Quasi implodendo, tutti i personaggi che affollavano Il passeggero si riducono ad Alicia Western, matematica e paziente, e Michael Cohen, il medico che l’accoglie nella struttura psichiatrica di Stella Maris nell’ottobre del 1972. Questa riduzione ha qualcosa di ineluttabile (“Non sono qui per fare un esperimento. Posso girarla come mi pare ma alla fin fine qua sto”) perché “chi più chi meno siamo tutti un collage di ricordi” e le proiezioni di Alicia che l’accompagnavano fin dall’infanzia sono diventate troppo ingombranti, tant’è che “la cura non riesce mai a stare al passo con il bisogno”. Più che un dialogo, pare un’intervista, o un interrogatorio: lei ammette di avere “conversazioni clandestine con dei personaggi a quanto pare inesistenti” e che i miraggi che l’hanno circondata fluttuano inafferrabili e incomprensibili dato che “le figure oniriche mancano di coerenza. Ne intravedi dei pezzi e il resto ce lo metti tu. Un po’ come col punto cieco. Mancano di continuità. Si tramutano in altri esseri. Senza contare che il paesaggio in cui si muovono è un paesaggio onirico”. Si capisce che la stramba umanità che agitava Il passeggero era fatta della sostanza dei sogni di Alicia e nella discussione senza sosta con Michael Cohen (Stella Maris è fatto soltanto del loro dialogo) vengono affrontati i risvolti morali del progetto Manhattan, la natura della realtà (“Le nostre convinzioni circa la natura della realtà devono anche rispecchiare i limiti con cui la percepiamo”), gli assoluti della matematica e della geometria, Shopenauer e Kant, Wittgenstein e Montaigne, Euclide e Anassimandro, Freud e Jung, Gödel e Darwin. Non è una passeggiata e si procede per tentativi: “Credo si parta dall’immaginario. Poi si inizia a fare sul serio e si tira fuori l’atlante”. È soprattutto la filosofia ad attrarre l’attenzione dei due e a fornire i principali spunti di conversazione, fino alla definizione che “se il mondo è di per sé un orrore allora non c’è niente da aggiustare e l’unica cosa da cui potremmo essere protetti è la sua contemplazione”. Sorprende che in un libro così erudito e impegnativo Cormac McCarthy si adegui a una svista, peraltro molto comune, attribuendo a Platone la frase “solo i morti hanno visto la fine della guerra” che in realtà è di George Santayana, ma questo trascurabile episodio vale appunto a ricordare che “le parole sono cose che abbiamo inventato”, e tendono a sfuggire al controllo. È naturale ricordare che “l’arrivo del linguaggio è stato come l’invasione di un sistema parassitario”, ma anche questo l’aveva già detto William Burroughs, un milione di anni fa. La discussione si fa via via sempre più serrata, e sincopata, con un ritmo tambureggiante. La collocazione asettica di Stella Maris è utile a tenere esclusa ogni forma di intrusione o di disturbo collocando ogni frase su uno sfondo livido, preciso, perfetto. Il contrasto è voluto e ricercato con ossessiva convinzione, ma l’insieme resta instabile e Cormac McCarthy tenta una cernita elaborata perché “quello che a noi sembra irrilevante in virtù dell’abitudine è in realtà il concetto fondativo della civiltà. Il linguaggio, l’arte, la matematica, tutto. In ultima analisi il mondo stesso e tutto ciò che contiene”. L’ambizione di Stella Maris, pur con tutti i risvolti che toccano Alicia e Michael, è arrivare a completare una visione, ma in definitiva, “è complicato. Alla fine ci si ritrova a parlare di fede. Della natura della realtà”. Siamo in una twilight zone aurorale, tutto resta sospeso come un immane punto di domanda che Cormac McCarthy riassume così: “Nella memoria degli eventi c’è una sintesi che quanto a realtà non ha niente a che fare con la realtà. Ti risvegli da un incubo con un certo sollievo. Ma questo non lo cancella. L’incubo è sempre lì. Anche dopo che l’hai dimenticato. La sensazione che ci sia qualcosa che non hai capito continuerà a perseguitarti a lungo”. Bello, difficile e addio.
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