Riuniti in un solo volume, Sulla strada, I sotterranei, I vagabondi del Dharma, Big Sur, Angeli di desolazione compongono, come è evidente, una selezione più che rappresentativa dell’esperienza e del linguaggio di “uno strano solitario folle cattolico mistico”. Manca la poesia, ma nell’insieme si tratta di un quadro sufficiente a riassumere le dimensioni di un classico: leggere Jack Kerouac è comunque una manifestazione di speranza contro “un nuovo tipo di efficienza sinistra”, che via via nel tempo si è fatta sempre più invadente e prepotente, e ogni occasione è buona per ricordarlo. Meritano di essere rispolverate le appendici che, partendo da un frammento di Visioni di Cody, radunano scritture sparse, a formare una sorta di riepilogo che funziona come celebrazione di quel “gruppo festante di nuovi americani invasi dalla gioia” che si immedesimava nei suoni e nelle visioni di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e Stan Getz, “il supremo genio jazzistico della Beat Generation”, ma prima e più di tutti, Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Il ripasso comprende La filosofia della Beat Generation proposta da Kerouac come “la visione di una generazione di pazzi hipster illuminati che improvvisamente spuntano e scorrazzano per l’America, seri, curiosi, vagabondi che si spostano ovunque in autostop, straccioni, beati, belli di una nuova aggraziata bruttezza, una visione balenata dall’aver sentito come la parola beat veniva usata per strada in Time Square e nel Village nella notte dei quartieri del centro di altre città nell’America del dopoguerra, beat che significa giù e fuori, ma pieno di un’intensa convinzione”. L’identificazione, o meglio l’apologia, è approfondita e reiterata nelle dissertazioni di Sulle origini di una generazione, dove Kerouac è prodigo di spiegazioni sulla genesi e sulla natura della Beat Generation. A più riprese, vengono riscoperte le radici jazzistiche: “Ad ogni modo gli hipster, la cui musica era il bop, sembravano criminali ma parlavano continuamente delle stesse cose che piacevano a me, lunghe descrizioni di esperienze e visioni personali, intere notti di confessioni piene di quella speranza che era stata messa al bando e repressa dalla guerra, inquietudini, brontolii sordi una nuova anima (la vecchia anima umana di sempre)”. È proprio da lì che hanno attinto quelli che Kerouac chiama “gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle alla macchina della libertà occidentale e che prendevano droghe, amavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il disordine dei sensi, parlavano strano, erano poveri e contenti, profetizzavano uno stile nuovo della cultura americana”. Gli strumenti vanno cercati tra i Fondamenti di prosa spontanea, Credo & tecnica della prosa spontanea e L’inizio del bop che delineano teoria & pratica della Beat Generation che infine Kerouac condensa così: “Come si può fare una cosa del genere nel nostro pazzo mondo moderno di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, svignandosela da soli ogni tanto per far provvista del tesoro più prezioso che esista: le vibrazioni della sincerità”. Una somma di propositi considerati il più delle volte utopici, ma spesso anche disturbanti come ricorda anche l’Appello scritto al giudice italiano, dettato nei frangenti nel processo per oscenità dedicato a I sotterranei. Nel ricorso al “procuratore generale” firmato il 23 maggio 1963, Kerouac scriveva: “Secondo la mia opinione, che è mia e solo mia, I sotterranei sono un tentativo del sottoscritto di usare la prosa spontanea moderna per scrivere la biografia di qualcun altro in un dato tempo e in una data circostanza nella maniera più completa possibile senza offendere i gusti umanistici, e comunque umani, miei o di chiunque altro, per amore dello svago, ma anche dell’attenzione sofferta e dell’edificazione di qualche lettore seduto accanto al caminetto in una notte d’inverno”. Una beata innocenza che ammaliò anche i giudici, proprio come aveva già convinto mezzo mondo.
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