giovedì 17 gennaio 2019

Kem Nunn

La California raccontata da Kem Nunn in Surf City sembra essere un luogo dove tempi e spazi si sono irrimediabilmente confusi. È come vedere un film che è Easy Rider nel primo tempo e Point Break nel secondo o tutti e due insieme. È una miscela esplosiva tra lunghe digressioni psichedeliche tipicamente Grateful Dead e Jefferson Airplane e rapide detonazioni in sequenza modello X o Gun Club. È un romanzo che avrebbe potuto scrivere Warren Zevon (che a sua volta è stato abbondantemente saccheggiato da Christophen Brookmyre in Un mattino da cani) da Hunter Thompson, se non fosse: a) completamente fuori di testa; b) fin troppo lucido, a proposito: per capire qualcosa della politica spettacolo, americana o meno, Meglio del sesso è il vademecum perfetto. Le coordinate sono più o meno queste. Nel tessuto di Surf City ci sono però due sottoculture molto vicine al rock’n’roll, ma per certi versi distanti e contrastanti, ovvero l’Harley e il surf, che s’incontrano sullo sfondo di un commercio di anime non propriamente metaforico. Ike Tucker, attitudine da loser e meccanico di professione, è proprio con le Harley (e relativi proprietari) che deve vedersela per scoprire dove (o come) è finita la sorella, spinta dalla voglia di lasciare il deserto dove hanno vissuto e attirata dal sogno californiano. C’è una scia di rimpianti che deve seguire perché “lei era stata tutto quello che aveva avuto per molto tempo. E alla fine, quando era stata lei ad aver bisogno di lui, lui non c’era stato, non nel modo giusto almeno”. La decisione di partire è conseguente e repentina. Ad Huntington Beach, la Surf City in questione, l’arrivo di Ike Tucker non è salutato con particolare gioia e il suo desiderio di verità farà scattare, come lame di un coltello a serramanico, gli equilibri tra gang, vecchi rancori e antiche amicizie, rapporti d’affari e legami sentimentali in un crescendo notevole. Non di meno, il contrasto tra l’oceano, esplorato sulle tavole da surf, e il deserto alle spalle introduce uno sguardo più riflessivo che Ike Turner inaugura così: “Le spiagge a Huntington erano ampie e piatte, i colori tenui, quasi al minimo. Qui lo scenario era selvaggio, i colori lussureggiavano in tutte le loro gradazioni. Lunghe file di colline si srotolavano verso il mare per rompersi poi in ripide rocce a precipizio, una combinazione di rossi e marroni. Sotto le rocce c’erano piccole mezzelune bianche e punte rocciose che portavano al Pacifico. C’erano solo i richiami per gli uccelli, la brezza nell’erba e le onde che si frangevano molto sotto di loro”. Le parentesi idilliache durano giusto il tempo di prendere fiato: il romanzo funziona grazie al ritmo serrato, anche se non tutto gira alla perfezione. A volte i livelli del viaggio iniziatico di Ike Tucker e quelli del sostanziale noir che c’è nelle fondamenta di Surf City si confondono e Kem Nunn non è altrimenti abile a districarsi. Però la lettura è avvincente, priva di spigoli intellettualoidi e con un lungo finale degno di Brian De Palma. Cinema, ancora: anche perché Kem Nunn fa lo sceneggiatore e molte scene di Surf City (comprese quelle tra le onde) hanno proprio un taglio da celluloide, e tanto dovrebbe bastare. Oppure fidatevi del grande maestro del noir, Elmore Leonard che di lui ha detto: “Kem Nunn appartiene a quella rara specie di scrittori che sanno preparare una storia e come raccontarla. Qui c’è un’energia straordinaria”. Niente di più, niente di meno.

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