venerdì 26 luglio 2024

William Least Heat-Moon

Ancora una volta, “in giro per l’America”, prende forma più che un reportage turistico, una “topografia della mente” e per William Least Heat-Moon quello lungo Le strade per quoz è un viaggio diverso da tutti gli altri. Non è circolare e istintivo come Strade blu (a suo modo, generico), non è specifico e concentrato come Prateria o monotematico come Nikawa, ma in un certo senso li riassume tutti. Scorrono taverne e pescatori, contrabbando e speculazioni in Florida, fuochi fatui in New Mexico, le foreste del Maine, città fantasma e spiriti irrequieti, le spedizioni di Lewis e Clark e di Hunter e Dunbar, antiche pietre miliari e biciclette sulla ferrovia, esperimenti ed eccentricità, l’omaggio dovuto a Jack Kerouac e alla Beat Generation nonché l’ombra di Thoreau e quella di Mark Twain, i due punti di riferimento di un “cronista delle strade americane” come si definisce William Least Heat-Moon. Per l’occasione rinuncia alla solitudine e viaggia in compagnia di Q e, a ritroso nel tempo, di Mo e Le strade per quoz prevedono “un programma fatto più di direzioni che di destinazioni”. La meta è l’ideale quoz, in effetti più uno state of mind, che una tappa geografica, tenendo comunque ben presente due concreti capisaldi. Il primo riguarda da vicino lo spirito  dell’osservazione perché “nominare qualcosa, di reale o immaginario, significa dargli vita nel mondo reale del suono. Dal nulla sorge qualcosa”. Come diretta conseguenza, il secondo turning point che prevedono Le strade per quoz dipende dal fatto che “è nella nostra natura prendere parte a un luogo e ai suoi avvenimenti restituendoli in immagini e in parole, e in questo modo giungere a un’appartenenza: appartenere non semplicemente a un luogo, ma all’interno di esso”. La riscoperta dell’America è una cronaca alla ricerca dell’autenticità o di una storia da raccontare, assecondando comunque il precetto per cui “partire non sapendo esattamente il perché è proprio il motivo primario per partire, e scoprirne il perché è l’esito più promettente e potenzialmente soddisfacente”. Il termine e la definizione del viaggio in sé occupano spazi ricorrenti lungo Le strade di quoz. L’istinto a partire nasce, senza dubbio, da “quel vecchio stimolo che c’è dentro di noi a trovare tracce di un significato etereo-cosmico nelle nostre vite, un briciolo di prova che suggerisca che il nostro piccolo assemblaggio di atomi su due gambe sia qualcosa di più di un breve e irrilevante interludio”. Poi il quoz è sparso in dettagli, frammenti, colpi d’occhio, aneddoti, pause e scintille che William Least Heat-Moon colleziona ben sapendo che “il tempo trasforma i luoghi comuni in cose insolite”. In questo senso Le strade di quoz riservano molte sorprese: si scopriranno il jackalope e altre creature, come Estrarre raggi di sole dai cetrioli e perché Gli hippy entrano dalla porta laterale. Essendo uno storyteller convinto e scrupoloso, William Least Heat-Moon si attorciglia agli aneddoti, ai racconti e alle chiacchiere con gli sconosciuti, anche quando resta incagliato nella  rievocazione della Route 40 o nel caratteristico neologismo di “fiumitudine”. Concetti già espressi altrove, come la descrizione dell’interminabile sequenza dei cartelloni pubblicitari di Burma Shave, sì, proprio come avviene nella canzone di Tom Waits. Il cliché è dietro l’angolo, un po’ come il menù della tavola calda a conduzione famigliare, e la vicenda di William Grayston (“Non possiamo scegliere i nostri antenati, ma loro spesso, in modi impossibili da indovinare, possono selezionare pezzi del nostro futuro”), che occupa la parte centrale del libro, è più roba da topo di biblioteca che da esploratore moderno. William Least Heat-Moon pare accorgersi dei rischi di queste deviazioni quando dice che “in verità, per amare la realtà della strada, un viaggiatore fa bene a mettere in valigia un piccolo martello emotivo e tenersi pronto per usarlo spesso”. Questa è un’avvertenza più che ragionevole in ogni caso, ma ancora di più per il territorio specifico che attraversano Le strade di quoz dato che “in centinaia di modi, l’America è arrivata dov’è perché la sua gente può essere attratta da una destinazione in maniera maniacale; e per la stessa ragione l’America non è dove non è”. È così che grazie a un paradosso (o due) diventa tutto più chiaro: si tratta di cercare “il nostro posto in questo nostro posto”, che poi è il quoz fondamentale e, per certi versi, inarrivabile. 

mercoledì 24 luglio 2024

Brian Panowich

Alle radici di Bull Mountain, c’è un ragazzo cresciuto in fretta, che ha imparato a combattere per un padrone molto potente, nella fattispecie Gareth Burroughs. L’iniziatore della stirpe l’ha accolto nella sua congrega e Nails alias Nelson McKenna è diventato più di un amico per il figlio Clayton. Nails è menomato, ha qualche problema nei movimenti non meno che nel linguaggio, ma i suoi limiti sono la sua forza: è obbediente e preciso e, come è noto, per i Burroughs non serve altro. È un bravo soldato, solo che compie un errore, che non è un errore. Salva una ragazza, Dallas, da un tentativo di violenza, ma non è solo un salvataggio (un uomo resta a terra e non si rialza più), e Dallas non è proprio un nome del tutto vero. Avviene per una scelta, senza dubbio, ma l’impeto non calcola né i danni immediati (si tratta anche di un omicidio) né i risvolti collaterali. Nails ha agito d’istinto e pur essendo nel giusto, Gareth Burroughs non può permettersi troppe attenzioni o gesti di generosità fuori dal suo controllo e gli organizza una via d’uscita o una condanna (un po’ tutte e due). Clayton, che sta costruendo la sua casa con l’aiuto del padre, e lo conosce fin troppo bene, sente che su Nails è calata una sentenza e si muove a sua volta per aiutarlo. Cambia lo scenario. Sulle montagne riposa solo un mucchio di ossa e verso Jacksonville convergono interessi, condizioni e legami nuovi e antichi. Jacksonville non è la McFalls County: lì l’influenza dei Burroughs arriva (comunque), ma è filtrata dalla distanza e dal tempo e, più di tutto, da una motivazione improbabile. Clayton Burroughs agisce per amicizia, un termine che non è contemplato nel limitatissimo vocabolario di Bull Mountain, dove tutto è in termini di do ut des, e costringe il padre a intervenire in nome della famiglia. La famiglia non te la scegli e trattandosi dei Burroughs rimane una spada di Damocle. Saltano un po’ tutte le regole ed è come passare dal bianco e nero e vedere a colori: sul canovaccio classico di un road movie, che va da Bonnie & Clyde a Thelma & Louise, Brian Panovich crea un intricato susseguirsi di connessioni rendendo comprensibili (se non proprio accettabili) persino gli inamovibili codici di Gareth Burroughs, che resta in cima all’albero genealogico e alla catena alimentare. Quella che per Nails e Dallas doveva essere una rotta verso nuove identità e una vita diversa, si trasforma in un percorso a ostacoli tra stanze di motel, stazioni di servizio, parcheggi e tutto un catalogo di fotogrammi sfuggenti che Brian Panowich sa filtrare con un ritmo altalenante, a tratti frenetico e compulsivo, come l’abbiamo già conosciuto, altrimenti più complesso e riflessivo. L’alternarsi delle canzoni di R.E.M. (Fall On Me), Mazzy Star, (Fade to You), Nirvana (All Apologies), Soul Asylum (Runaway Train), Goo Goo Dolls, (Slide), Garth Brooks (Friends In Low Places), Tom Petty (You Wreck Me e Running Down A Dream), The Sundays (Wild Horses) è il contrappunto specifico che risalta più che in altre occasioni. È una colonna sonora particolare che inquadra il tempo non meno della geografia: qui siamo proprio all’inizio di tutta la saga, una sorta di prequel che spiega molte cose (a partire dal rapporto tra padre e figlio nei Burroughs) e, oltre a introdurre il personaggio di Nails, sposta la prospettiva dai limitati confini di Bull Mountain. Le fughe e gli inseguimenti attraverso “un paese fatto di luci al neon, cemento e scelte sbagliate” fanno risaltare una gamma di possibilità compresa l’ipotesi, dichiarata dallo stesso Brian Panowich, che possa esistere una speranza “anche negli angoli più bui del profondo sud degli Stati Uniti”. Tra i tanti spiragli lasciati aperti da Nient’altro che ossa è il più appariscente, ma non è nulla rispetto ai dubbi e agli enigmi che insinua su quello che è stato e su quello che verrà.

lunedì 15 luglio 2024

Willy Vlautin

Non si uccidono così anche i cavalli? La vita dei musicisti in tour, e pure una volta tornati a casa, è una fatica di Sisifo per un piccolo momento di piacere, per il gusto di suonare una chitarra pregiata, per il mistero gaudioso del songwriting. Willy Vlautin, che conosce fin troppo bene l’argomento, avendolo vissuto in prima persona, parte proprio da lì, dalle dinamiche che portano a vivere una passione nonostante le difficoltà, i ritmi frenetici, le attese e le interminabili ore trascorse in viaggio tra un concerto e l’altro. La sua intima conoscenza della materia infonde al romanzo un aroma speciale, come se Il cavallo fosse l’occasione per fare i conti con l’alternarsi dei miraggi e della dura realtà e del “ritrovarsi spesso in posti sperduti”. Willy Vlautin concede quel tanto che basta di dettagli autobiografici ad Al Ward, che passa da una band all’altra, affrontando cantanti e canzoni, palchi e contratti, alcol (troppo) e trasferte estenuanti, successi (pochi) e fallimenti. Spesso pare aggrapparsi alla chitarra, l’inizio e la fine di tutto, e a quei rari momenti in cui si sente nel posto giusto e pensa che “è bello quando si lavora tutti insieme e fai una canzone che ti piace. Il rumore, il suono, è una bella sensazione. Ti entra dentro e forse, in un certo senso, tu entri dentro quel suono. Hai la possibilità di scomparire di tutto, e alla fine, se la gente applaude, be’, è una cosa in più”. Ecco, poi giorni scorrono inesorabili, la musica si rivela insufficiente a rispondere a tutti i bisogni e le cronache dal music business sono le stesse raccontate da Rick Bass in Nashville Chrome, con l’aggiunta di qualche paillettes in più perché “se vuoi diventare famoso, devi vestirti come se stessi andando in qualche posto fantastico. Perché se lo fai, la gente penserà che stai andando in un posto fantastico e molto probabilmente, se continui così, lo farai per davvero”. Questo è un po’ il punto di svolta più evidente, insieme ai tentativi di trovare una collocazione che resta una prova insormontabile perché come dice l’amico Lonnie “ci vuole tanta energia per cambiare chi sei”, e a volte non basta mai. Il cavallo è costellato di abbandoni e separazioni, cuori spezzati e matrimoni falliti, come se fosse un’estenuante collezione di ballate country & western. I personaggi sono tutti “danneggiati” e Al, in particolare, è diviso tra una carriera di chitarrista e songwriter e una solitudine incalzante, che lo lascia più di una volta disarmato. Anche se è costretto ad avere un lavoro normale in una tavola calda, Al continua a scrivere come se fosse una terapia: i titoli delle canzoni, che fluttuano a blocchi, sono un racconto parallelo e contiguo che Il cavallo ostenta senza particolari spiegazioni aggiuntive. Non servono perché la storia che Willy Vlautin incastona pezzo dopo pezzo è tutta lì, nelle frasi colte al volo, negli appunti presi sui taccuini, negli accordi rubati qui e là. Quando ormai è giunto al capolinea, Al si ritrova solo in una località impervia, prigioniero dei ricordi e dei rimpianti, con un menù ridotto a caffè, zuppa Campbell e tequila, con la sua Monte Carlo che non vuole nemmeno saperne di accendersi e il freddo del Nevada che lo circonda, gli appare un cavallo stremato quanto lui. L’animale è refrattario a tutti i suoi tentativi di avvicinarlo, abbeverarlo e sfamarlo. Qualcosa non va e Al rimane lì incerto e incapace di decidere se il cavallo sia un’allucinazione compresa nel turbinio dei riverberi del passato o un potente richiamo offerto dalla vita vera, là fuori. La chitarra e le parole non possono molto contro la fame, il gelo e l’immobilità del cavallo. In effetti, contro i coyote che lo assediano, Al deve ricorrere al fucile, ma non serve a granché. La situazione di stallo è un’immagine potente al pari di tutto il romanzo a cui Willy Vlautin dona una scrittura asciutta, rarefatta e ipnotica capace di convincervi, una volta di più, nelle qualità salvifiche del songwriting e se non avete mai provato a scrivere una canzone, dopo aver letto Il cavallo, sarà difficile resistere alla tentazione.

domenica 7 luglio 2024

Stephen King

Stephen King prende il titolo dell’ultimo album di Leonard Cohen, lo modifica quel tanto che basta a diventare il richiamo ideale per un’antologia di racconti dalla provenienza eterogenea che hanno il pregio e l’obiettivo dichiarato di ricordarci che “le cose strane succedono”. D’accordo: in You Like It Darker, o Salto nel buio, le occasioni non mancano e nell’elaborazione di Stephen King i racconti sono legati l’uno all’altro da piccoli dettagli, connessioni e rimandi assortiti, forse a cercare un senso o una continuità che non c’è, o che si intravede a tratti, compresi i numerosi riferimenti alle opere precedenti. Serpenti a sonagli, in particolare, è un’estensione di Cujo e contiene cenni di Duma Key e insieme a L’incubo di Coughlin che, è qualcosa di più di un racconto (e si avvicina a un romanzo breve), costituisce una buona metà di questa panoramica tra “le pieghe della realtà”. Nelle small town americane care a Stephen King, distribuite per l’occasione tra il New England e la Florida, “l’idea che nel mondo ci sia molto più di quanto sappiamo” è il vero carburante delle storie che si attorcigliano proprio attorno al tema di una conoscenza alterata e aumentata, capace di vedere attraverso i limiti della realtà. Succede in L’esperto di turbolenze e Due bastardi di talento, un racconto intrigante, che lascia aperte molte porte, e in I sognatori, che ha una trama interessante, a livello di idea, ma un sviluppo riduttivo. Purtroppo non è l’unico caso: una mezza dozzina di racconti restano indefiniti, come se fossero soltanto dei tentativi per qualcosa che infine non si è materializzato. Capita con Il quinto passo che è un abbozzo, gelido e preciso nel suo svolgimento, ma limitato a una scena, che lascia in sospeso troppi dettagli. Non di meno, Willy lo Strambo, che narra una fine che in realtà è poco più che un inizio, e Finn che è un incubo kafkiano, con una sua crudele connessione con la realtà delle famigerate “rendition” e della tortura, valido ma incompleto. Anche Laurie è qualcosa di indefinito e Lungo Slide Inn Road, un esercizio di stile (con la prospettiva dei personaggi che cambia nel corso della storia) e uguale è Lo schermo rosso che pare l’incipit di qualcosa, ma non si capisce bene di cosa. La preveggenza, un passaggio obbligato fin dai tempi di La zona morta, è riformulata in modo sibillino per L’uomo delle risposte che, attorno alla figura di un indovino, cela una carrellata di cultura e costume americano della seconda metà del ventesimo secolo. Lo stesso Stephen King parla di un racconto recuperato dagli archivi e riadattato con “la stranissima sensazione di urlare in un canyon del tempo e ascoltare l’eco che ritornava”, e questa è un po’ anche l’atmosfera complessiva, con tutti quei riverberi del passato che si tramandano di racconto in racconto. In conclusione, L’uomo delle risposte ha una sua indicazione generica, ma  sempre valida quando suggerisce: “Non sbirciare dal buco della serratura se non vuoi starci male”. Consiglio utilissimo che, nello specifico, vale anche per You Like It Darker o Salto nel buio, che forse rende meglio l’idea.