lunedì 24 giugno 2019

Daryl Ponicsan

Dentro il mondo della Marina militare americana, Mule Mulhall e Billy Buddusky “Badass” sono ormai ospiti collaudati, sanno districarsi tra gli ordini e le gerarchie, si muovono con disinvoltura per schivare le corvè e le consegne, sanno farsi trovare pronti, ma sanno (soprattutto) imboscarsi. L’esperienza maturata li mette in condizione di sgusciare impuniti e di godersi i meandri della Marina, fino a quando non vengono scovati per L’ultima corvè. Mule Mulhall è richiamato proprio nel bel mezzo di una partita a dadi e saluta gli altri giocatori così: “Signori, ci saranno altre giornate e altre giocate. E non sputate sulle insalate”. Billy “Badass” lo sta già aspettando e l’opinione di entrambi è che si tratti di un compito allettante: scortare un giovane marinaio fino al carcere dove deve scontare una pena di otto anni per furto. La missione è semplice e faranno di tutto per complicarsela. Essendo una trasferta piuttosto lunga i due immaginano già un’interminabile teoria di soste a base di alcol e puttane, quindi un diversivo non indifferente rispetto alla noia della vita nella base o, peggio ancora, alla routine una volta imbarcati. Gli stagionati marinai si trasformano così nei gendarmi di Larry Meadows, al quale, a livello preliminare, Billy “Badass” spiega in modo plateale la composizione del trio: “Possiamo essere semplicemente tre marinai oppure possiamo essere un detenuto e due stronzi”. Non è difficile da capire: la situazione si evolve rapidamente, non appena scoprono che Larry Meadows, almeno a suo dire, soffre di cleptomania e ha avuto la sventurata occasione di rubare quaranta dollari da una cassetta delle offerte curata dalla moglie del comandante. La pena comminata pare a tutti eccessiva, in poche parole l’hanno incastrato trasformando un marinaio in “un problema non-della-Marina” ed è lì L’ultima corvè si trasforma in un viaggio contorto dalla base di Norfolk, Virginia verso il carcere navale di Portsmouth, New Hampshire, costruito sulla falsariga di Alcatraz. Non un bel posto, per cui ci mettono tutte le deviazioni necessarie lungo il percorso: Washington, New York e Boston diventano i territori principali delle loro scorribande, mentre tra i tre nasce una complicità dovuta al fatto che, come dice Billy “Badass”: “i marinai hanno solo due cose che non vanno: sono privi di qualsiasi istinto di diffidenza e sono le persone più sole al mondo”. Whiskey e birra scorrono a fiumi e bar dopo bar, i tre compari diventano rabdomanti in cerca di rogne. A New York, si trascinano a casa di Charlotte, ex di Billy “Badass”, che li ospita, giusto per una serata, ma quanto basta perché li inquadri con una sentenza insindacabile: “L’unica ragione per cui non ve ne frega niente di questo dannato mondo è che non ci vivete dentro”. Tra un tentativo di fuga nel mezzo di un picnic sulla neve (non si fanno mancare nulla) e una visita in un bordello, la strana combriccola si avvicina alla destinazione prevista. A quel punto la Marina incombe come una spada di Damocle perché si può buttare fuori un marinaio dalla Marina, ma non si può buttare fuori la Marina da un marinaio e, proprio come dice Larry Meadows, “il massimo che puoi fare è sperare di tenerti fuori dai guai”. L’attrazione magnetica verso i disastri è troppo forte e il viaggio si avvia verso un cupo finale. La scrittura di Daryl Ponicsan è scarna, asciutta, cinematografica, con dialoghi vividi, serrati e pungenti e brevi annotazioni dei movimenti e dell’azione, come se fosse già una sceneggiatura. Va da sé che diventerà il film Hal Ashby del 1973 con Jack Nicholson nel ruolo di Billy “Badass”, ma L’ultima corvè mantiene intatte tutte le prerogative nel ricomporre l’assurdità di un racconto ascoltato da Daryl Ponicsan durante la sua permanenza in Marina: “La storia era perfetta. Un ragazzo problematico che non voleva dare fastidio a nessuno, affidato alle mani di due marinai di carriera divisi tra un forte senso del dovere e una missione che sapevano essere sbagliata, tra un leggero disprezzo e un riluttante affetto nei confronti del ragazzo”. La sua ricostruzione, grezza e febbrile, ha saputo renderla nel migliore dei modi ed è qui aggiornata con un’utile introduzione dello stesso Daryl Ponicsan. Un piccolo classico.

mercoledì 19 giugno 2019

Jesmyn Ward

C’è una traccia nascosta che si insinua tra le pieghe di Canta, spirito, canta ed è Parchman Farm Blues di Bukka White. La canzone, con uno stile crudo ed essenziale, racconta in prima persona la vita e la morte all’interno del famigerato penitenziario statale del Mississippi. La voce e le parole di Bukka White (che ne è stato ospite, insieme a un altro grande bluesman, Son House) sono inequivocabili e, d’altra parte, molte ricostruzioni storiche, a partire dal libro di David M. Oshinsky, Worse Than Slavery, concordano nel ricordare come la struttura di Parchman Farm abbia, di fatto, continuato ad applicare il regime della schiavitù anche dopo fine della guerra di secessione. Il luogo è uno dei tanti buchi neri dell’America e, stipati in una macchina che funziona a singhiozzo, i giovanissimi protagonisti di Canta, spirito, canta stanno andando proprio lì. Hanno nomi scorticati (Leonie, YoYo, Misty, Kayla) e, pur essendo ancora bambini (o poco più che adolescenti), si devono confrontare con la responsabilità di essere madre o padre e con il peso della mancanza di una famiglia alle spalle, a partire da Michael che sta uscendo da Parchman Farm, uno dei 475.900 afroamericani che, ancora alla fine del 2017, costituiva la maggioranza della popolazione carceraria. Potranno contare soltanto sugli anziani Mama e Pop, ma Mama è ormai al crepuscolo di una lunga vita di dolori e affanni, e Pop ha vissuto sulla propria pelle la schiavitù, la segregazione e i linciaggi nel Mississippi, ed è convinto che “un uomo ha dentro delle cose che lo muovono. Come le correnti d’acqua. Cose che non puoi farci niente”. Ciò che si agita attorno alla sua storia sono quei fantasmi che imperversano lungo le pagine, sottolineando una sofferenza costante, opprimente, una strada senza via d’uscita tale da portare alla considerazione che “il mondo non è un posto giusto”. Le presenze di Richie e Given, gli spiriti che sta aspettando Mama, il gris-gris preparato da Pop per il viaggio verso Parchman Farm sono parte di un vocabolaio voodoo, ma, a differenza del pastiche postmoderno di Ishmael Reed, Mumbo Jumbo, con Jesmyn Ward formano e rappresentano un territorio linguistico, e non solo. In Canta, spirito, canta le voci sono rimaste imprigionate nei blues perché, come scriveva John Berger, “le canzoni parlano di postumi e ritorni, di benvenuti e di addii. O, per dirla altrimenti, le canzoni sono cantate a un’assenza. L’assenza è ciò che le ha ispirate ed è ciò di cui parliamo”. Secondo capitolo della trilogia di Bois Sauvage (dopo Salvare le ossa), Canta, spirito, canta è costruito da Jesmyn Ward seguendo le diverse prospettive dei suoi personaggi, adeguandosi alla singolarità di ogni pronuncia e intrecciando il viaggio lungo le cicatrici sudiste con le scomode apparizioni dei fantasmi. Ogni pagina è una sferzata, aspra, sanguinante perché, per quanto tesa a nasconderli e a minimizzarli, l’America di oggi è chiamata ciclicamente a fare i conti con gli spettri di ieri e, sì, la realtà è anche peggio della schiavitù. Se in Salvare le ossa era stato l’uragano Katrina (2005) a sollevare il sipario su vite relegate nella povertà e nell’abbandono, in Canta, spirito, canta è l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (2010) lo sfondo che incombe minaccioso all’orizzonte. L’associazione tra le devastazioni ambientali e le impervie condizioni esistenziali è spontanea, realistica e tutt’altro che banale. La fragile complessità del bayou, l’ambiente paludoso tipico del sud degli Stati Uniti e riferimento geografico di Bois Sauvage, è la cornice spiritata (“Questo è un posto per i morti”), dove frammenti di famiglie cercano di tenere insieme i pezzi aggrappandosi alla fede, o agli spiriti del blues, che spesso sono “canzoni senza parole”, che “arrivano dalla stessa aria che porta con sé il suono delle acque”. La sopravvivenza è legata alla condivisione del proprio destino attraverso le parole di un’invocazione, di una preghiera, di un sogno perché, come dice uno dei protagonisti di Canta, spirito, canta “così andiamo avanti, e l’aria che entra dai finestrini aperti fa tremare i vetri, viva come un letto di molluschi che vanno su e giù nel flusso della marea: un luccichio di schiuma e sabbia. Sotto le ruote la ghiaia crepita e schizza tutt’intorno. Noi ci teniamo per mano e fingiamo di dimenticare”. L’ultima speranza è tutta lì, raccontata da un romanzo intenso, ipnotico e toccante.

martedì 18 giugno 2019

Amiri Baraka

Una poesia può porre interrogativi decisivi, tracciare un confine, riscoprire il senso della verità anche quando non c’è più. La poesia è Qualcuno ha fatto esplodere l’America ed è una sorta di invocazione che si snoda come un blues con un ritornello che chiede “Chi? Chi? Chi?”, senza retorica, ma anche senza nascondere nulla. Qualcuno ha fatto esplodere l’America e l’autodifesa di Amiri Baraka seguita alle accuse (del tutto infondate) di diffamazione e antisemitismo introducono un’idea di poesia come militanza che è il tratto dominante di uno spettro più ampio di sollecitazioni, dal teatro al jazz, dal cinema alla narrativa, da Miles Davis ai Public Enemy dove “l’arte rivoluzionaria esige come palcoscenico il mondo intero e l’uguaglianza dell’essere, pretende e instilla nella coscienza umana il profilo del mondo intero, collega gli A con i B e ne prova la materialità. La rivoluzione è l’eternità del mondo, il respiro incessante, il battito inesauribile, negarlo è mentire e la verità è la realtà ultima”. La natura composita di Poetate., che raccoglie scritti, lezioni e interviste nell’arco di quarant’anni, non toglie nulla all’essenza della forma, definita dalla coerenza di Amiri Baraka che vede l’arte come “un’espressione politica” e la poesia come strumento di confronto perché “il linguaggio sarà di chiunque, ma compattato dalla spina dorsale del poeta. E dovrà dimostrare i fatti di questa epica della consapevolezza, quel che succede. Parleremo del mondo, e la nostra arte sarà l’esattezza con cui saremo in grado di adunare il mondo. Arte è metodo”. Allora leggendo e rileggendo Qualcuno ha fatto esplodere l’America, i fantasmi dell’11 settembre 2001 lasciano posto a un’analisi puntuale che porta Amiri Baraka a rivolgersi direttamente ai lettori, segnalando il vero pericolo dietro l’angolo: “scordatevi la guerra del mese scorso e preparatevi a quella di questo mese”. Le sue posizioni non sono radicali, sono precise: “Ogni nazione ha due culture, la cultura degli oppressi e la cultura degli oppressori” e, diretta conseguenza, “la rabbia contro l’imperialismo e il razzismo non mi ha mai abbandonato”. Detto questo “la potenza nucleare della poesia” è al sicuro da ogni equivoco: quale che sia l’occasione, Amiri Baraka è esplicito nel ricordare che parte “dal principio che la maggioranza delle persone debba essere ricettiva alle idee più nobili della società, di qualsiasi società” ed è una necessità impellente “perché sentiamo che questo stato e in realtà questa nazione e questo mondo hanno un bisogno disperato dei valori umani più profondi che la poesia può insegnare”. L’afflato è convinto, costante, ribadito ogni volta: “Sto dicendo che abbiamo una responsabilità, una responsabilità sociale, ma di questo non si parla mai. Abbiamo questa responsabilità in quanto parte della società non come persone al di sopra della società o lontane dalla società o più famose, ma come persone inserite nel sociale, il cui compito è quello di articolare, esprimere al meglio la vita e cercare di trasformarla. E quale che sia il nome dei burocrati, delle forze burocratiche che tentano di fermare questo processo, abbiamo l’obbligo di combattere”. La sua battaglia non si regge però sulle  posizioni ideologiche, ma sulla convinzione che “la forma così come il contenuto, sostanza, scienza e visione, l’arte dev’essere la nostra arma magica per creare e ricreare il mondo e noi stessi come parte di esso”. Nella sua essenza Poetate. celebra “il potere trasformativo dell’arte” ed è una specie di testamento e nello stesso tempo un vademecum, un manuale di istruzioni per comprendere il senso vitale dell’azione insita nella poesia. Amiri Baraka è prodigo di consigli: “Devi sentire il ritmo ancora prima di sapere esattamente di che cosa stai parlando” dato che “le idee sono nel sound”, e lo dice uno che andava a sentire John Coltrane e Thelonious Monk al Five Spot per capire il senso dello swing, dell’improvvisazione, dell’interplay. La rivoluzione è un’altra cosa (“Continuano a definire rivoluzionaria qualsiasi cosa, dalla lacca per capelli alle alle patatine, è un modo per aggirare la questione, svuotano il termine rivoluzione di ogni connotazione”) e  Amiri Baraka lo sa fin troppo bene, ma aprirsi alle novità, sviluppare quelli che Diane di Prima chiama “ogni sogno umano”, è una scelta netta, inequivocabile: “L’immaginazione (immagine) è ogni possibilità perché dall’immagine, l’iniziale energia circoscritta, è possibile qualsiasi uso (idea). E così inizia l’uso di quell’immagine nel mondo. La possibilità è ciò che ci muove”. È l’atto della poesia in sé che è rivoluzionario e Amiri Baraka è entusiasta nel proclamare che “dobbiamo creare un’arte che funzioni come invocazione della furia dello spirito mondiale. Siamo stregoni e assassini, ma apriremo un posto affinché i veri scienziati allarghino la nostra coscienza”. Ma, ancora una volta, la percezione parte dall’inizio, dove la poesia fa rima con libertà, così come lo ribadisce Amiri Baraka: “Io mi concedo sempre di essere più libero che posso nel contesto di quel che ritengo di voler dire. Sento che qualunque sia la cosa che hai dentro di te probabilmente ti conosce meglio di quanto ti conosca tu stesso”. Da lì, a ricerca è infinita, piena di incognite, ma con almeno una certezza che “C’è un sorriso in fondo al mondo. E mi ha sempre intrigato”. È ancora lì, intatto.

lunedì 3 giugno 2019

Harold Bloom

L’indagine che Harold Bloom ha dedicato ad Angeli, sogni e resurrezioni è una ricchissima ed erudita dissertazione che illustra, attraverso un’interpretazione libera ed effervescente, come “idee e immagini, in serie o simultanee, sembrano evocarsi reciprocamente in forma pressoché automatica. La memoria, come l’abitudine, funziona in modo ripetitivo collegando le idee in maniera costante al dolore o al piacere. Abitudini e memoria si riducono a premonizioni intuitive, contribuendo a fornire le dimensioni angosciose del sogno”. È l’inizio di un labirinto in cui è facilissimo e salutare perdersi: Harold Bloom parla di Visioni profetiche, ma poi si inoltra nelle divagazioni della mente umana, cosciente oppure non, con una particolare devozione al mondo dei sogni. Un po’ perché il fulcro delle sue riflessioni è sempre, in un modo o nell’altro, Shakespeare e un po’ perché “i nostri sogni trafficano scopertamente con le nostre paure e con le speranze per il futuro; nei sogni creiamo con la massima intensità libere associazioni, e, a meno che non siamo adamantini metafisici materialisti, nella realtà dei nostri sogni siamo portati a incontrare annunci di trascendenza”. La continuità tra i paesaggi onirici e le Visioni profetiche scaturisce dal gioco di prestigio di Harold Bloom perché “non esiste un rapporto semplice tra sogni e viaggi ultraterreni, tanto arcaici quanto moderni. La compenetrazione di resoconto onirico e narrativa di ricerca è la norma; entrambi sono forme romanzesche, nel senso tecnico di storie meravigliose che affidano il loro effetto a un sapere imperfetto, all’incanto dell’elusivo”. Molto dipende da quello che sosteneva Henry Corbin, richiamato spesso dallo stesso Harold Bloom: “L’uomo, per sua intima natura, è legato al sistema delle realtà superiori, anche se ordinariamente questo sistema dei mondi supremi a lui sembra qualcosa di naturale al modo in cui la sua duplice esistenza, che prevede materia e spirito, nella sua globalità a lui sembra ovvia. L’uomo non si meraviglia affatto di quei passaggi che deve fare continuamente nel mondo dell’azione, dal regno dell’esistenza materiale a quello dell’esistenza spirituale. Per di più, il resto degli altri mondi che penetrano anche nel nostro può sembrarci parte di un qualcosa di naturale”. Nell’intersezione tra creature angeliche e speculazioni metafisiche, Bloom si muove con destrezza, assecondando la sua inclinazione principale, la critica letteraria (e quindi la lettura) e ricordando che molto è dovuto alla “fantasia dei poeti”, dato che “gli angeli dal nostro punto di vista, devono costituire eventi umani piuttosto che divini. Dio non ha bisogno di credere negli angeli; noi invece sì, ma è necessario che questa fede abbia un senso, in modo che le leggi della natura siano violate per qualche scopo”. Harold Bloom suggerisce, estrapola, commenta ed elabora, districandosi tra “emanazione, creazione, formazione e azione” e più che un apparato filosofico o teologico Visioni profetiche mette a disposizione una moltitudine di occasioni per disorientarsi nei Secoli americani e nella comprensione del mondo a venire, proprio mentre “schiere di anime illuse implorano gli angeli di fare per noi quel che dovremmo fare per noi stessi”. Dietro le speculazioni sulla cabala e sul sufismo, tra le asserzioni di Freud e le esperienze degli sciamani, Harold Bloom si aggira impertinente e sornione, ricordando comunque che tra Angeli, sogni, risurrezioni, “i messaggeri risultano inutili se non hanno messaggi da consegnare e se non c’è nessuno che li invii”. Con una deviazione dedicata a un’esperienza tutt’altro che trascurabile a cui, infatti, Harold Bloom concede un breve, ma giusto tributo tra le Visioni profetiche: “Il rock marchio o vessillo autentico della controcultura, ha rappresentato una volta una nuova versione dell’autoctona religiosità americana, per effimera o secolare che fosse, analoga, per quel che è durata, a certe fiammate trasformatesi poi in credi permanenti, come quelli dei mormoni, dei pentecostali o degli avventisti. È passato, probabilmente nell’inverno 1969-1970, quel momento in cui l’intensità dello spirito raggiunse il suo apice effimero, e quando qualcuno dei miei studenti più sensibili mi assicurava che i Jefferson Airplane, in concerto, avevano comunicato un’esperienza mistica”. Le porte della percezione si aprono anche così.