Bisogna dare atto all’inarrestabile catena di montaggio di Stephen King di mantenere ogni volta, in mezzo al dispendio di un gran mestiere, un barlume di sorpresa. Per esempio, qui si sa già fin dall’inizio chi sono i colpevoli, Roddy e Emily Harris, professori universitari con una missione perversa per cui la suspense è tutta dedicata a un lungo lavoro preparatorio che occupa tre quarti abbondanti della storia. Anche Holly è una vecchia conoscenza nei romanzi di Stephen King: un personaggio che si è guadagnato via via una posizione di rilievo, la ricordiamo almeno in The Outsider, e che qui diventa protagonista assoluta. È una figura femminile con tutta una serie di riserve e idiosincrasie, accentuate dalla pandemia, e quando è coinvolta nel caso di una ragazza scomparsa, incrocia la sequenza di altre sparizioni che, giocoforza, conducono all’antro senza speranze dei coniugi Harris. La collezione di indizi arriva per intuito, per deduzione, per supposizione e Stephen King è nel suo elemento nel mettere insieme i dettagli della vita della smalltown che Holly attraverserà in lungo e in largo. Presentata fin dall’incipit, la cittadina del Midwest, come tante altre della provincia americana care a Stephen King, è il territorio ottimale con cui riesce a disporre e a descrivere di tutti i componenti essenziali, come ammette nella nota conclusiva: “Credo che la narrativa sia credibile al massimo grado quando coesiste con eventi, individui, perfino nomi di prodotti che appartengono alla vita reale”. Su questo Stephen King ci ha costruito una carriera e una fortuna e tra i dettagli vanno aggiunte le canzoni di Bob Dylan della J. Geils Band, di Otis Redding, o Bruce Springsteen lasciate scivolare con nonchalance, ma senza che abbiano un vero impatto sul racconto in sé. La ricostruzione dei rapporti, dei particolari ambientali e, in definitiva, della vita quotidiana è lo sforzo maggiore, per quanto una pratica costante nel catalogo di Stephen King. Ci si dedica con scrupolo, anche eccessivo, ma infine il quadro è ancora quello lì: il bowling, l’università, i parchi e il lago, i quartieri residenziali, i ragazzi sullo skate, i parcheggi, compongono una specifica topografia che sembra indicare quanto sia importante l’ambiente nel determinare ogni passaggio del caso da risolvere. In effetti, Holly perlustra un po’ tutti i luoghi in cerca di una traccia risolutiva (qualcosa troverà, va da sé), e sarà proprio una rudimentale mappa a fornire una parziale soluzione, ma le funi dal cielo, come le chiamava il suo mentore, Bill Hodges, forse sono un po’ troppe. C’è molto movimento nell’inseguire l’intuito e si capisce che Stephen King abbia voluto creare un’atmosfera, più che affidarsi ai cliché. Holly è al centro di una rete di amici, colleghi, compagni di avventure e sono proprio loro a convergere verso l’epicentro della criminale follia. Non tutto andrà per il verso giusto e Holly rischierà molto (anche se non è la prima volta). La struttura funziona, ma è un po’ risaputa e l’assenza dell’elemento sovrannaturale si fa sentire. Per quanto pericolosa, la coppia dei tragici vecchietti non è nemmeno inedita e dietro il loro uso dell’antropofagia c’è tutto il tema della credibilità scientifica messa in discussione nel periodo della pandemia in cui è ambientato il romanzo. Volendo, il cannibalismo suona un po’ come una metafora di una gerontocrazia vampiresca che si nutre dei propri figli, ma questa è soltanto un’ipotesi remota, dato che Stephen King si concentra soprattutto sui legami tra i personaggi, lasciando intuire che abbiano un futuro prossimo venturo, ma non si può svelare molto di più. Il finale è avvincente perché Stephen King sa come prenderti alla gola e avvinghiarti alla storia quando gli eventi precipitano, però per arrivarci ci vuole un bel po’ e nel frattempo bisogna accontentarsi di ritrovarsi più o meno negli stessi posti. A volte può essere un piacere, a volte no.
Nessun commento:
Posta un commento