lunedì 28 aprile 2014

Jorie Graham

L’intensità della poesia di Jorie Graham è tutta nella sua aderenza alla realtà, almeno per quanto riguarda la scintilla iniziale, l’ispirazione, nell’annusare la vita che viviamo, ovvero “l’immensa sospensione del respiro del mondo”, in questo secolo che poi non è molto diverso dall’altro. L’abilità che si evince leggendo Il posto è invece quella di riuscire a bilanciare una specifica competenza nell’ordinare le parole in versi con la spiccata attitudine di attenersi a quella realtà che la poesia deve e vuole trasformare con una convinzione inattaccabile perché “dobbiamo scrivere la storia del visibile che il domani venga investito dell’oggi, come le parole giunte per caso dalla stanza accanto, fatti gravi raccontati in voce calma, il mondo un posto in prestito che abbiamo usato, dobbiamo scrivere dell’uso che ne facemmo, non sempre evidente il significato, non importa quel che dopo scopri del nostro pensare, ma il proscenio così chiaro, per tutto il tempo, umano. Come abbiamo fatto a rimanere vivi senza poter più abitare”. Il posto è la migliore celebrazione di questo modo di vedere e scrivere. C’è un’osmosi continua tra la percezione e la scrittura: il flusso poetico è incontaminato, coerente e costante e, verso dopo verso, si avvia a formare un continuum tra l’esperienza della vita e quella della poesia. Da una parte, il senso delle stagioni di Jorie Graham spicca e Il posto si rivela un luogo di emozioni multiformi, che assumono attraverso il contorno del paesaggio (Tramonto rende alla perfezione, attraverso le parole, la luce della marea ed è capace di imitarne il ritmo) il profilo della riflessione e dell’introspezione rese esplicite da Cagnes Sur Mer 1950: “Così qui, io di nuovo, rileggo il libro del tempo, il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui natura non so rintracciare, o la forma, o l’origine”. D’altra parte c’è Wallace Stevens ai margini di queste pagine perché “non tutti i giorni il mondo si accomoda in una poesia” e Jorie Graham balla sul filo di rasoio della realtà aggrappata alla volubile natura dei versi: “Mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio, macchia scura dove una storia non diventa ancora un’altra, e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a dirmi da dove vengono le cose, né dove vanno, dove risplenderà il flusso dell’inclinazione nella sua veloce discesa”. La sorpresa, una volta tanto, sta nell’attualità dolorosa di Lavoro, che dimostra come nella dolcezza del suo linguaggio, che scivola secondo linee sinuosidali sempre elegantissime, Jorie Graham non rinuncia ad affrontare argomenti d’ordinaria brutalità. Quella crisi a cui serve una Tregua per dire che “ci contiamo per esser certi d’esserci tutti, qui dentro, insieme, unici azionisti” o la convivenza con la paura  il Messaggio dalla cattedrale di Armagh o ancora con il dubbio in Il futuro della fede (Sulla particella Z 52 del contratto di compravendita) dove dice: “Non puoi arrivare cieco a destinazione, o portare il peso per tutto il viaggio”. Toccante. 

mercoledì 23 aprile 2014

James Baldwin

Negli Appunti americani sono raccolti i saggi che hanno reso nota la lucidità dell’analisi e l’efficacia dello stile di James Baldwin. Sulla carta, almeno all’anagrafe, è passato mezzo secolo, eppure questi pensieri sono sempre attualissimi. L’ossessione per l’essere americani e afroamericani nello stesso stempo è sviluppata secondo coordinate multiple e poliedriche, e senza fare sconti perché come scrive James Baldwin, “diventare un americano comincia dal momento in cui si rifiutano tutti gli altri legami, qualsiasi altra storia, e si adotta la veste della terra che ci ha adottato. Questo problema si è posto a tutti gli americani durante la nostra storia, in un certo senso è la nostra storia, e sconcerta l’immigrante e rende insicura la seconda generazione, a tutt’oggi”. La complessità degli Appunti americani deriva dalla sua scrupolosa natura, fitta di toni e note polemici che non risparmiano nessuno. A scanso di equivoci e un po’ come indispensabile premessa, James Baldwin precisa che “tuttavia, le questioni sociali non sono in genere il pensiero primo dello scrittore, che sia giusto o no; è assolutamente necessario che egli stabilisca fra sé e quelle questioni una distanza che gli permetta, come minimo, chiarezza, così che prima di poter guardare avanti in un modo che abbia un qualche senso, gli deve essere prima permesso di rivolgere un lungo sguardo all’indietro”. Partendo dal blues, dal gospel, dagli spiritual e insistendo poi sull’onda autobiografica tra Parigi e New York, nell’articolazione degli Appunti americani, James Baldwin insegue la chimera di un’identità e ne ammette l’incosistenza in un passo che suona come una confessione: “Ciò che è accaduto, nel corso della mia vita, ricapitola quanto è accaduto ai miei antenati. Nessuna promessa fu mantenuta con loro, nessuna promessa è stata mantenuta con me, né posso consigliare a coloro che verranno dopo di me, né ai mia consanguinei nel mondo, di credere a una sola parola pronunciata dai miei connazionali moralmente falliti e disperatamente disonesti”. La scrittura non è soltanto lo strumento per fissare e rileggere le circostanze, la storia, perché “si scrive solamente in base a una cosa, la propria esperienza”, ma anche il modo per rispondere a quello che James Baldwin chiama “l’unico vero dovere dell’artista: ricreare dal disordine della vita quell’ordine che è l’arte”. Wole Soynka scrisse che James Baldwin era troppo affascinato “dalle ambiguità delle scelte morali nei rapporti umani per pensarle in crudi termini conflittuali” e gli Appunti americani non fanno altro che confermare l’ampiezza di quel pensiero perché “in sostanza è vero, l’apparenza cambia in continuazione, con ogni generazione che accoglie con esultanza effimera le aggiunte sempre più abbaglianti alla nostra famosa facciata. Ma il ghetto, l’ansia, l’amarezza e la colpa continuano ad alimentare un indescrivibile complesso di tensioni. Ciò che il tempo porterà agli americani sarà finalmente la loro identità”. In un altro mondo, sarebbe un libro di testo, obbligatorio.

lunedì 21 aprile 2014

John Jeremiah Sullivan

Meno caleidoscopico di David Foster Wallace, meno caustico di Hunter Thompson, agli estremi della non fiction americana, John Jeremiah Sullivan è premuroso nel centellinare l’espressione dello stile e della personalità, che appaiono evidenti con l’esposizione dei fatti e delle cronache. La sua è una scrittura che prende dal pop e si nutre di quell’essenzialità e dei suoi cliché, incastrandoli ed elevandoli in un linguaggio e in un’analisi più complessi. John Jeremiah Sullivan armeggia con la materia con tutte le cautele del caso, sa fin dove spingersi e dove fermarsi prima che il suo  saggio si trasformi in un articolo o confonda l’originalità della prosa, sempre brillante, con il dovere della semplice cronaca. Gli argomenti sono tra i più disparati, dal suo bizzarro mentore all’uragano Katrina, dalle utopie di Disney alla plasticità fenotipica e John Sullivan si destreggia con una leggerezza che è il principale tratto del suo stile comune a tutti i brani di Americani. Descrive come non è riuscito a nessuno due casi umani inenarrabili del calibro di Michael Jackson e Axl Rose (e per estensione Kurt Cobain) compresa quella perfetta definizione dei Guns N’Roses che li ritrae come “l’ultima grande rock’n’roll band che non trovava imbarazzante essere una rock’n’roll band. Ci sono migliaia di band al mondo che non trovano affatto buffo il rock, ma di rado ce n’è una buona. Con i Guns, non importava quanto ti sentivi sofisticato in fatto di gusti musicali pop (lasciando da parte per il momento la natura paradossale di questa categoria sociale), non potevi liquidarli”. Anche l’incontro con Bunny Wailer, uno dei resoconti più densi e coloriti di Americani è la dimostrazione di un modello di reportage che privilegia ancora l’esperienza diretta, sul campo, il toccare con mano perché poi John Jeremiah Sullivan scopre che “il vero regalo che mi ha fatto è stato quello di dire no”. La scrittura è pulita, rigorosa, concreta, senza fronzoli, con molte idee e qualcosa da dire anche se John Jeremiah Sullivan si concede, spesso e volentieri, piccole partenze per la tangente e salutari divagazioni per non restare imprigionato nella realtà e nelle sue perversioni. In effetti, Americani offre una delle più efficaci letture e analisi del mondo dei reality mai viste: “Siamo tanto fragili? Dev’essere così. Ce ne sono troppi, semplicemente, troppi programmi e troppa gente nei programmi, perché non stiano rivelando qualcosa di endemico. Siamo noi: un popolo di selvaggio sentimentalismo che piange e solleva pesi”. Da Disney alla scoperta della wilderness americana attraverso la figura di Costantine Samuel Rafinesque, in contrasto con quella ormai istituzionale di Lewis & Clark, o quella dell’apocalittico Marc Livenwood (sempre ammesso che esista) John Jeremiah Sullivan scopre soltanto, come scriveva Rafinesque, che “tutte le storie d’America non sono che frammenti o sogni”. Come direbbe uno dei suoi Americani, un personaggio che ama risolvere le questioni schiacciandole con un timbro gigante: approvato.

martedì 15 aprile 2014

Philipp Meyer

Questa è l’America e Il figlio ha il coraggio di dirlo senza patemi, con grande chiarezza e uno stile che avvinghia il lettore dall’inizio alla fine. Con Philipp Meyer, la costruzione di una nazione attraverso la distruzione di una famiglia: la trama di questo splendido romanzo è tutta condensata nello sviluppo di un’idea di America molto realistica, molto concreta, molto poco diffusa e che invece scoperchia quei pozzi nelle cui profondità sono nascoste alcune ineluttabili verità. Scomode, senza dubbio: Il figlio si annoda e si scioglie proprio come una treccia attraverso l’alternarsi del racconto dei tre protagonisti della famiglia McCullough, lungo il border tra il Texas e il Messico. Ne arriverà un quarto, alla fine, ma questo sta al lettore scoprirlo. Il capostipite è Eli McCullough: rapito dai Comanche dopo che gli hanno massacrato la famiglia, vivrà con loro gran parte della sua vita. Già in questa fase Il figlio sfata il mito del buon selvaggio e dell’uomo bianco crudele (che pure ci sta) perché prende forma una sorta di spietata democrazia quando “il sangue che scorreva nella storia poteva rimpiere tutti i fiumi e gli oceani, ma nonostante quell’ecatombe, tu eri lì”. Eli (o Tiehteti nella lingua Comanche) diventerà poi un ranger, quando la sua tribù verrà sterminata dal vaiolo, e infine un petroliere. Non riuscirà a tramandare al figlio Peter, ancora legato all’agricoltura e all’allevamento, lo stesso spirito avventuroso e aggressivo, destinato piuttosto alla nipote prediletta Jeanne Anne. Sono loro due gli altri protagonisti attorno ai quali ruota lo sfruttamento indiscriminato della terra, e delle sue risorse, così come quello degli esseri umani (in particolare degli immigrati messicani) che è alla radice della formazione americana. Philipp Meyer lo concentra in una frase laconica, che condensa tutto Il figlio in due righe: “Diventeremo padroni di tutto. All’infuori, ovviamente, di noi stessi”. E’ proprio per questo che, per seguire la saga della famiglia McCullough, più che un albero genealogico, serve una mappa. Bisogna districarsi nel significato estremo della frontiera, che è il confine, è il border ed è un mondo e un nemico diverso da scoprire ogni volta. Ad ammettere il senso ultimo del limite, implicito nel confine, reale o immaginario che sia, è Jonas, figlio di Eli e fratello di Peter, che osserva con disincanto il mito dell’America: “Non so che fine farà questo posto, ma al momento non ne vedo i vantaggi. Non è abbastanza popolato per avere una cultura, ma nemmeno così selvaggio da essere interessante. E’ solo una provincia”. Lo dice di ritorno dall’Europa devastata da quella seconda guerra mondiale che è stata la fortuna economica e industriale dell’America e dei McCullough, ma anche una maledizione infinita. Con Il figlio, Philipp Meyer ha il dono di riuscire ad allineare due secoli di storia spesso crudeli, sempre contraddittori, senza timori reverenziali, senza esitazioni trasformandoli in un romanzo che, nella sua semplicità e con le sue imperfezioni, si avvicina parecchio a un’idea edificante di letteratura.