo sfruttamento minerario e dalle colture intensive, sono all’ordine del giorno e Wendell Berry pone l’accento sui costi pagati dalla terra e dagli uomini che l’abitano. Al contrario, se esiste un modo per salvare L’unico mondo che abbiamo è che “tutti i nostri usi del mondo naturale dovranno essere governati dalla volontà di imparare a conoscere la natura di ogni luogo, e di sottoporre lo sfruttamento di ogni luogo ai limiti e alle esigenze della natura”. Detto con maggior convinzione, “le possibilità di un reale miglioramento della nostra vita economica, ossia del nostro modo di vivere per mezzo della terra, giace non solo nello stabilizzare l’occupazione del nostro paese sulle basi di un intelligente attaccamento ai suoi luoghi, ma anche nella comprensione del valore economico di beni intangibili come conoscenza, memoria, familiarità, immaginazione, affetto, comprensione, vicinanza e così via”. Wendell Berry non si limita alla denuncia (doverosa): il suo senso pratico è troppo pronunciato per non sapere che comunque “la responsabilità di un’economia migliore, e di una vita migliore, appartiene a noi come individui e alle nostre comunità”. Sì, il messaggio è semplice: è L’unico mondo che abbiamo, sarebbe meglio considerarlo per quello che è.

martedì 22 gennaio 2019

John Sinclair

Un “guerrigliero della poesia”, il deus ex machina degli MC5, il critico musicale capace di spendere pagine e pagine per Sun Ra (nonché di svenarsi per farlo suonare), l’attivista senza sosta a cui John Lennon ha dedicato una canzone, l’uomo libero capace di sogni di splendide svolte, suoni e visioni, l’ultimo beatnik: John Sinclair è stato ed è ancora tutto ciò e Va tutto bene. It's All Good è un ritratto che nonostante le ridotte misure del volume (neanche trecento pagine in formato tascabile) e la sua composita natura (ma già all’inizio viene spiegato che “va gustato e metabolizzato come un programma radiofonico”, ed è un’indicazione tutt’altro che superflua) offre una percezione piuttosto chiara del personaggio e soprattutto delle sue idee che, ormai una rarità, sono rimaste coerenti e cristalline nel tempo. In effetti, si tratta di una variopinta antologia degli scritti, dei discorsi, delle idee nonché delle passioni di John Sinclair che rivelano una trama comune e fondante, poi resa esplicita dalla quella rivendicazione, inequivocabile che recita così: “Abbiamo diritto ai nostri vizi & non sono fatti vostri, quello che facciamo”.  A partire dagli MC5, che, come dichiara nell’intervista compresa nell’introduzione a cura di Matteo Guarnaccia, nascono come entità politica piuttosto che come rock’n’roll band: “Con gli MC5 volevamo sovvertire il governo degli Stati Uniti, né più né meno, non certo ottenere un contratto discografico”. Agli MC5 è dedicato un corposo capitolo centrale, non senza qualche appunto polemico (“Trent’anni sono un periodo lungo per chiunque, soprattutto per vita impantanate in frustrazione, povertà e disperazione. Ma ogni tanto capita un piccolo miracolo, e di colpo tutto torna sulla rotta giusta e il futuro si apre su una nota nuova di zecca, e chi è riuscito a sopravvivere si ritrova al centro del palco, dove merita di stare”), ma John Sinclair si spende con altrettanta devozione per Jack Kerouac, Thelonious Monk, Iggy Pop, New Orleans o John Coltrane. A volte si tratta di saggi oppure recensioni o note di copertina di qualche disco o ancora trascrizioni di discorsi e incisioni, ma poi è la poesia, almeno nella forma più beat e beata a rappresentare il suo spirito libero e allora Va tutto bene. It’s All Good serve “per continuare a tenere su la testa & saldo il cuore, per proseguire i miei viaggi & continuare la lotta, per ancora un nuovo anno, portare le mie piccole poesie & un forte e intenso sguardo sul mondo in ogni luogo in cui la gente vorrà ospitarmi”. Tra un poesia e l’altra (compresa una piccola e perfetta autobiografia in versi, Capita tutto a me), un discorso contro le guerre e a favore dell'immaginazione (“La verità è che possiamo muoverci fino a dove ci porterà la nostra immaginazione”) John Sinclair trova anche il modo di raccontare la sua (e nostra) America perché “è stata la cultura di strada a far grande l’America, e quando la vita rimane sulle strade, là ci sarà sempre grande musica, grande poesia, grande pittura, grande arte d’ogni genere, a riflettere e restituire alla gente di strada energia e vivacità”. Un grande sognatore. 

giovedì 17 gennaio 2019

Kem Nunn

La California raccontata da Kem Nunn in Surf City sembra essere un luogo dove tempi e spazi si sono irrimediabilmente confusi. È come vedere un film che è Easy Rider nel primo tempo e Point Break nel secondo o tutti e due insieme. È una miscela esplosiva tra lunghe digressioni psichedeliche tipicamente Grateful Dead e Jefferson Airplane e rapide detonazioni in sequenza modello X o Gun Club. È un romanzo che avrebbe potuto scrivere Warren Zevon (che a sua volta è stato abbondantemente saccheggiato da Christophen Brookmyre in Un mattino da cani) da Hunter Thompson, se non fosse: a) completamente fuori di testa; b) fin troppo lucido, a proposito: per capire qualcosa della politica spettacolo, americana o meno, Meglio del sesso è il vademecum perfetto. Le coordinate sono più o meno queste. Nel tessuto di Surf City ci sono però due sottoculture molto vicine al rock’n’roll, ma per certi versi distanti e contrastanti, ovvero l’Harley e il surf, che s’incontrano sullo sfondo di un commercio di anime non propriamente metaforico. Ike Tucker, attitudine da loser e meccanico di professione, è proprio con le Harley (e relativi proprietari) che deve vedersela per scoprire dove (o come) è finita la sorella, spinta dalla voglia di lasciare il deserto dove hanno vissuto e attirata dal sogno californiano. C’è una scia di rimpianti che deve seguire perché “lei era stata tutto quello che aveva avuto per molto tempo. E alla fine, quando era stata lei ad aver bisogno di lui, lui non c’era stato, non nel modo giusto almeno”. La decisione di partire è conseguente e repentina. Ad Huntington Beach, la Surf City in questione, l’arrivo di Ike Tucker non è salutato con particolare gioia e il suo desiderio di verità farà scattare, come lame di un coltello a serramanico, gli equilibri tra gang, vecchi rancori e antiche amicizie, rapporti d’affari e legami sentimentali in un crescendo notevole. Non di meno, il contrasto tra l’oceano, esplorato sulle tavole da surf, e il deserto alle spalle introduce uno sguardo più riflessivo che Ike Turner inaugura così: “Le spiagge a Huntington erano ampie e piatte, i colori tenui, quasi al minimo. Qui lo scenario era selvaggio, i colori lussureggiavano in tutte le loro gradazioni. Lunghe file di colline si srotolavano verso il mare per rompersi poi in ripide rocce a precipizio, una combinazione di rossi e marroni. Sotto le rocce c’erano piccole mezzelune bianche e punte rocciose che portavano al Pacifico. C’erano solo i richiami per gli uccelli, la brezza nell’erba e le onde che si frangevano molto sotto di loro”. Le parentesi idilliache durano giusto il tempo di prendere fiato: il romanzo funziona grazie al ritmo serrato, anche se non tutto gira alla perfezione. A volte i livelli del viaggio iniziatico di Ike Tucker e quelli del sostanziale noir che c’è nelle fondamenta di Surf City si confondono e Kem Nunn non è altrimenti abile a districarsi. Però la lettura è avvincente, priva di spigoli intellettualoidi e con un lungo finale degno di Brian De Palma. Cinema, ancora: anche perché Kem Nunn fa lo sceneggiatore e molte scene di Surf City (comprese quelle tra le onde) hanno proprio un taglio da celluloide, e tanto dovrebbe bastare. Oppure fidatevi del grande maestro del noir, Elmore Leonard che di lui ha detto: “Kem Nunn appartiene a quella rara specie di scrittori che sanno preparare una storia e come raccontarla. Qui c’è un’energia straordinaria”. Niente di più, niente di meno.

sabato 12 gennaio 2019

Jesse Ball

Nessun nome, nessuna indicazione, ed è giusto così: sapendo di non avere un futuro davanti, avendo perso la moglie, un medico rinuncia a tutto e, con l’unico figlio, accetta l’incarico di lavorare per un imponderabile Censimento. Nel contesto, tanto mistero ha una sua logica stringente perché “la vita è assurda, e davvero non ha senso, è solo una questione di corpi di varia grandezza che entrano in collisione nello spazio, se hanno la fortuna di essere vicini gli uni agli altri”. Il censimento, e, parallelo e contiguo, l’alfabeto delle “città invisibili”, hanno il compito di assecondare una sequenza, di creare un ordine. Non sono solo le tappe obbligate del Censimento: c’è qualcosa di più nel suo succedersi, quasi un’indicazione subliminale. L’etimologia è radicata nella valutazione, nell’identificazione dei valori, nell’annoverare, contare, stimare eppure “il censimento è una specie di crociata nell’ignoto”, e tale rimane fino in fondo, ma prima viene l’alfabeto. L’essenza del codice, delle parole con cui Jesse Ball e tutti noi proviamo a trovare un senso si sviluppa una città dopo l’altra, dove padre e figlio si avventurano immaginando che  “il luogo che ti aspetti è davvero lì ad attendere te”. Il diario di bordo è rarefatto: paragrafo per paragrafo, Jesse Ball distilla un’atmosfera che alterna momenti cupissimi e sprazzi di luce, mentre matura l’idea di un passaggio, di una trasformazione, di una metamorfosi, in fondo, la cognizione che “in un modo o nell’altro siamo tutti in cerca di un fardello adatto”. Ogni incontro è un’incognita, ogni porta si apre su uno squarcio di sofferenza, di abbandono, di fatica, rivelando, in definitiva, “l’orrore della nostra vita, l’orrore che ci ha portati qui”: una sorta di via Crucis nei gironi della solitudine (americana) in tante stazioni quante sono le lettere dalla A alla Z. Il punto di non ritorno si può collocare intorno all’episodio di un padre che ha tagliato i pollici al figlio per impedirgli di lavorare nella fabbrica di corde, dove spesso si muore. Ecco, lì si tocca un estremo urticante, e non è l’unico, perché il simbolismo (più mitteleuropeo, che anglosassone) di Jesse Ball prevede molti diversivi lungo la strada: l’ornitologia, la fotografia, la ferrovia, il gioco. Lo stesso Censimento ha in sé qualcosa di biblico (la notte di Natale erano in viaggio proprio per quello) e, più di ogni altro dettaglio, è la soglia a diventare il luogo d’elezione. Il Censimento prevede anche un tatuaggio (questo, in effetti, è un dettaglio inquietante, visti i precedenti storici) e i tatuaggi richiedono qualcosa in più della disponibilità e della vicinanza: sono un’intrusione nel corpo, e addio, privacy. Si capisce che non tutti sono propensi e molti incontri si svolgono proprio sul bordo delle case. Ai due “misuratori” non resta che adeguarsi all’ospitalità, o (spesso) alla sua assenza. Il protagonista al centro è invisibile, speciale (il figlio con la sindrome di Down è ispirato alla vita del fratello di Jesse Ball) e convoglia su di sé la semplicità perduta delle emozioni, ed è lì che il naturale attrito tra censimento e alfabeto diventa un modo per compiere una sorta di collocamento, di ordine, dove l’ordine non c’è. Molto del Censimento avviene proprio sulla soglia dove le reazioni sono imprevedibili, e così è il romanzo, che è molto originale nel mostrare quello che vuol nascondere, e viceversa. Più ci si inoltra, e più si ha l’impressione che si tratti di una serie di incubi, ma con uno sguardo ravvicinato ci si accorge che Censimento è una partita a scacchi con il lettore e lo scacco finale è prevedibile, doloroso, perfetto.

lunedì 7 gennaio 2019

Richard Ford

L’estrema fortuna è esplicito e diretto a partire dall’incipit, che anticipa e riassume il suo svolgimento: “Quinn sentiva di aver bisogno di un colpo di fortuna. Rae sarebbe arrivata da Città del Messico nel pomeriggio e, se piazzavano bene i soldi, Sonny sarebbe uscito dalla prisión tre giorni dopo e si sarebbe tolto dalle scatole. La fortuna, pensò Quinn, ha sempre avuto un debole per l’efficienza. Lo diceva pure un proverbio persiano. E da quando era arrivato ad Oaxaca, era stato efficiente fin nei più miseri dettagli. Anzi, efficiente era la sola cosa che era riuscito ad essere. L’unico punto di cui non poteva esser sicuro, e che lo impensieriva, era se l’aver fortuna faceva ancora parte della sua personalità”. Protagonista combattuto e pensieroso, Harry Quinn è incastrato tra Sonny, che è stato arrestato per traffico di cocaina e Carlos Bernhardt, un ambiguo avvocato messicano, e Rae, ma sa che “in un modo o nell’altro, in tutte le situazioni ci si caccia sempre da soli e, alla fin fine, è da soli che bisogna scontarne le conseguenze”. Quinn fa fatica a “tenersi al corrente con la propria vita”, è un reduce del Vietnam, in un paese straniero dove “non si ha un quadro di riferimento che permetta di farsi la giusta immagine mentale”, gli dice un ragazza italiana che non è italiana, ed è travolto dai ricordi, che compaiono in repentini flashback . L’arrivo di Rae funziona da detonatore e imprime un’ulteriore sterzata a L’estrema fortuna che si evolve in un noir sui generis, mentre Quinn si convince che “la felicità crea un sacco di problemi, non ultimo dei quali il dover essere in grado di sopportare d’esser felice”. La recensione di Raymond Carver racconta molto di quello che succede durante L’estrema fortuna: “Alla fine di questo superbo romanzo Quinn e Rae hanno compiuto un giro che li ha riportati al punto di partenza e il cuore rallenta e poi riaccelera nel momento in cui loro spezzano quel cerchio e se ne allontanano. Ma per tutto il romanzo abbiamo assistito a una significativa e secondo me, in fondo, trascendente parabola di condotta umana. Ford è un narratore magistrale. In questa sua visione desolata di perdita assoluta seguita da un salvifica redenzione all’ultimo minuto, L’ultima fortuna appartiene alla stessa categoria di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e di Il potere e la gloria di Graham Greene”. Sì, l’atmosfera e la luce sono quelle giuste, ma qualcosa non è a fuoco. Richard Ford si avvicina alla perfezione quando deve affrontare gli snodi esistenziali di Quinn (e, di riflesso, di Rae), ma è come se i contorni della storia fossero insufficienti a contenere il processo di continua introspezione. Quando, nonostante l’ambiente e le circostanze siano parecchio ostili, giunge alla conclusione che “l’amore gli sembrò un posto dove poter stare, un posto in cui non poteva entrare niente che desse fastidio”, Quinn si è lasciato alle spalle una mezza dozzina di cadaveri, ma la missione è ancora incerta e così L’estrema fortuna. La conclusione resta in sospeso su un confine, che non è (soltanto) il border, ma una frontiera tra l’assenza di trattativa dell’azione in sé e, al contrario, l’infinito patteggiare della riflessione e dell’osservazione, che come sappiamo, diventeranno poi gli elementi portanti della scrittura di Richard Ford.

venerdì 4 gennaio 2019

Raymond Carver

Nonostante la natura frammentaria, da questa selezione di “saggi, poesie e racconti” emerge una sfumatura del lavoro (e della vita) di Raymond Carver che si dipana dal valore delle parole, attraverso le dimostrazioni pratiche di un metodo di lettura e scrittura, disseminate qua e là. Tra l’abbozzo di un romanzo (I taccuini di Augustine), le prime prove poetiche (Il tradimento: “Come la cattiva reputazione, comincia dalle dita, dalle loro bugie”), una sceneggiatura e una riflessione su “storie in cui accade qualcosa di importante”, è come se un piccolo, ma non trascurabile tassello della personalità di Carver trovasse il suo posto, fin dal momento in cui annuncia: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato. Comunque, in entrambi i casi, è un’arte”. Molto interessante la sezione dedicata all’attività critica di Carver dove, oltre a indicare chiaramente le coordinate della sua prospettiva (“Scelte. Conflitto. Dramma. Conseguenze. Narrativa”) spiega, una volta di più, come prende forma la scintilla essenziale e irrinunciabile: “Quando si finisce di leggere un bellissimo racconto e si mette via il libro, ci si dovrebbe fermare un momento, come per riprendersi. In questo momento, se lo scrittore è riuscito nel suo intento, si dovrebbe formare un senso di comunione emotiva e intellettuale. O, se non proprio un senso di comunione, perlomeno la sensazione che le disparità di una situazione cruciale ci sono state presentate sotto una nuova luce e questo è per noi un punto di partenza”. L’autonomia delle scelte e la sincerità dei giudizi non sono mai indolori ed è un prezzo che va pagato. Più che esemplare il casus belli scaturito dall’analisi delle short story di Donald Barthelme, dove Raymond Carver non si risparmiò, offrendo una particolareggiata e lucidissima analisi. In uno dei passaggi salienti, sosteneva, senza alcun timore reverenziale: “C’è la sensazione che in questi racconti tutto sia permesso, cioè, niente debba avere un senso, che non ci sia una cosa che ha maggiore pertinenza, peso e valore di un’altra. Questo è un mondo ridotto al lastrico, ragazzi, e perciò tutto è relativo”. Sentendosi bistrattato, Donald Barthelme reagì suggerendo a Tess Gallagher che quando non ci piace qualcosa potrebbe essere “sufficiente circondarla d’una generosa dose di silenzio”, idea che, al di là del caso specifico,  resta comunque sempre valida. Tra gli autori più citati, l’amatissimo Čechov a cui Carver dedica lunghe dissertazioni, ma nelle recensioni e nelle selezioni antologiche si svela una vasta panoramica di autori americani: Charles Baxter, Ann Beattie, James Lee Burke, Jim Harrison, Thomas McGuane, Richard Brautigan, Frank Conroy, Amy Hempel, John Irving, John Gardner, Bobbie Ann Mason, Joy Williams, Andre Dubus, William Humphrey, Gina Berriault, Vance Bourjaily e, last but not least, Sherwood Anderson. Il quadro che ne esce è un Carver meno solitario e più inserito in un contesto di alleanze e complicità, più propenso a condividere le passioni letterarie, e non solo.  L’Amicizia con Richard Ford e Tobias Wolff, celebrata dalla testimonianza in coda a Per favore, non facciamo gli eroi, mostra un Carver sorridente e, se non proprio felice, almeno a suo agio. Il motivo, oltre ai compagni di avventure, non va cercato molto lontano. Nel recensire due biografie di Hemingway, Carver dedica una particolare attenzione al tono, al punto di vista, alla costruzione della trama e la conclusione a cui giunge, pur con le dovute differenze, si adatta alla perfezione a Per favore, non facciamo gli eroi quando dice che “lo scrittore è ancora l’eroe della storia, in qualunque direzione essa si sviluppi”.