martedì 26 febbraio 2019

Tennessee Williams

Una ragazza incinta chiusa in una stanza. Una donna che vagheggia un amante e una gravidanza isterica. Una cena a base di radicchio cotto poco e male. Una bambina che cammina lungo la ferrovia ricordando il fantasma della sorella. Sono le donne a interpretare I blues che sgorgano da “una specie di precoce, tragico abbandono”, sintomi di un malessere, la solitudine, che avvolge le loro notti americane. Le indicazioni di Tennessee Williams sono essenziali, precise, nel definire gli scenari dell’azione, eppure vanno ben oltre il registro teatrale. Introducendo La camera buia inquadra così la cornice in cui si svolge il dialogo tra la signorina Morgan e la signora Pocciotti: “Cucina di un modestissimo appartamento di tre stanze nel quartiere industriale di una grande città americana. Il fornello e l’acquaio denunciano una gran sciatteria nel governo della casa. Sul fornello è inchiodato un cartello: sorridere sempre”. Il vuoto è palpabile, disturbato soltanto dall’improvvido intervento di Lucio (gli intrusi appaiono con una certa regolarità nei blues di Tennessee Williams) e si manifesta nel malinconico fatalismo della signora Pocciotti: “Mio marito non ha la testa. Io devo lavorare. Ci arrangiamo come possiamo. Se va così, vuol dire che così vuole Dio. Se va male va male. Non so. Questo posso dire”. La risposta della signorina Morgan, giunta per assistere la ragazza rinchiusa è lapidaria: “Della sua volontà temo non si potrà tener conto. E neanche della sua, cara signora. Lei ha dimostrato una assoluta incapacità di accudire questa ragazza. Che dico? Lei ha addirittura contribuito al suo deterioramento morale”. La stessa tensione pervade Ritratto di Madonna (“La stanza di soggiorno di un modesto appartamento di città. I mobili sono antiquati, l’abbandono e il disordine dominano. Una porta nella parete di fondo conduce a una camera da letto, un’altra a destra nell’anticamera”) dove la signorina Lucrezia Collins insegue i fantasmi al punto di dover far intervenire una piccola folla. Anche l’entrata in scena degli altri personaggi è sottolineata da piccoli dettagli, molto eloquenti: “La porta si richiude sbattendo. Qualche secondo dopo entra un vecchio portiere che indossa un vecchio camice grigio ordinario. Si dà un’occhiata attorno l’aria di chi è incuriosito da una cosa comica e triste, poi chiama timidamente”. Prima che la signorina Collins venga avviata al suo malinconico destino “una musica si sente piano mentre gli uomini escono lentamente, chiudendo la porta, e le luci svaniscono”. A quel punto I blues cambiano sfondo e dal contesto urbano si avviano verso orizzonti rurali: “Il sipario si leva sul portico e sul cortile adiacente a un cottage a Monte Blu, Mississippi. La casa di legno è smunta, e ha un intonaco di un color verde-grigiastro rigato di colature nere dal tetto; le linee della costruzione non sono perfettamente ortodosse. Dietro è la cupa volta del cielo macchiato dal rosa di un minaccioso tramonto, mentre il vento ha guaiti da gatto. Verso il proscenio, in mezzo al cortile adiacente, prospera un enorme rosaio, di una bellezza vagamente sinistra”. C’è sempre una musica in sottofondo e in La lunga permanenza ovvero Una cena poco soddisfacente diventa parte della forma dei dialoghi come avvisa lo stesso Tennessee Williams: “Le battute uniformemente cadenzate del dialogo fra Baby Doll e Archie Lee possono essere cantilenate come una specie di curioso incantesimo corale, e si possono dividere i passaggi in strofe e antistrofe a seconda dei movimenti di Baby Doll su e giù per il portico”. I blues americani collimano con i paesaggi della loro origine naturale. Anche il crepuscolo diventa blu e Proibito (“Terrapieno ferroviario alla periferia di una cittadina del Mississippi in una di quelle mattine d’inverno lattiginose così frequenti da quelle parti. L’aria è umida e pungente. Dietro il basso terrapieno dei binari si innalza una gran casa gialla di legno tragicamente vuota”) evoca con la voce di Willie la sorella, Alva, che sapeva stare “in società”, accoglieva “macchinisti, fuochisti, frenatori”, ed è finita “in compagnia dei vermi”. Più blues di così c’è soltanto qualche corvo che “di tanto in tanto manda un suono di stoffa lacerata con violenza” o l’eco doloroso di una chitarra che evoca gli spettri tra le colline del Delta.

lunedì 25 febbraio 2019

Sherman Alexie

Quando Woody Guthrie scrisse Grand Coulee Dam per un documentario destinato a celebrare la diga sul Columbia River, colse soltanto gli aspetti pratici e più urgenti, l’enormità dell’opera e il suo peso nella produzione di elettricità per lo sforzo dell’industria bellica. L’impatto di quella che è “tuttora una delle più grandi strutture in cemento del mondo” invece ha stravolto l’habitat naturale, impedendo le migrazioni dei salmoni, che risalivano la corrente per andare a riprodursi. Settant’anni dopo,  il grido di dolore di Sherman Alexie non è per niente mitigato: “Spiritualmente parlando, gli indiani Spokane e tutte le altre tribù Salish veneravano il salmone come altri popoli possono adorare le proprie divinità. Quindi, scientificamente e spiritualmente, la diga della Grand Coulee ha ammazzato la storia della mia tribù. Ha ammazzato il legame della mia tribù con la sua divinità. E ha ammazzato il legame della mia tribù con il suo futuro. Per noi, la diga della Grand Coulee è una lapide gigantesca”. Una perdita devastante intrecciata da Sherman Alexie, nelle fasi iniziali di Non devi dirmi che mi ami, con la scomparsa della madre Lillian, che una volta ha  raccontato al figlio di aver attraversato il fiume “in groppa a un salmone”. Leggende, sogni, storie (e una serie di stupri) fluttuano senza soluzione di continuità nel movimentato universo personale di Sherman Alexie che, una volta intonata la sua canzone di morte, segue il suggerimento del poeta Simon Ortiz: “Ascolta. Se è finzione, farà meglio a essere reale”. Un consiglio che funziona anche al contrario: l’elegia per la perdita della madre e la risalita del “salmon boy” si evolvono tra un memoir aspro, tortuoso e intriso di humour, e una danza di fantasmi perché “i morti hanno voce solo se gliela diamo noi”. Diventa ben presto evidente che i toni autobiografici sono un pretesto e che il dialogo con se stesso è un sasso nello stagno che si allarga in onde regolari, ma il ritorno all’infanzia, e alle ombre, e alle malattie, un confronto che aveva già approfondito in Danza di guerra, qui è preponderante, ed esplicito. Comincia con i Quaranta coltelli che Sherman Alexie usava per blindare la porta della sua camera, per tenere fuori la povertà, la violenza, l’alcolismo, il razzismo che delineano la sofferenza dentro e oltre i confini delle riserve. Spalancando un varco nei suoi ricordi Sherman Alexie cuce con un filo sottile frammenti di vita privata e pubblica, scegliendo, di volta in volta, gli strumenti più consoni, le poesie, i racconti, le canzoni, senza un particolare ordine. Non devi dirmi che mi ami di Sherman Alexie va preso così com’è, un percorso che non ha direzione perché è circolare, e sapendo anche che “nel mondo indigeno, i cerchi hanno un valore sacro. Ma a volte un cerchio significa semplicemente che stai continuando a ripetere sempre le stesse cazzate, ancora e ancora. Questo libro è una serie di cerchi, sacri e profani”. È proprio così: Sherman Alexie torna sempre sul punto, senza alcun timore di ripetersi e le sue reiterazioni, nella costruzione di questo altare di parole per la madre e per il salmone, si avvalgono della facoltà di leggere e rileggere il passato con tutta la libertà possibile, nella convinzione che “se ripeti abbastanza volte una storia, diventa una canzone”. Sherman Alexie non fa niente per rendere agevole l’immersione nel caos alimentato dagli spetti di Non devi dirmi che mi ami: il flusso di coscienza è un’operazione a cuore aperto, molto dolorosa, molto toccante perché “in questa storia c’è un dolore troppo autentico per essere una bugia”. Fidatevi del salmone: sì, This Land Is Your Land, ma la verità è che questa terra è fatta per te e per me, ma non è per tutti.

lunedì 18 febbraio 2019

Wallace Stegner

Wallace Stegner costruisce, dipanandola dalla sua autobiografia, la trama di un’amicizia intensa che sfocia in una visione allargata della famiglia. Verso un sicuro approdo nasce dalla minuziosa descrizione dello sviluppo di questa indefinita unità che cresce in modo esponenziale con base due, che è la definizione della coppia: due matrimoni (Larry e Sally, Sid e Charity), quattro amici, otto tra genitori e figli, sedici con tutti i parenti e i nipoti (David, Hallie, Moe, Barney, Peter, Lyle, Comfort, Margie) alla fine, attorno al capezzale di Charity. Contando gli altri personaggi si può arrivare anche a trentadue, ma la progressione matematica rivela nella sua essenza che il motore è la dualità nelle diverse simmetrie tra uomini e donne, mariti e mogli, genitori e figli, passato e presente così come fluiscono nei repentini flashback che definiscono la narrazione di Wallace Stegner. Parte con la distinzione tra le due coppie di amici: i Morgan sono outsider che vivono in uno scantinato in attesa di tempi migliori, i Lang godono delle fortune di una famiglia dominata da una madre chiamata zia Emily. Spinta da Charity, l’amicizia assorbe i Morgan nell’alveo famigliare dei Lang nel contesto di un’America accogliente, agreste, provinciale e felice intorno alle sue università e ai suoi laghi. Le bellezze delle lettere, della musica, dell’arte, di un legame da annodare restano comunque friabili, e non solo perché “di rado le vite umane si conformano alle convenzioni della finzione”. La tensione che pervade Verso un sicuro approdo tende a comprendere l’esperienza della vita in sé, anche se poi giunge alla conclusione che “l’ordine sarà anche il sogno dell’uomo, ma il caos, che è solo un altro modo di chiamare il fato insulso, cieco, ottuso, rimane la legge della natura”. Per quanto grande e portentosa l’amicizia non è autosufficiente, le differenze si incrociano e, ancora una volta, si riflettono: Sally si ammalerà, Sid soffrirà i suoi limiti (memorabile il ritratto mentre raddrizza chiodi già usati nel suo laboratorio), Larry otterrà un meritato successo come scrittore e Charity continuerà a organizzare la vita di tutti. La Depressione e la seconda guerra mondiale saranno sopportate, con la convinzione “di non essere troppo duri gli uni con gli altri” e per non mettere “il mondo a ferro e fuoco”, visto che  “l’hanno già fatto in troppi”. Una saggia idea, ma alcuni passaggi nella liaison tra i Morgan e i Lang esprimono una forte caratura simbolica o metaforica: il naufragio nel lago, poi l’escursione nei boschi, in un tripudio della wilderness americana, e infine la villeggiatura a Firenze esprimono attraverso i paesaggi altrettante variazioni sul tema. Tra i quattro protagonisti si sviluppano piccoli attriti che Wallace Stegner trasforma in miti, sapendo che “l’effetto drammatico presuppone un capovolgimento di prospettiva, ma in modo tale che alla sorpresa iniziale faccia seguito un immediato riconoscimento dell’ineluttabile”. È un maestro dell’enfasi, che usa come una tagliola: un barattolo di tè diventa l’escamotage per spalancare una porta sulla personalità di Charity, così come  i dialoghi accademici tra Sid e Larry sono l’occasione per alimentare con un tono erudito i filamenti di un’amicizia che durano una vita. A partire dal titolo, che è trafugato da una poesia di Robert Frost, Verso un approdo sicuro è disseminato di suggestioni letterarie che filtrano spontaneamente da Cicerone a Walt Whitman ricordando che “l’amicitia sopravvive meglio della res pubblica, e almeno quanto l’ars poetica”. Una certezza dovuta al ruolo centrale di Charity, anche nel finale straziante, dove nonostante la generosità, l’iperattività e l’estrema lucidità non si può evitare di scoprire che “ciascuno di noi si discosta ben poco dagli altri, ogni generazione replica la precedente, ciò che edifichiamo perché ci sopravviva è poco più resistente di un formicaio, e molto meno delle barriere coralline”. A quel punto Wallace Stegner, in persona, giunge alla conclusione che “siamo strane creature, e gli scrittori sono creature ancora più strane”, ed è proprio questa biodiversità che gli ha permesso di plasmare la complessa e vivida armonia che  pervade Verso un approdo sicuro.

mercoledì 13 febbraio 2019

Wendell Berry

Nell’arco di tutti i saggi di cui è composto Mangiare è un atto agricolo, che coprono un arco temporale dal 1971 (Norme igieniche per agricoltori) al 2006 (Suolo e salute), si condensa la distinzione tra il “pensiero industriale” e “l’economia di carta” e un diverso equilibrio tra qualità, benessere, “una gestione parsimoniosa delle risorse” e la considerazione generale della natura. C’è una spontaneità nelle parole di Wendell Berry che sono frutto dell’osservazione, dell’esperienza, più che dello studio o dell’analisi, e parte da un gesto spontaneo e innato come quello di nutrirsi. Con Il piacere di mangiare (1989) Wendell Berry chiarisce subito che “mangiare è un atto agricolo, il momento conclusivo del ciclo annuale dell’economia alimentare che inizia con semina e nascita”, mentre “i prodotti della natura e dell’agricoltura, a quanto pare, sono stati trasformati in prodotti industriali. Mangiatore e mangiato sono pertanto esiliati dalla realtà biologica. Il risultato è una sorta di solitudine del tutto nuova nell’esperienza umana, dove chi mangia può pensare che mangiare sia prima di tutto una transazione puramente commerciale tra sé e il fornitore, e poi una transazione puramente gastronomica tra sé e il cibo”. Questa separazione incide sul gusto in sé del mangiare che “dovrebbe essere un piacere ad ampio raggio, che travalica quello del puro e semplice buongustaio. Chi conosce l’orto in cui sono cresciute le sue verdure e sa che è sano, ricorderà la bellezza delle piante che prosperano, magari nel primo mattino, quando sono imperlate di rugiada e l’orto è al massimo del suo splendore. È un ricordo che si lega al cibo e costituisce uno dei piaceri del mangiare. La consapevolezza del benessere dell’orto rasserena, libera e conforta colui che si nutre dei suoi prodotti”. Fra il genere umano e questo orizzonte si frappongono l’industria e l’economia o meglio quel pensiero focalizzato su industria, economia e profitto che vede e uomini e natura come elementi da sfruttare, senza contare il loro ruolo e le loro necessità. È “il totale divorzio dell’economia industriale da qualsiasi ideale e principio al di fuori di sé” che impone un supplemento di riflessione e comincia dove Wendell Berry insiste nel sottolineare lo spreco (non c’è soluzione ai “sottoprodotti”) autorizzato e continuo perché “il pensiero industriale è un pensiero senza rimorso. In pratica accetta semplicemente che le persone siano trattate come cose, e che in ultima analisi le cose siano trattate come spazzatura”. In Soluzioni agricole a problemi agricoli (1978) ricorda che la sostenibilità nasce proprio dall’accorgersi che “tutto ciò che viene scartato nell’arco di vita di un ciclo naturale resta all’interno dello stesso e si trasforma in fertilità, cioè nella capacità di rigenerare vita. In natura, morte e decomposizione sono necessari, qualcuno arriverebbe a dire vivi, quanto la vita”. Questa diversa percezione dello scarto, del rifiuto, reinserito nell’ambiente porta Wendell Berry a ricordare che “la natura è il valore ultimo del mondo reale e di quello economico. Non è possibile sfuggire a essa, né alla dipendenza da essa. Costituisce per così dire da sola il proprio contesto, mentre il contesto dell’agricoltura sono in primo luogo la natura e quindi l’economia umana”. Il concetto di “habitat” e identità del luogo e comunità è al centro di Reinventare la cura della terra (2004) proprio dove “il contadino, la sua famiglia, le colture e gli animali fanno parte della comunità del suolo, appartengono tutti al carattere e all’identità del luogo”. Ecco allora, come scriveva in conclusione dello stesso saggio, che “la definizione di una forma comincia con il riconoscimento e l’accettazione dei suoi limiti”. La dimensione del “paesaggio economico” dovrebbe tenere conto di questa prospettiva mentre Wendell Berry prendeva atto in Conservazionista e agricoltore (2002) di “un paesaggio che oggi è caratterizzato da un pericoloso eccesso di semplificazione assumerà un carattere di sana complessità, sia dal punto di vista economico che ecologico”. Al contrario, “occorre conservare un legame corretto tra domestico e selvatico. Il metro supremo per giudicare il lavoro dev’essere il benessere del luogo in cui esso si svolge”. In definitiva, “rinunciare al principio della proprietà democratica della terra, l’unico vero fondamento della libertà democratica, in cambio di capziose nozioni di efficienza e delle logiche economiche del cosiddetto libero mercato è un atto di tragica follia”. Difendersi da questa ingerenza distruttiva e a senso unico, vuol dire non dimenticare che “la sostenibilità poggia su tre pilastri fondamentali: solidità ecologica, fattibilità economica e giustizia sociale”. Lo scriveva John Ikerd, opportunamente citato da Wendell Berry che si spinge più in là e in L’agricoltura dalle radici in su (2004)  evidenzia, ancora una volta, che “tutto è connesso, il contesto non può essere mai ignorato”. Non bastasse in appendice si trova Manifesto. Il fronte di liberazione del contadino impazzito (1973), una ballata utopica che in un passaggio dice: “Dichiarate che il raccolto più importante è la foresta che non avete seminato, che non vivrete abbastanza per tagliare. Dichiarate che il raccolto di foglie è compiuto quando marcisce nel terriccio scuro. Chiamate tutto ciò profitto, profetizzatelo come guadagno. Riponete la fede nelle tre dita di humus che crescono sotto gli alberi ogni mille anni”. Si può fare.

sabato 9 febbraio 2019

Colson Whitehead

La ferrovia sotterranea è l’effetto visivo e letterario di una strabiliante rifrazione. È esistito davvero un tracciato che gli schiavi chiamavano ferrovia ed era fatto di case ospitali, punti d’incontro, nascondigli, pertugi e sentieri sicuri che portavano i fuggiaschi verso la libertà. Quindi una ferrovia nominale, ma reale. La ferrovia sotterranea, con tanto di binari, banchine, vagoni e locomotive esiste soltanto nel romanzo di Colson Whitehead, ma tutto il resto, ovvero la schiavitù, è esistito davvero nell’’ineluttabilità dei sui corollari, il razzismo, la violenza, e l’inevitabile fatalismo (come pensa Cora, la giovane protagonista: “Aveva la pelle nera, ed era così che il mondo trattava i neri”), come conseguenza della disperazione. Colson Whitehead mette a servizio di una realtà storica inoppugnabile, quella degli Strange Fruit di Billie Holiday che penzolavano dagli alberi e di uomini o donne trattati come merce e/o proprietà, una narrazione movimentata, serrata nei ritmi, immaginifica nelle soluzioni e tutto sommato brillante,  tenendo conto del peso che si porta sulle spalle. Il romanzo si consuma da solo, Cora è un personaggio che spicca con la sua tenacia, aggrappata alla vita non meno che all’idea di una libertà che non ha mai conosciuto. Il suo blues è senza fine, condito dallo strazio continuo della perdita che la pedina più dei cacciatori di taglie, Ridgeway su tutti. La predilezione di quest’ultimo per Cora ha una motivazione lontana: la madre, Mabel, è l’unica fuggitiva che non è riuscito a riportare al suo posto, nella piantagione dei Randall. È un tarlo che lo consuma e che tocca anche a Cora perché, nello specifico, fuggendo Mabel l’ha abbandonata a se stessa e quella ferita brucia ancora, anche se invisibile perché “c’era una gerarchia del dolore, dolore nascosto dentro altri dolori, e bisognava tenerne sempre conto”. Tutti questi sentimenti rimangono schiacciati dalla violenza (feroce e sadica) dei Randall che, nei fatti, dispongono di vita e di morte sui loro schiavi. Sognare la fuga è già un rischio, condividerne le intenzioni con qualcun altro è temerario ed è quello che succede a Cora e Caesar. Andarsene non è dissimile dal suicidio (una scelta non rara tra gli schiavi) e nel migliore dei casi è un esodo di proporzioni bibliche. Ogni tappa prevede una prova da superare: la palude e il terrore dei mocassini acquatici, le ronde e l’indifferenza, persino lo sguardo degli altri schiavi perché “vedere un’altra persona in catene ed essere felici di non averle addosso: era questo il massimo della fortuna concessa ai neri, definita da quanto peggiore poteva essere la loro sorte in qualsiasi momento. Se gli sguardi si incrociavano, tutti e due distoglievano gli occhi”. Inoltre, per sopravvivere Cora e Caesar devono anche trasformarsi in assassini perché la legittima difesa, come ogni altro diritto, non è considerata per gli schiavi, figurarsi per i fuggiaschi che, al momento di sparire, hanno decretato la loro condanna a morte. Quando Cora e Caesar giungono alla ferrovia sotterranea e prendono il primo treno di passaggio, varcano una nuova realtà dove speranze e pericoli convivono in un precario equilibrio, viaggiando paralleli proprio come le rotaie su cui stanno fuggendo. Cora è l’immagine vincente di “una rivolta fatta da una persona sola, ma, contando la madre, qualcuno si chiede:  “Se due donne erano una falla, una comunità cos’era?”, ed è il motivo per cui la caccia non finisce mai. È così  che Cora è avvolta da quella sensazione “che fosse nei campi, nel sottosuolo o in una soffitta, l’America continuava a tenerla prigioniera”: una nazione, ricorda spesso Colson Whitehead, nata del sangue, prima quello degli indiani, poi quello degli africani, e rimasta “un fantasma nell’oscurità”. I toni apocalittici, a tratti persino gotici, sono ben rappresentativi in un affresco solido, intenso e torbido della schiavitù che con La ferrovia sotterranea trova sia una sorta di ritratto definitivo sia la sua nemesi, che Colson Whitehead celebra così: “Chi diventi, dopo aver realizzato un’opera così magnifica? Nel costruirla ci hai anche viaggiato sopra, fino a sbucare dall’altra parte. A un capo della linea c’è la persona che eri prima di scendere sottoterra, all’altro capo viene alla luce una persona nuova. Il mondo in superficie dev’essere così banale in confronto al miracolo che c’è sotto, il miracolo che hai compiuto tu, col tuo sudore e il tuo sangue. Il trionfo segreto che ti porti nel cuore”. Il tributo è destinato a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che costruirono La ferrovia sotterranea, con la consapevolezza che “il mondo può anche essere cattivo, ma le persone non devono esserlo per forza, possono rifiutarsi”, ma leggendolo in filigrana potrebbe anche essere un omaggio al lavoro dello scrittore in sé, e se lo merita tutto.

martedì 5 febbraio 2019

James Baldwin

Tish alias Clementine e Fonny stanno scoprendo le gioie e il prezzo dell’amore. Sono cresciuti nello stesso quartiere e restando vicini cercano di stare lontani dai guai, avendo imparato da tempo che “nessun può sopportare per sempre la merda che ci tirano addosso”. Tish lavora in una profumeria, Fonny intaglia il legno, cenano in una trattoria ispanica e ascoltano Ray Charles, Aretha Franklin e Marvin Gaye. Si stanno scoprendo con sincerità, esplorando le possibilità dei loro corpi e hanno tutta l’intenzione di sposarsi, perché Tish è ormai in dolce attesa. Solo che Fonny è in carcere per un reato che non ha commesso: accusato di aver violentato una donna portoricana, non è prigioniero soltanto dell’ingiustizia, ma anche di un sistema che dai livelli più bassi, la strade e dintorni, a quelli più alti, le aule della legge, mantiene gli afroamericani, e le minoranze in genere, sotto scacco, impauriti ed emarginati. Una situazione per cui, come dice Tish, “era come se fossimo un quadro, bloccati nel tempo: questo era successo per centinaia di anni, gente si era seduta in una stanza in attesa della cena ad ascoltare il blues”. Se la strada potesse parlare alzerebbe la voce e direbbe più o meno quello che disse Joyce Carol Oates: “La singolare condizione in cui si trovano, quella di essere così indifesi dal punto di vista politico, sembra aver rafforzato, quantomeno nell’immaginazione di Baldwin, legami affettivi forti e profondi tra loro. Se la strada potesse parlare è una celebrazione davvero toccante e molto tradizionale dell’amore. Afferma non solo l’amore tra un uomo e una donna, ma un tipo di amore di cui la narrativa contemporanea si è raramente occupata: quella tra i membri di una famiglia, un amore che può giungere fino al sacrificio”. Questo è vero ed evidente nelle pagine dove James Baldwin racconta il confronto tra le rispettive famiglie quando si accorgono che per la gestazione di Tish e il processo di Fonny serviranno soldi che non ci sono e tempo che scivola via e quella è la più feroce delle condanne perché “il tempo non si poteva comprare. L’unica moneta che il tempo accettava era la vita”. Deve essere uno dei motivi per cui James Baldwin ha scelto di costruire la storia di Tish e Fonny scomponendo i piani temporali, usando i flashback per delineare, di volta in volta, i singoli protagonisti. Il coraggioso viaggio della madre di Tish a Porto Rico, all’inseguimento della donna che può scagionare Fonny, o il drammatico incontro con Bell, il poliziotto (bianco) che da solo esprime tutta la gravità di un’oppressione muta e incombente, spezzano le linee della trama, ma non tolgono nulla alla fluidità e costringono il lettore a mantenere molto alta la soglia dell’attenzione. L’uniformità e la scioltezza del racconto sono dovuti alla voce narrante di Tish, che James Baldwin interpreta senza eccessi, con grande equilibrio e districandosi abilmente tra le emozioni e il linguaggio che le esprime. Tutto ciò contribuisce a rendere Se la strada potesse parlare, come ha scritto ancora Joyce Carol Oates, “un romanzo costruito con sobrietà, in maniera quasi poetica, e può sicuramente essere letto come una specie di allegoria che rigetta i consueti accessi di violenza, preferendo piuttosto dare risalto alla natura provvisoria e incerta delle nostre vite”. Non era difficile da notare: attraverso i suoi personaggi, James Baldwin lo ribadisce spesso, ricordando che “il mondo vede quello che vuole vedere o, quando si arriva alla resa dei conti, quello che gli dici di vedere: non desidera sapere chi, cosa o perché sei” e che, d’altra parte, “non sappiamo abbastanza di noi stessi. Credo che sia meglio esser consci di non saperne niente, così si può crescere con il mistero e intanto il mistero cresce in te. Ma al giorno d’oggi, naturalmente, tutti sanno tutto ed è per questo che tanta gente di perde”. A mezzo secolo di distanza (Se la strada potesse parlare è del 1974), il dubbioso avvertimento è ancora validissimo, così come resta intatto e avvincente il “love affair” di Tish e Fonny.

sabato 2 febbraio 2019

Stephen Cooper

Stephen Cooper, a cui si deve anche la scoperta dell’ultima raccolta di inediti di John Fante, La grande fame, ha colmato con Una vita piena un vuoto che il grande narratore americano non meritava. Perché la sua personalissima storia vale almeno quella di Arturo Bandini e Stephen Cooper si è premurato di seguirne il tortuoso percorso coinvolgendo gli stessi famigliari di John Fante. Un lavoro accurato, ma capace di schivare gli abbagli agiografici o la pedanteria dei fans. Ne esce un ritratto fedele e appassionato, ma anche rigoroso e scrupoloso, capace di mettere sulla stessa linea l’uomo, i suoi racconti e romanzi, il rapporto con il cinema, le questioni domestiche e la scrittura, i successi e i fallimenti (“Fallire può essere positivo. Non è una di quelle cose che ti distruggono, ma che ti ispirano, spingendoti a continuare. Il fallimento è una sfida. Fa bene. In un campo in cui gli strumenti di lavoro sono carta e penna, che cosa c’è da perdere? Mi piace perdere. C’è sempre da imparare”). Leggendo Una vita piena si capisce anche quello che intendeva dire uno degli alter ego di Charles Bukowski, che Stephen Cooper cita direttamente da Donne, nel descrivere John Fante: “Emozione totale. Un uomo davvero coraggioso”. Anche per questo Una vita piena è un libro molto interessante sia quando esplora la carriera e il talento di John Fante (“Scrivere sceneggiature era più facile e redditizio: l’unica cosa che viene richiesta all’autore è di tenere in movimento i personaggi. La formula è sempre la stessa: conflitti e scopate. Una volta finito, consegni tutto a qualcuno che lo fa in mille pezzi cercando di tirarne fuori un film. Ma scrivere un romanzo è tutta un’altra cosa. Non sei solo lo scrittore, anche il protagonista, il regista, il produttore e il cameraman. Se la tua sceneggiatura non funziona puoi la colpa a molte persone, a partire dal regista. Ma se il tuo romanzo non decolla, sei l’unico responsabile”), sia quando ne affronta il lato più intimo e umano, compreso il doloroso e tristissimo finale. Stephen Cooper lo racconta con il rispetto dovuto, ma anche cogliendo ogni singolo particolare, come comunque succede anche nel resto di Una vita piena: le origini italiane, il viaggio verso la California, l’istinto di “scrivere, scrivere, scrivere”, la malinconia degli ultimi giorni, le inutili giornate all’ospedale, la genesi di Chiedi alla polvere, Los Angeles (“Questa è la migliore città degli Stati Uniti in cui oziare, ma piena di truffatori e bugiardi, che cercano di guadagnare soldi facili e chiedono avidamente senza dare nulla in  cambio”), Hollywood e Bunker Hill, le corrispondenze e le intemperanze. La voce di John Fante risuona spesso e volentieri nella ricostruzione di Stephen Cooper e il suo stile si nota dalle note private (“Stiamo come può stare una famiglia che vive in una casa sugli alberi vicino alla bocca di un vulcano attivo”) alle cupe (o forse soltanto troppo realiste) paranoie che gli facevano dire: “Amo la guerra, il caos, le cupe predizioni sulla fine della nostra civiltà”. Avrebbe dovuto vivere fino ad oggi, per vedere come siamo finiti.