giovedì 21 ottobre 2021

Larry McMurtry

Il matrimonio è un’incombenza sociale. Gli uomini sono tutti transitori. Le crisi di nervi sono all’ordine del giorno e l’amore è la grande incognita di Voglia di tenerezza: ne sono tutti alla ricerca, ma seguono le strade e le tracce sbagliate. Il desiderio, l’attrazione, persino la conoscenza e l’amichevole compagnia di anni e anni, non sono sufficienti e ogni gesto torna a ripetersi attorno a goffi tentativi, spesso impetuosi, ma destinati a fallire. Nel complesso, un coro tragicomico composto da una piccola folla costretta a rilanciare un bluff che ha pochissime speranze. È un’incapacità latente e diffusa, solo Aurora Greenway riesce a nasconderla dietro a una maschera brillante e mutevole come il suo umore e grazie alla laconica certezza per cui “lo scopo della civiltà è procurarsi qualcuno con cui bere il tè alla fine di una serata”. Per quanto insopportabile, Aurora celebra quell’energia che spinge uomini e donne innamorati alle catastrofi. Vedova, volubile, con una mezza dozzina di pretendenti, Aurora conserva un Klee e un Renoir, ed è una forza catalizzatrice e magnetica che attrae e respinge nello stesso tempo, con la convinzione che “la vita era ancora interessante, ed era meglio di niente”. È perennemente al centro dell’attenzione (e anche dell’azione): tutti ruotano intorno a lei, ma con molti margini di deviazione. Quando lei attrae qualcuno, e succede spesso e volentieri, le posizioni degli altri personaggi convergono insieme verso un nucleo di forze indefinite. Nei passaggi in cui Aurora si adombra e si ritrae in un angolo, le relazioni e le connessioni deflagrano e Voglia di tenerezza ha momenti rocamboleschi, come l’irruzione di Royce Dunlup, il marito di Rosie, la storica governante di fiducia, in una sala da ballo o il suo accoltellamento, ma il più delle volte si snoda attorno ai dialoghi sferzanti, in cui s’impone il tono di Aurora Greenway. L’eloquio è capace di mettere in soggezione l’intera Houston, Texas: le sue frasi fatte, le battute lapidarie, i silenzi, sono espressione di un carattere inafferrabile, ma ricco nelle sue formalità, che le permettono di saltare letteralmente fuori dalle pagine e avvinghiare il lettore. In questo c’è molto dell’arte sopraffina di Larry McMurtry che fa vivere i personaggi, le loro identità, le voci e i tic con una scrittura ricca ed essenziale nello stesso tempo. Non c’è alcun spreco di parole o immagini: i dialoghi sono fittissimi, senza esclusioni di colpi e sono frutto di un’abilità nel ricondurli nei limiti del racconto che è straordinaria, come se fosse possibile vedere i protagonisti muoversi al rallentatore, mentre camminano sull’orlo del precipizio. Succede nella frattura tra Royce Dunlup e Rosie, una liaison coniugale tormentata e pericolosa che scorre parallela, e soprattutto nel rapporto tra Aurora e la figlia Emma. Un confronto portato all’ennesima potenza, dalla scena in cui lei dice alla madre che è rimasta incinta all’ultimo colpo di coda del romanzo, quasi un’altra storia che sfugge al personaggio principale di Aurora, ma nello stesso tempo la celebra per l’ennesima volta. Mentre Emma diventa a sua volta protagonista, nella sfumatura finale di Voglia di tenerezza, Aurora si trasforma, ma resta ancora sulla linea più avanzata dei legami, perché “nessuno vuole una madre rassegnata”. In quegli attimi conclusivi, e dolorosi, Aurora, più di ogni altro, si accorge che “la vita sarebbe andata avanti un altro po’”, lasciandosi alle spalle una lunga scia disordinata di emozioni, catturate alla perfezione da Larry McMurtry.

mercoledì 20 ottobre 2021

Jack Kerouac

 Riuniti in un solo volume, Sulla strada, I sotterranei, I vagabondi del Dharma, Big Sur, Angeli di desolazione compongono, come è evidente, una selezione più che rappresentativa dell’esperienza e del linguaggio di “uno strano solitario folle cattolico mistico”. Manca la poesia, ma nell’insieme si tratta di un quadro sufficiente a riassumere le dimensioni di un classico: leggere Jack Kerouac è comunque una manifestazione di speranza contro “un nuovo tipo di efficienza sinistra”, che via via nel tempo si è fatta sempre più invadente e prepotente, e ogni occasione è buona per ricordarlo. Meritano di essere rispolverate le appendici che, partendo da un frammento di Visioni di Cody, radunano scritture sparse, a formare una sorta di riepilogo che funziona come celebrazione di quel “gruppo festante di nuovi americani invasi dalla gioia” che si immedesimava nei suoni e nelle visioni di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e Stan Getz, “il supremo genio jazzistico della Beat Generation”, ma prima e più di tutti, Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Il ripasso comprende La filosofia della Beat Generation proposta da Kerouac come “la visione di una generazione di pazzi hipster illuminati che improvvisamente spuntano e scorrazzano per l’America, seri, curiosi, vagabondi che si spostano ovunque in autostop, straccioni, beati, belli di una nuova aggraziata bruttezza, una visione balenata dall’aver sentito come la parola beat veniva usata per strada in Time Square e nel Village nella notte dei quartieri del centro di altre città nell’America del dopoguerra, beat che significa giù e fuori, ma pieno di un’intensa convinzione”. L’identificazione, o meglio l’apologia, è approfondita e reiterata nelle dissertazioni di Sulle origini di una generazione, dove Kerouac è prodigo di spiegazioni sulla genesi e sulla natura della Beat Generation. A più riprese, vengono riscoperte le radici jazzistiche: “Ad ogni modo gli hipster, la cui musica era il bop, sembravano criminali ma parlavano continuamente delle stesse cose che piacevano a me, lunghe descrizioni di esperienze e visioni personali, intere notti di confessioni piene di quella speranza che era stata messa al bando e repressa dalla guerra, inquietudini, brontolii sordi una nuova anima (la vecchia anima umana di sempre)”. È proprio da lì che hanno attinto quelli che Kerouac chiama “gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle alla macchina della libertà occidentale e che prendevano droghe, amavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il disordine dei sensi, parlavano strano, erano poveri e contenti, profetizzavano uno stile nuovo della cultura americana”. Gli strumenti vanno cercati tra i Fondamenti di prosa spontanea, Credo & tecnica della prosa spontanea e L’inizio del bop che delineano teoria & pratica della Beat Generation che infine Kerouac condensa così: “Come si può fare una cosa del genere nel nostro pazzo mondo moderno di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, svignandosela da soli ogni tanto per far provvista del tesoro più prezioso che esista: le vibrazioni della sincerità”. Una somma di propositi considerati il più delle volte utopici, ma spesso anche disturbanti come ricorda anche l’Appello scritto al giudice italiano, dettato nei frangenti nel processo per oscenità dedicato a I sotterranei. Nel ricorso al “procuratore generale” firmato il 23 maggio 1963, Kerouac scriveva: “Secondo la mia opinione, che è mia e solo mia, I sotterranei sono un tentativo del sottoscritto di usare la prosa spontanea moderna per scrivere la biografia di qualcun altro in un dato tempo e in una data circostanza nella maniera più completa possibile senza offendere i gusti umanistici, e comunque umani, miei o di chiunque altro, per amore dello svago, ma anche dell’attenzione sofferta e dell’edificazione di qualche lettore seduto accanto al caminetto in una notte d’inverno”. Una beata innocenza che ammaliò anche i giudici, proprio come aveva già convinto mezzo mondo.

mercoledì 13 ottobre 2021

Steven Blush

Premesso che Please Kill Me di Legs McNeil e Gilliam McCain, resta il caposaldo e un giro di boa per chiunque voglia raccontare una rivoluzione musicale, New York Rock di Steven Blush seguendo proprio quell’impronta è una storia orale che ripercorre il suono della città, che è in realtà molti sound diversi, anche se il ritmo del rock’n’roll è la linfa sanguigna che è rimasta più a lungo, nel tempo, e più diffusa nei quartieri. New York è vista contemporaneamente dall’alto e dal basso, come qualcosa di vivo e pulsante, di animalesco, persino, con un fermento che parte dall’evoluzione urbanistica della metropoli, dalle attività immobiliari, ovvero dalla speculazione edilizia e dalla gentrificazione di intere aree e dall’alternarsi dei flussi di abbandono e occupazioni di edifici fatiscenti, decadenza e affitti ridotti, e poi gli interventi perentori delle istituzioni e del mercato a spazzare via tutto. Ma finché è durata, e Steven Blush prende come capolinea la definitiva chiusura del CBGB’s, lo storico locale sulla Bowery dove è successo tutto, ormai nel 2006, nei bassifondi si sono susseguite  ondate musicali che via via hanno portato a galla le singole storie di un’umanità fluttuante, che viveva soprattutto nelle strade, a caccia di un’emozione, una sensazione, un’invenzione. Come un netturbino all’alba del mattino dopo, Steven Blush raccoglie tutto, facendo soltanto un minimo sindacale di cernita: legami e scontri, disturbi e ossessioni, abusi e disastri, canzoni e rumori ed elenca le vite brevi e brucianti di dozzine di rock’n’roll e quelle, altrettanto fulminee, delle tappe del nightclubbing. Ne emerge la cartografia di come una repubblica underground indipendente e autonoma, che assorbe il carattere cosmopolita della città con tutte le tensioni e ha il “vaffanculo facile” come parola d’ordine e strumento di combattimento nelle strade. Come dice lo stesso Steven Blush, New York Rock “è una confluenza di dure realtà urbane, predisposizioni artistiche volubili, auto-promozione e rituali di intossicazione”. Il corollario di morte (per violenza, per droga, per AIDS) che cala un sudario sulla città è riportato fedelmente, e senza censure, ma nulla toglie all’inarrestabile proliferare di musica che ha visto protagoniste declinazioni e deformazioni estreme e radicali, destinate a diventare dei classici moderni. Il ruolo dei Velvet Underground su tutti, per aprire una saga di generazioni nel rapporto biunivoco tra rock’n’roll e arte che ha generato il magnetismo di New York, è irrinunciabile. Forse in New York Rock manca all’appello un approfondimento dei legami in parallelo con le realtà artistiche, peraltro annunciati spesso con i nomi di Andy Warhol, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat. Ma si capisce che il flusso corrisponde più all’istinto che a una ragione storiografica, ed è così che Steven Blush interpreta quel magma che ha cominciato ribollire negli scantinati e nei vicoli: “Il punk si è rapidamente evoluto in un movimento onnicomprensivo per anticonformisti dall’attitudine provocatoria. Un aspetto fondamentale del punk era la sua forte reazione alla fuga dalla realtà diffusa dagli hippie degli anni Settanta. I punk abbracciavano la realtà, catturando l’insolenza della scena glitter nel tentativo di rivitalizzare il rock. Ecco perché i capelli corti, la musica veloce, e il vaffanculo facile si sono rivelati così accattivanti per qualcuno, e una vera minaccia per lo status quo”. Sono i New York Dolls (forse più dei Ramones) a scatenare l’inferno e a sovvertire le regole, costumi compresi, sia secondo Johnny Thunders (“I Dolls hanno dimostrato che non bisogna essere geni della tecnica per suonare rock’n’roll. Tutto dipende da stile, energia e attitudine”) che David Johansen (“Avevamo una visione molto informale del mondo”). Poi non si fanno sconti e la lista dei caduti, il dissolvimento di intere comunità e l’arrivo di una nuova epoca, “da quanto hanno sbiancato Manhattan” (Iggy Pop dixit) rende il lavoro di Steven Blush un documento grezzo, non filtrato, molto prezioso. Come diceva Lydia Lunch: “New York era sporca, violenta, fallita, invasa dalle droghe e ossessionata dal sesso, in una parola, incantevole. Malgrado ciò, ridevamo tutti, perché o ridi o sei morto”. Ecco, questa è New York Rock.

martedì 5 ottobre 2021

Johnny Cash

Con il passare del tempo, si è creata attorno a Johnny Cash un’aura mitologica, frutto di una vita al limite associata all’indiscutibile importanza assunta nella cultura americana, e non. Su molte ricostruzioni è necessario fare un po’ la tara e, in particolare, va detto che l’autobiografia contiene, per ammissione dello stesso Johnny Cash, “leggende e bugie, pazzi e ubriachi, vecchi amici e angeli”, ed è da questa cernita che bisogna partire. Nelle parti iniziali del racconto la voce è forte, scorrevole, perfetta per un senso del narrare informale, come se fosse l’incipit di una lunga ballata. L’infanzia in una famiglia povera, dove condivide il raccolto del cotone e la vita rurale, al punto di riflettere che “la terra non appartiene a noi, siamo noi ad appartenere a lei”, la morte tragica del fratello, il rapporto controverso con il padre, che osteggiava la vocazione, o meglio “il dono” per la musica, costituiscono i momenti più sofferti e intensi. Poi, dall’iniziazione in Germania dove è di stanza come addetto alle trasmissioni, bisogna distinguere un po’ i fatti dalle storie. Uno degli episodi su cui si è formata tutta un’aneddotica è il primato di Johnny Cash nello scoprire la morte di Stalin. Una notizia riportata anche Nick Kent in The Dark Stuff, mentre una delle più credibili biografie, quella di Steve Turner, non la confermava. Come succede spesso, c’è una porzione di verità, perché era davvero lì nel 1953 (in primavera venne trasferito in Italia) ma è enfatizzata perché nel suo lavoro di intercettazione Johnny Cash usava il codice Morse, ma non conosceva il russo, né gli elementi di crittografia per decifrare i messaggi. Resta una certa suggestione, pensarlo al centro di un istante storico della guerra fredda, ma comunque sia le parti più significative sono quelle che riguardano la musica: l’incontro con Sam Phillips, la Sun Records, gli albori del rock’n’roll con Elvis, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, il country vissuto come  una comunità, l’ossessione per il gospel, l’amicizia con Roy Orbison. Johnny Cash è candido ed eccessivo, non nasconde nulla delle dipendenze che hanno distinto gran parte della sua vita, o delle numerose intemperanze, perché “è stato vittima di un’inquietudine cronica e di spinte profondamente autodistruttive”, come scriveva Nick Kent, ed è comunque il protagonista di un’autoritratto credibile. È in compagnia di una danza di fantasmi che lo accompagnano lungo tutto l’arco del racconto, facendo da contorno a “un vero eroe americano” come l’ha descritto Kris Kristofferson. Questo nell’autobiografia traspare in modo molto chiaro, sia quando elenca gli incontri formali con i presidenti (Nixon, Carter, Ford, Reagan), non sempre irreprensibili, sia quando celebra le amicizie più profonde, come nei frangenti spassosi con Faron Young e Waylon Jennings. La struttura è frammentaria, con un equilibrio sostanziale tra momenti drammatici e divertenti che si alternano, ma sempre all’interno di alcuni temi che restano costanti: la musica, la fede, la famiglia. È proprio nella seconda metà che Johnny Cash si dedica a un riconoscimento costante agli incontri e al suo inner circle, a partire dalla moglie per arrivare ai colleghi preferiti fino all’incontro (fondamentale) con Rick Rubin e alla gestazione degli American Recordings. Con il progredire della storia, diventa difficile distinguere la creazione dalla realtà, le ombre e le luci si contendono la scena e il personaggio, ancora una volta, prende il sopravvento lasciando Johnny Cash avvolto in un alone di mistero, che poi rimane il motivo principale del suo inalterato fascino.