sabato 30 settembre 2017

Harold Bloom

L’Anatomia dell’influenza è il compendio generale dell’attività critica di Harold Bloom (un cognome che già evoca un enigma letterario), un concentrato in cui non è difficile trovare le connessioni primarie e le intersezioni con Il canone americano e Il canone occidentale, ma anche con tutte le altre speculazioni. Spesso autoreferente o eccessivo nell’interpretazione della letteratura, altre volte Harold Bloom sa essere chiaro e preciso, grazie alla lunga esperienza parallela di insegnante e Anatomia dell’influenza è una sorgente inesauribile di suggestioni e suggerimenti a partire dall’epigrafe cucita su misura di Lev Tolstoj: “Per la critica d’arte sono necessari uomini che dimostrino come è assurdo cercare le idee in un’opera d’arte, uomini che guidino continuamente i lettori nell’infinito labirinto di concatenazioni nel quale consiste l’essenza dell’arte, e verso quelle leggi che servono di base a queste concatenazioni”. In realtà l’influenza si propaga come se fosse un flusso di onde gravitazionali in una galassia che vede al centro Shakespeare, l’alfa e l’omega di tutti i pensieri di Harold Bloom: “Leggere Shakespeare equivale a subire una dilatazione più marcata della coscienza verso quella che all’inizio sembra una stranezza fatta di dolore o stupore. Mentre ci apprestiamo a incontrare una coscienza più grande, ci prepariamo a una sottomissione provvisoria che mette da parte il giudizio morale, mentre lo stupore si tramuta in una comprensione più immaginativa”. A maggior ragione, Shakespeare (e l’autore, in generale, per estensione) è “il creatore di una nuova realtà in cui, in maniera non del tutto consapevole, ci ritroviamo più autentici e più strani”. Un’opinione confermata più in là da Samuel Johnson (“Colui che legge Shakespeare si guarda intorno allarmato e scopre di essere solo”), uno dei punti di riferimento inamovibili perché Anatomia dell’influenza non è soltanto un libro di Harold Bloom: coagula attorno a sé critici e scrittori vicini e lontani, con cui è in accordo e in disaccordo. Più di tutti proprio Samuel Johnson, poi, tra gli altri, Walter Pater, Thomas Hobbes, Thomas Carlyle, Jonathan Swift, Favola nella botte, William Morris, Sigurd Il Volsungo, Percy Bysshe Shelley, James Merrill e W. B. Yeats. Quando eccede nelle definizioni o nelle analisi, Harold Bloom sa essere complicato, se non proprio astruso, altrimenti emana passione, competenza, conoscenza e sa convincerci che “l’amore letterario è una strategia sociale, più affermazione che affetto, ma i critici e i lettori competenti sanno che non siamo in grado di comprendere la letteratura, la grande letteratura, se neghiamo un autentico amore letterario agli scrittori o ai lettori. La letteratura sublime richiede un investimento emotivo, non economico”. Le letture suggerite ed esplorate da Harold Bloom, oltre all’Amleto di Shakespeare, (fondamentale, perché “la vita umana è più semplice del pensiero, ma l’esistenza è anche pensiero quando adottiamo la visione di Shakespeare”) sono Freud, Whitman, (“maestro della metafora” ed espressione “poetica del sublime americano”), Stevens, Crane, Borges, Leopardi, Joyce, Kafka, Aldous Huxley. I rimandi e i consigli sono sterminati: dalla sintesi delle tematiche della letteratura americana che si concentrano verso “il mare, la madre, la notte, la morte” alla sua estensione verso tutta la narrativa anglosassone (“Se si interiorizzano i maggiori poeti britannici e americani, dopo qualche anno le loro complesse relazioni reciproche iniziano a formare schemi enigmatici”) fino ad “affrontare solo gli scrittori in grado di infondervi la sensazione che ci sia qualcos’altro sul punto di accadere”, Harold Bloom è prodigo di istruzioni per l’uso, che poi si condensano nella catena di infiniti “leggere, rileggere, descrivere, valutare, apprezzare”. A quel punto, e con la pratica letteraria ormai sovrapposta alla vita quotidiana, diventerà comprensibile la frequente citazione di Pseudo Longino: “Pieni di gioia e orgoglio crediamo di aver creato ciò che abbiamo sentito”. Funziona proprio così.

lunedì 25 settembre 2017

Lawrence Ferlinghetti

L’eco di Coney Island Of The Mind è sempre forte e qui si trasforma quasi in una chiamata del destino. A distanza di trent’anni, Un luna park del cuore torna a ricordarci che “il presente è un accidente che si protrae e si protrae nel futuro” e le poesie sono istantanee che rubano il tempo. E’ il 1997 e le allegorie di Lawrence Ferlinghetti lo conducono verso le proprie radici “e avendo perso il senso del posto da cui provenivo, con l’amnesia dell’immigrante percorsi in lungo e in largo la faccia estroversa dell’America, ma non importa dove abbia vagato, fuori da ogni mappa, ancora mi piacerebbe ritrovare quel posto perso, dove potrei salire un’altra volta su un metrò domenicale per chissà quale Far Rockaway del cuore”. Il ritorno è reale, oltre che poetico, come annoterà negli Appunti di diario, New York, 2 marzo 1997, poi raccolti in Scrivendo sulla strada: “Sul mio certificato di nascita c’è scritto 106, Saratoga Avenue Yonkers... Prendo il treno fino alla 168ª strada, poi l’uno e continuo sulla sopraelevata fino a Van Cortlandt Park, poi un autobus fino a South Yonkers. E’ solo un miglio, o poco più, lungo il lato ovest del parco fino a Caryl Avenue. Scendo lì, seguendo il vago consiglio dell’autista nero che indica gesticolando la direzione in cui pensa possa essere Saratoga Avenue... E allora un miglio a piedi in salita, oltre isolati di condomini con i propri giorni migliori alle spalle. Ed ecco la fine di Saratoga Avenue, con un negozietto a conduzione familiare. Ne esce un vecchio bianco con una bottiglia in un sacchetto di carta. Mi attraverso con lo sguardo come se fossi parte della strada e fossi lì da sempre. (Forse è così)”. Nel clima crepuscolare di fin de siècle, Lawrence Ferlinghetti affronta “la febbre dell’efferata vita di città” ed è come se “nell’alluvione degli anni” lo stupore fosse rimasto intatto con “il sogno immenso” sopravvissuto all’esilio. Il luna park del cuore si accende ancora una volta, i versi sgorgano (“Tutte le persone della tua vita in una casa di notte luci tutte accese come un transatlantico in alto mare”) “e ogni poesia e ogni quadro una sorpresa stimolante per occhio e cuore, qualcosa che ti sveglia di colpo dal sonno immemore del vivere in un lampo di epifania pura in cui tutto è immobile in luce adamantina, fissato, rivelato, per ciò che davvero è in tutto il suo mistero”. Non ci sono solo luminarie e fuochi d’artificio: è anche un momento di riflessione perché Lawrence Ferlinghetti ha ormai un’età in cui “era troppo tardi per farci nulla tranne crederci o dubitarne” e sa che “il poeta scandagliando l’ignoto come un peschereccio d’alto mare va a pesca di immagini primigenie con reti di parole per catturare l’ultima lingua franca in libertà il pesce cieco del destino dell’uomo”. Lo fa anche con la certezza, per niente scoraggiante, che “intanto l’acqua fluisce e canta fra le chiuse della vita quotidiana”: è una maturità che non toglie nulla allo spirito (indomito) di Lawrence Ferlinghetti e Il luna park del cuore è anche l’occasione per ricordare che “il mondo non sta per finire per mancanza di luce” e “comunque la storia non è in realtà storia fino a quando non è riscritta”. Lo sguardo a est vede solo l’oceano, a ovest la strada, e in mezzo resta “un attimo di silenzio, e un attimo di epifania, un attimo di estasi, un attimo di follia, e un attimo di silenzio”, un luna park che non si ferma mai.

martedì 19 settembre 2017

Stephen King

Il miglio verde è esemplare nel dispiegare i puntuali meccanismi di Stephen King, che sono pratici, immediati e riconoscibili nel contesto del rapporto con il lettore. Più di tutto è quella conoscenza reciproca, continua, solida e rinnovata nel tempo, a garantire comunque il funzionamento del romanzo, anche dove Stephen King tende a divagare e ad allungare il brodo. Non è roba con cui si possa pensare di vincere il premio Nobel, ma ha un indiscutibile magnetismo in quell’assiduo cercare “il fragile senso di meraviglia” che si nasconde in ogni storia. Il miglio verde comincia con un lungo lavoro di preparazione e la costellazione di personaggi secondari e dell’ambiente dove maturato l’efferato delitto da cui si dipana tutta la trama, un’area in cui “costruiscono da sé i propri mandolini e spesso sputano i denti marci nei solchi dei campi che stanno arando; ventre della campagna dove gli uomini erano proclivi a maneggiare serpenti il sabato mattina e a giacere in abbracci carnali con le proprie figlie la domenica sera”. Con l’America della Depressione sullo sfondo, il braccio E, in cui Il miglio verde rappresenta l’ultima frontiera prima della sedia elettrica, ospita John Coffey, un prigioniero gigantesco condannato alla pena capitale che, si scoprirà, ha un dono magico, e doloroso. Il suo arrivo e quello di un piccolo topo, chiamato Jingles e/o Steamboat Willie, scardinano i già precari equilibri tra le guardie e gli altri prigionieri. Stephen King è nel suo elemento quando si tratta di rendere l’atmosfera e, con Il miglio verde riesce nel difficile compito di far comprendere le sottili, cupe e imprevedibili dinamiche di un braccio della morte. “Avviare la conversazione” è il fulcro della giornata per tutti gli inquilini che camminano lungo Il miglio verde, e sui singoli caratteri, sui bisogni, su ogni piccolo incidente pesa una data di scadenza scritta su un atto giudiziario. Molti dettagli vanno valutati con parametri straordinari e con una sensibilità più acuta del solito perché “quando parte del lavoro è scambiare la vita con la morte”, è difficile trovare una forma di redenzione. La tensione è mantenuta costante da Stephen King e le parti ripetute più volte nel romanzo sono dovute sia al fatto che Il miglio verde in origine era uscito a puntate, sia all’intenzione di ricordare più volte l’essenza della storia. La spada di Damocle sospesa sopra la testa di tutti (e non solo dei condannati) è la pena di morte e la sua esecuzione attraverso uno strumento brutale come la sedia elettrica e, peggio ancora, l’idea che un’ipotesi di giustizia possa essere determinata e definita con queste modalità. Un tema specifico, ed esplosivo, dato che nel braccio E, e non solo, “il tempo si prende tutto, che tu lo voglia o no. Il tempo si prende tutto, il tempo lo porta via, e alla fine c’è solo oscurità”. A Stephen King non basta, come è nella sua natura, e al fiume principale aggiunge una miriade di rami secondari, che a tratti riescono a reggere l’urto della storia e scorrono paralleli, e a volte si disperdono, senza sortire particolari effetti. Le parti non necessarie sono comprese nel prezzo, comunque, e Il miglio verde resta un esempio dello storytelling di Stephen King da centellinare con cura.

venerdì 15 settembre 2017

Paul Bowles

Sia Anita che Tom sono nella valle del Niger in cerca di una via d’uscita. Tom, un pittore, vuole trarre ispirazione dalla vita e dai paesaggi subsahariani. Anita si è lasciata alle spalle New York e un divorzio e l’ha raggiunto per ritrovare uno scampolo di equilibrio. Fratello e sorella sono molto simili negli atteggiamenti, entrambi misurati e guardinghi, ma distanti nella condizione psicologica. Tom si destreggia con il suo momento artistico e si è ambientato quel tanto che basta da evitare attacchi di nostalgia. E’ Anita che è Troppo lontano da casa: soffre la sua personale situazione non meno delle condizioni ambientali, igieniche, atmosferiche e (più di tutto) culturali. Tom e Anita sono completati nell’economia della storia dal personale al loro servizio, Sekou e la cuoca Johara, quasi un loro riflesso, indigeno e speculare. Un giorno, per scuotere Anita dalla malinconia, Tom le chiede di farsi accompagnare da Sekou a comprare delle pellicole, dall’altra parte del villaggio in cui vivono, non lontano da Timbuctu. Anita e Sekou hanno un incidente: vengono investiti da una moto con due turisti americani, sprezzanti e spericolati. In apparenza, salvo una ferita per Sekou, non ci sono particolari conseguenze, ma da lì la trama di Troppo lontano da casa comincia ad avvitarsi e a caricarsi di tensione. Anita è costretta a confrontarsi con i propri incubi, e nonostante le rassicurazioni del fratello (“Semplicemente non c’è alcun collegamento fra il contenuto del sogno e il perché tu credi di farlo”), non riesce a pensare che ad andarsene, finché il complesso quadrilatero emotivo, che vede Tom, Sekou e Johara agli altri angoli, non viene scardinato dalla presenza di madame Massot. In effetti, nel gioco a incastri studiato da Paul Bowles, madame Massot, (di origine francese, come si può intuire), proprietaria del negozio di fotografia, è la via di mezzo tra le consuetudini locali e i modelli di vita occidentale. Forse più un racconto lungo che un romanzo breve, Troppo lontano da casa, è un piccolo marchingegno narrativo che funziona alla perfezione nell’angusto spazio che si è definito. Paul Bowles l’ha studiato come un cronometro di precisione, in cui ogni minuscola leva, ogni microscopico ingranaggio scatta e si muove al momento giusto. Il metodo l’ha spiegato in Senza mai fermarsi, la sua colorita autobiografia: “Diciamo che partivo con quattro frammenti di genere disparato, aneddoti, citazioni o semplici frasi prive di alcun contesto, racimolati da fonti distinte e che riguardavano gruppi di personaggi completamente diversi. Il mio compito consisteva nell’inventare un tessuto narrativo che fondesse tutti e quattro gli elementi originali attribuendo a ognuno lo stesso ruolo di sostegno rispetto alla struttura risultante dalla loro somma”. Nelle pagine iniziali, usando persino una forma epistolare, poi delineando i personaggi con semplici accorgimenti, e molto mestiere, e definendo il paesaggio con rapidi e significativi tratti, riesce a far emergere i contrasti, a volte molto aspri, mettendoli in rilievo con un’arguzia speciale, frutto dello spirito di osservazione e della spontanea curiosità di Paul Bowles, più che dell’invenzione narrativa. Un bell’esercizio di stile, efficace ed elegante.

lunedì 11 settembre 2017

Wallace Stevens

L’azzurro è la sfumatura dominante nel Mattino domenicale di Wallace Stevens. E’ ovunque, e non soltanto in L’uomo con la chitarra azzurra, dove è richiamato in modo esplicito quello che Picasso chiamava “il colore di tutti i colori”. La presenza del pittore spagnolo in Mattino domenicale è poco più che simbolica eppure rivela e rende luminosa la proclamata singolarità di Wallace Stevens. Come scriveva René Char, “la grande rivoluzione delle arti che ha compiuto praticamente da solo, è che il mondo è la sua nuova rappresentazione”. Un indizio insolito e sorprendente che annoda con un sottile e contorto filo (blue) l’immaginazione della poesia e la realtà. In Anatomia dell’influenza, Harold Bloom sosteneva: “Wallace Stevens sa di essere diverso perché è consapevole che l’io e la poesia sono finzioni”. L’apoteosi di questa definizione è proprio L’uomo con la chitarra azzurra, in cui Wallace Stevens esordiva con questi versi: “E’ la vita, e le cose come sono, questo ronzio della chitarra azzurra”. Nessun dubbio: l’insieme delle apparenti contraddizioni è una reazione a catena che permette lo sfoggio di una lingua ricercata, modellata, concentrata sull’ipotetica vibrazione delle parole, a sua volta una finzione nella finzione perché “la poesia è il tema del poema, da ciò il poema ha origine ed a ciò fa ritorno. Fra questi due estremi, fra origine e ritorno, c’è un’assenza in realtà, le cose come sono. O così pare”. La poesia di Wallace Stevens è un’idea di ritmo, sapendo che la “musica è dunque palpito, non suono”, che trova poi la sua espressione paradossale negli alberi intelligenti, nelle “frontiere del reale”, con “l’aria buona” e infine in “un’orgiastica ronda di creature”. A margine di Mattino domenicale, Wallace Stevens spiegava che “la vita è una questione di gente e non di luoghi. Ma per me la vita è una questione di luoghi, e questo è il problema”. Il genius loci va cercato individuato, di nuovo accanto a L’uomo con la chitarra azzurra: “E’ la terra, per noi nudo deserto. Non esistono ombre. La poesia, la musica trascende e tiene luogo del cielo vuoto e dei suoi inni. Il loro posto prendiamo noi nella poesia, e nelle ciarle della tua chitarra”. Poco più in là, noncurante di possibili ridondanze, Wallace Steves raddoppia la dose: “Un’aria ci trascende quali siamo, ma nulla cambia la chitarra azzurra: nel suono stiamo come nello spazio, senza che nulla cambi, eccetto il luogo di cose come sono, solo il luogo come le suoni sulla tua chitarra, luogo oltre il cerchio delle mutazioni, in finale atmosfera percepito; per un istante ultimo, nel modo che il pensiero dell’arte sembra ultimo quand’è l’idea di dio folta rugiada, il suono è spazio. La chitarra azzurra si fa luogo di cose come sono, e simmetria dei sensi delle corde”. Il mantra del Mattino domenicale, “le cose come sono, come sono, come saranno ancora a lungo andare”, è un refrain che induce a riflettere a fondo sulla sovrapposizione di realtà e poesia che Harold Bloom provava a illustrare con una specie di equazione letteraria: “La fede definitiva di Stevens è la finzione con la piacevole certezza che ciò in cui si crede non è vero. Questo non inficia però la verità di ciò di cui si è certi”. La fonte di questa autorevole e criptica definizione è anche l’unica possibile risposta, e va trovata nel poema di Wallace Stevens, dove dichiara, senza possibilità di fraintendimenti: “Io e la chitarra azzurra siamo una cosa unica” ed è da lì che si accordano i voli pindarici: “Getta via le formule e le lampade, e di ciò che tu scorgi nelle tenebre, di’ che è questo o che è quello, senza usare i vocaboli corrotti. Come potrai avanzare in quello spazio, se dello spazio ignori la follia, se ne ignori le allegre procreazioni? Getta via le tue lampade. E che nulla stia tra te e le parvenze che tu assumi quando alle cose si rompe la crosta”. Se nelle Credenze d’estate (“La direzione qui si ferma e tutte le cose alla sua volta: quel che esiste, quel che è estremo accettiamo come giusto, nostro bene e alveare alto fra gli alberi, miscuglio di colori ad una festa”) s’insinua l’influenza di Shakespeare, Wallace Stevens prova e riprova a spiegare le sue intenzioni: “Voglio confrontare la natura come si confrontano due leoni, il leone nel liuto che si misura con il leone imprigionato nella pietra. Voglio, come uomo di immaginazione, scrivere poesia che abbia tutto il potere di un mostro uguale in forza al mostro che scrivo. Voglio che l’immaginazione dell’uomo sia completamente adeguata di fronte alla realtà”. Tra le Liriche sparse, quel suo protagonista, lo raffigura “in un tal mondo, dove non c’è altro senso, il vero stesso è calma, il vero stesso è estate e notte, è l’uomo che s’attarda lassù chino leggendo”. Ancora nelle pieghe di L’uomo dalla chitarra azzurra aveva avvisato che “è una forma descritta ma difficile”, forse più facile, interpretazione dopo interpretazione, da vedere come in un sogno.

mercoledì 6 settembre 2017

George Saunders

Comincia con una danza di spettri, poi i primi capitoli introducono in una twilight zone in cui il potere della narrativa è nello stesso tempo esaltato e sbeffeggiato. In una sorta di limbo, sospeso tra l’aldilà e un ultimo appiglio alla vita terrena, una bizzarra compagine di personaggi assiste all’arrivo del figlio di Lincoln e al primo anno della guerra civile americana. L’aneddoto storico (straziante) è la scintilla che fa deflagrare un convivio surreale, ma non così assurdo: è come il frammento di una Divina Commedia anarchica e burlesque, dove rimangono tutti invischiati nella stessa terra di nessuno. La dimensione è vacua perché, come dice e ripete Hans Vollman, “esiste da sempre molta confusione in merito a questo problema”. A sua volta, il reverendo Everly Thomas chiama la loro condizione (non senza ragione) la “forma malata”. La conclusione spetta a Roger Bevins III che, lapidario, spiega: “Prima eri lì in quel vecchio posto e adesso stai qui in questo nuovo posto”. Sono loro tre i più fervidi commentatori e le pagine appaiono come il proscenio di un medicine show con la regia occulta di Shakespeare, in cui gli attori vanno e vengono guidati dalla profana e loquace trinità. Tra gli altri, bisogna ricordare almeno Lippert, Kane, Fuller, gli “scapoli” che nei momenti salienti fanno piovere cappelli come un quadro di Magritte. La condizione indefinita degli ospiti, l’aspetto laico (convinto) con cui Lincoln nel Bardo ritrae la delicata dimensione del passaggio, le “realtà transitorie”, un ossimoro perché non sono realtà, e sono piuttosto definitive, riportano tutto a evocare “quella gran cosa” come la chiamava Henry James (che qui ci asteniamo dal nominare un po’ per pudore, visto che non è citata apertamente fino a metà romanzo, e un po’ per scaramanzia). In questo senso Lincoln nel Bardo si può interpretare anche come un’Antologia di Spoon River distorta e allucinata: George Saunders gestisce una cacofonia di voci con ineguagliabile destrezza, senza perdere di vista nemmeno per una singola frase per l’intera dimensione del romanzo. Il tono di sfida ai limiti della scrittura è implicito ed esplicito. L’incertezza si fa disorientamento, il disorientamento è propedeutico ad alzare la soglia dell’attenzione e l’irriverenza è inclusa nel prezzo perché nelle profondità di Lincoln nel Bardo non viene risparmiato niente e nessuno e difficilmente si trova una frase consolatoria: scuote con una pioggia di domande e di affermazioni apodittiche, sempre con un robusto ghigno sulle labbra. La sfida alle biografie e alle agiografie è coerente ed evidente. La figura di Lincoln emerge tormentata e contraddittoria: un uomo travolto dal dolore che convince un'intera nazione a sopportare anni orribili di guerra, di massacri, di distruzione, di alterazione dei diritti, la sospensione di fatto dell'habeas corpus, e nonostante tutto non cede fino alla fine (la sua). “Ero amato o no?”, si chiede Lincoln, ma è soltanto uno degli interrogativi di un lavoro di scomposizione del romanzo e insieme degli avvenimenti storici che sorprende per dove può portare. La risposta rimane nell'ambiguità, visto che di sicuro non può offrirla quella che un altro astante, Albert Sloane, definisce “l’indisciplinata comunità umana che, infiammata dal suo ottuso spirito collettivo, spingeva la nazione armata verso un’imprecisa specie di catastrofe epica e bellicosa: un enorme organismo ingovernabile, dotato della rettitudine e la lungimiranza di un cagnetto non addestrato”. Qui la prospettiva visionaria di George Saunders svela il suo disegno e la sua trama, sottolineata prima disseminando innumerevoli segnali, perché la guerra civile con la sua sterminata produzione di anime in pena scardina l’equilibrio tra terra e inferno (di paradiso, neanche a parlarne), giorno e notte, felicità e destino. Il finale caleidoscopico e voluttuoso è un’esplosione di immagini, e insieme un’implosione che si porta via tutti i protagonisti, ormai “contagiati dal dubbio”, ma che si accorgono che può esistere, come dice Roger Bevins III, “un luogo in cui il tempo rallenta e poi si ferma, dove potremo vivere per sempre in un singolo istante”. Spiazzante, trascinante, superbo, Lincoln nel Bardo è un romanzo tutto da decifrare, ma tra sarcasmo e tragedia, in un crescendo apocalittico e psichedelico, matura un capolavoro unico che richiede pazienza, applicazione e scrupolo, tutto quello che serve quando la letteratura si fa esperienza.

domenica 3 settembre 2017

Tom Drury

Nella Grouse County non succede nulla, è tutto scandito da “un ingranaggio nella macchina delle stagioni”, perché l’agricoltura, vita e lavoro nel Midwest, asseconda i tempi della natura e del clima. La prima, elementare definizione del paesaggio spiega come La fine dei vandalismi sia cadenzata da eventi fuori dalla portata umana, e come nell’esistenza dei suoi abitanti non ci sia “nessuna magia, ma solo duro lavoro tutti i giorni della settimana”. Scrutando con attenzione tra le pagine, si capisce l’importanza di un morso di un cane, dell’elezione di uno sceriffo, di una festa alla fine dell’anno scolastico, di una canzone alla radio. Piccoli particolari si rivelano prima importanti e poi fondamentali ed è proprio qui che Tom Drury concede moltissimo. Dispone i personaggi in verticale sulla vasta orizzontalità del Midwest, li illumina uno alla volta e tutti insieme, dando a ciascuno un nome e un nome proprio a ogni luogo. La Grouse County, che raduna Grafton, Reinbeck, Stone City, Morrisville, Wylie, Pringmar, Chesley, Lunenberg, Martin Woods, Pinville, Margo, Romyla e Boris, è una rete di “small town” come effemeridi di un pianeta che non c’è, dato che “tutti questi nomi non avrebbero importanza, se non per illustrare la delicatezza della situazione”. E’ l’apologia del Midwest e la coscienza di una comunità matura da un mondo fatto di dettagli (in apparenza) insignificanti, eppure che si fondono uno con l’altro, che si compattano come se fossero parte della terra rivoltata e coltivata a fatica. Lo spirito con cui La fine dei vandalismi racconta l’appartenenza al territorio è quello illustrato a suo tempo e con grande precisione da Richard Ford: “Il senso del luogo in cui si vive è in genere poco cosciente e una delle funzioni della letteratura è proprio quella di creare un rapporto con l’ambiente creando un paesaggio dettagliato e popolandolo di linguaggio in modo da dare al lettore il senso di un rapporto che prima non c’era e che viene alla luce soltanto quando lo immaginiamo, quando lo incarniamo nel linguaggio che inventiamo”. Su una differente longitudine, ma con identica attitudine, La fine dei vandalismi assorbe il lettore perché Tom Drury lo mette a suo agio dentro un tessuto di “rural route” per dirla con John Cougar Mellencamp, il vero anfitrione del Midwest, citato (non a caso) al centro di una fittissima colonna sonora. I personaggi sono congruenti con il paesaggio, ma tendono a respingersi come magneti, una volta accostati, perché si “conoscono tutti, ma nessuno sembra conoscere loro”. Nell’intimo, e in questo Tom Drury è superlativo, sono tutti uguali e ogni sforzo per rendersi differenti non fa che avvicinarli e allontanarli nello stesso tempo. Il paradosso è il senso ultimo della vita nella Grouse County, nel Midwest e nella provincia (americana e non). Le differenze sono caratteriali più che sostanziali: uno sguardo, un tono di voce (soprattutto), un’abitudine (parecchie abitudini) formano la costellazione di punti di riferimento su cui si staglia la voce di Tom Drury, limpida, anche elementare (volendo), ma efficace, diretta, colloquiale, come una storia avvincente (e qui siamo solo all'inizio di una trilogia) raccontata da un estraneo al bancone del bar o nel parcheggio di un motel. Più che leggerlo, bisogna sentirlo.