giovedì 30 maggio 2013

Carl Sandburg

E’ difficile trovare una definizione utile e concreta per circoscrivere le moltitudini smosse dall’estro e dall’inventiva di Carl Sandburg. In un suo possibile autoritratto ci sono diverse ipotesi di partenza e nella prima, riportata nell’introduzione a Poesia di Chicago dice: “Ho scritto seguendo metodi diversi e rispondendo a una congerie di stati d’animo eterogenei, e per lo più non ho esitato a muovermi per terre e mari verso l’incontro con immagini fresche e con nuove canzoni. Per tutta la vita ho cercato di imparare a leggere, vedere, udire e scrivere”. In effetti è stato uno scrittore e un lettore a tutto tondo (nonché un ricercatore assiduo e meticoloso, valga su tutto il fondamentale American Songbook) incapace di arrestare gli appetiti per rumori e parole e nello stesso tempo sempre fiducioso nella loro forza: “Mi piacerebbe pensare che mentre vado avanti scrivendo ci possano essere frasi veramente vive, con verbi tremolanti, con nomi che danno colore e producono echi”. I Chicago Poems sono l’elemento più rappresentativo della sua identità poetica, di un linguaggio che parte dal basso, dalle strade, dalle fabbriche, dai mattatoi e si forma attraverso un’elaborazione che ha la semplicità come scopo e che collima con l’esortazione finale di Carl Sandburg: “Trovate con le vostre matite un modo di segnare il vostro ricordo di stanchi volti vuoti”. Il suo approssimarsi a un’idea di stile procede per vie parallele nel prendere confidenza con gli strumenti del lavoro e nell’inoltrarsi in zone sconosciute ai più poeti e affrontate con la convinzione di un solo metodo: “Il modo più sicuro di scrivere di altre terre è essere fedele alla propria terra e fedele agli scenari e alla gente che amiamo in modo umano e diretto senza essere stati istruiti a farlo”. Crocevia pulsante, industrioso e pericoloso dell’America, Chicago è il luogo perfetto per la poesia come la immagina Carl Sandburg, sia dalla parte della fatica e dell’alienazione (scrive per Le porte della fabbrica: “Non tornate più indietro. Dico arrivederci quando vi vedo oltrepassare le porte, le inesorabili porte aperte che chiamano e attendono e poi vi prendono, per quanti centesimi al giorno? Quanti centesimi per gli occhi e le dita assonnate? Vi dico arrivederci perché so che incidono i vostri polsi, nel buio, nel silenzio, giorno dopo giorno, e vi prendono il sangue goccia a goccia, e voi, siete vecchi prima di esser giovani. Non tornate più indietro”) sia alla ricerca di un’ideale Felicità: “Ho chiesto a professori che insegnano il significato della vita di dirmi cos’è la felicità. e sono stato da famosi funzionari che dirigono il lavoro di varie migliaia di uomini. Hanno scosso tutti la testa sorridendo come se volessi scherzare prendendomi gioco di loro. E poi una domenica pomeriggio io stavo vagando sulla riva del fiume Desplaines e ho visto una folla di ungheresi sotto gli alberi insieme alle loro mogli e ai loro bambini e con un barilotto di birra e una fisarmonica”. Blue-collar, ma con l’anima pulita.

martedì 28 maggio 2013

David Remnick

La costruzione di una rock’n’roll star è un lavoro imponente, affascinante e soprattutto infinito. E’ una continua metamorfosi in cui il personaggio e l’essere umano giocano una delicata partita psicologica complicata da una serie sterminata di variabili e incognite che vanno dall’accordatura della chitarra alla qualità della stampa dei dischi, dal costo dei biglietti dei concerti alle posizioni raggiunte nelle classifiche. Non c’è niente di umano ed è ammirevole la dedizione con cui Bruce Springsteen si è prestato a definire la sua idea di rock’n’roll star, dedicandogli tutta la vita, professionale e non. E’ la “totale applicazione” che racconta David Remnick nel suo Ritratto di Bruce Springsteen e che ripercorre l’essenza della sua biografia (niente di nuovo all’orizzonte) aggiornandola agli eventi più recenti e alternandola alla cronaca delle fasi iniziali del tour di Wrecking Ball. David Remnick ha un pass privilegiato perché accede a luoghi privati, così come a dettagli dolorosi e scomodi e la sua versione del real world di Bruce Springsteen è essenziale, precisa, coerente. L’approccio è po’ troppo politically correct per essere convincente e in questo We Are Alive non si discosta molto dalle altre biografie springsteeniane. Una riflessione interessante può partire dalla critica di Leon Wieseltier, peraltro abbastanza sgangherata, quando cercando di demolire Springsteen attraverso David Remnick scrive che “il rock’n’roll dimostra che Herbert Marcuse aveva ragione. Non ci sarà alcuna rivoluzione in America. Questa società continuerà a contenere le sue contraddizioni senza risolverle, assorbirà l’opposizione e la ricompenserà, trasformerà il dissenso in cultura e commercio. L’errore di Marcuse era credere che fosse una cosa brutta. E’ una cosa bella, invece, perché ci risparmiamo gli strazi delle purificazioni politiche”. L’asserzione, nell’essenza conservatrice che esprime (nel senso più ampio del termine), ha una sua lucidità perché dimostra di (non) aver capito le potenzialità del rock’n’roll, che sono rivoluzionarie a livelli che il potere costituito non è mai riuscito a comprendere. Su questo Bruce Springsteen alza una bandiera per niente arrendevole, facendosi carico anche delle inevitabili ironie legate all’età con cui ancora calca i palchi per ore e ore: “Tutto deve essere routine, responsabilità, decoro. Un mondo chiuso. Ma la musica, quando è davvero buona, spalanca di nuovo la porta e ci fa entrare la gente, la luce, l’aria, l’energia”. Allora, quel We Are Alive stampato in copertina comincia ad avere un senso diverso: anche se Clarence (Clemons) e Danny (Federici), e li chiamiamo per nome perché siamo parte in causa, non ci sono più, anche se lo show con la E Street Band è diventato un party sui generis, un po’ bring the family, un po’ festa di fine stagione, suona comunque felice e liberatorio, come nient’altro. E alla fine il più sincero è ancora lui, Bruce Springsteen, quando dice che “è tutto teatro”, ed è meglio così perché della realtà ne abbiamo abbastanza.

sabato 25 maggio 2013

Denis Johnson

Train Dreams affonda nelle radici delle origini di una nazione, nella sua terra, nelle miniere scavate per il carbone, nelle foreste disboscate per farne legname per i faraonici ponti ferroviari che superavano gole impossibili, nelle praterie solcate dai binari, dalle route e poi dalle highway. Nel perimetro esterno di Train Dreams si intravedono le contraddizioni che minano le fondamenta alla base della costruzione di un paese e Denis Johnson è molto abile a dissimularle nel corso del racconto perché la storia del suo protagonista, Robert Grainier, scorre in parallelo e in simbiosi con la metamorfosi di un intero paesaggio. E’ la “terra trasformata” di William Cronon, quella che vive e lavora Robert Grainier, una frontiera che si snoda nelle foreste e sul fiume, ma che è anche un confine, una linea nella coscienza degli esseri umani perché la lotta con e contro la natura (c’è un fiume che si porta nella corrente un intero ufficio postale, neanche fosse una barchetta, e un incendio distrugge la sua famiglia, moglie e figlia) è impari. Come scrive William Cronon “Tutti i gruppi umani modificano consapevolmente il proprio ambiente fino ad un certo limite, si potrebbe sostenere che questo, insieme al linguaggio sia il tratto che distingue gli uomini dagli altri animali, ed il modo migliore per misurare la stabilità ecologica di una cultura potrebbe essere il successo dei cambiamenti ambientali sviluppati per mantenere la propria capacità di riprodursi. Ma se prescindiamo dall’asserzione circa l’equilibrio ambientale, l’instabilità delle relazioni umane con l’ambiente può essere usata per spiegare le trasformazioni sia culturali sia ecologiche”. E’ proprio quello che ha sviluppato, in termini narrativi, Denis Johnson in Train Dreams: attraverso la vita di Robert Grainier, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, visto che “aveva cominciato la storia della sua vita con un viaggio in treno di cui non ricordava nulla, ed era finito a gironzolare intorno a un treno con a bordo Elvis Presley”, ricostruisce il legame controverso con la mitologia del West (e qui s’incrocia con l’epopea di Cormac McCarthy) e il radicale confronto con la wilderness dove (prima regola) “un albero finché lo lasciavi indisturbato, poteva esserti amico” e poi (seconda e ultimo avvertimento) “eccoti sistemato. Ecco cosa succede, ecco quello che dicono: non esiste lupo vivente che non possa addomesticare un uomo”. In effetti c’è un larice che i boscaioli chiamano “crea-vedove” e sono loro, e gli abeti, i lupi, gli animali e senza dimenticare i nativi Kootenai a condividere l’avventura in un territorio selvaggio e in gran parte ancora sconosciuto. Come dice ancora William Cronon “un mondo lontano e i suoi abitanti gradualmente divengono parte dell’ecosistema di un’altra popolazione, cosicché è sempre più difficoltoso sapere quale ecosistema sta interagendo con quale cultura. L’annullamento dei confini può di per sé diventare la questione principale”, ed è per questo che Train Dreams spiega la frontiera, e il West, più di mille saggi.

lunedì 20 maggio 2013

Jon Wiener

Il 4 febbraio 1972 il senatore americano Strom Thurmond invia un memorandum al presidente Richard Nixon (e qui è storicamente corretto fare nomi e cognomi) per sottolineare la necessità di intervenire, con tutti i mezzi possibili, su John Lennon. In realtà l’F.B.I. guidata da John Edgar Hoover aveva già aperto un dossier su questo musicista, già “membro del gruppo The Beatles” e così appassionato di politica, così come li aveva aperti su chiunque avesse anche una vaga simpatia per posizioni divergenti. Qui comincia un intreccio di coincidenze che è difficile, alla luce della ricerca di Jon Wiener, definire ancora tali: per esempio, Strom Thurmond è lo stesso senatore che avrebbe voluto usare la bomba atomica in Vietnam; Richard Nixon è lo stesso presidente americano costretto a dimettersi per lo scandalo del Watergate; John Edgar Hoover è stato il protagonista di un ambiguo centro di potere da lui sviluppato dentro e attorno l’F.B.I. e ad altre agenzie federali più o meno segrete. I suoi agenti speciali seguirono John Lennon giorno per giorno per più di un anno, in cerca di un reato, un motivo per espellerlo dagli Stati Uniti, ma alla fine dovettero cedere. Tutto quel dossier è diventato in gran parte pubblico grazie agli sforzi e alle battaglie condotte da Jon Wiener che è arrivato ad appellarsi alla Corte Suprema per scoprire la verità. E' tutto raccontato in Dimmi la verità: il dossier dell’F.B.I. su John Lennon, che esplora e racconta almeno due battaglie per la libertà. La prima è quella di John Lennon che ha dovuto subire le persecuzioni dei principali servizi segreti americani per le sue posizioni contro la guerra, per i diritti civili, per avere la possibilità di immaginare un altro mondo, un’altra vita. “Tutti gli estremisti devono essere considerati pericolosi” dice un rapporto sul campo, eppure sono gli stessi dossier a dimostrare che John Lennon non ha commesso alcun reato. In queste pagine non ci sono teorie della cospirazione, complotti o trame invisibili. E’ l’ossessione di un governo spaventato, come nota Jon Wiener, da un’altra, incomprensibile forma di potere: il potere della fantasia, dell’arte e del rock’n’roll che ha provato a fermare in tutti i modi possibili, molti dei quali (questa volta, sì) illegali. Non a caso, e in modo molto pertinente Jon Wiener definisce questi dossier “il Watergate del rock’n’roll” perché hanno scoperchiato il vaso di Pandora degli archivi federali americani, mettendo a nudo la vera natura dell’operazione di intelligence costruita attorno alla figura di John Lennon e gettando in campo preoccupanti interrogativi (visto anche come è andata a finire, 8 dicembre 1980). L’altra battaglia per la libertà è quella che ha dovuto sostenere John Wiener per ottenere l’accesso agli archivi. Tra corsi e ricorsi, citazioni e sentenze che l’hanno visto protagonista di una lunga causa legale contro l’F.B.I., non è una lettura agevole, ma è la testimonianza di una lotta che che è e resta un caposaldo nella libertà di informazione.

martedì 14 maggio 2013

John Steinbeck

Missione compiuta è un libro anomalo, essendo parte della propaganda che sosteneva lo sforzo bellico americano (prima e durante) la seconda guerra mondiale. Una forma limitata e limitante, soprattutto nel tono generale, che impone a John Steinbeck un margine di manovra piuttosto limitato e ovvio. Il suo obiettivo è raccontare la nuova leva di piloti, armieri, navigatori, marconisti, motoristi e mitraglieri che compongono l’equipaggio dei bombardieri. Missione compiuta è didascalico e ripetitivo nel suo continuo tentativo di inoculare alcuni concetti essenziali. E’ la funzione della propaganda e John Steinbeck insiste su alcuni presunti ideali americani: l’efficienza delle macchine, il lavoro di squadra, la ricerca della forma fisica, la dedizione al compito, la fedeltà alla bandiera, lo spirito di corpo. Per la guerra è utile anche un patriota scomodo come John Steinbeck che però deve attenersi a un copione in gran parte già scritto, esaltando la nuova arma del cielo, le sue meraviglie tecniche, l’implicita vocazione alla superiorità (non solo aerea) che deve trasmettere. Anche in circostanze avverse, John Steinbeck trova l’occasione di affermare uno stile e di usare le parole per esprimere, persino con una sorta di profezia, dove avrebbe portato “una guerra senza un metodo o una tecnica precisi, imperniata proprio su quella produzione in cui eccelliamo. Se fosse toccato a noi scegliere il tipo di guerra da combattere, non avremmo potuto trovarne una più adatta al nostro spirito nazionale. Perché questa è una guerra di trasporti, di macchinari, di produzione di massa, di flessibilità e inventiva, e in ciascuno di questi campi noi siamo stati pionieri se non addirittura inventori”. Il rigido schema imposto dalla funzione primaria di Missione compiuta non impedisce a John Steinbeck di interpretare quello spirito pragmatico e combattivo (proprio in quest’ordine) sviluppatosi proprio perché “la dimensione del nostro disagio era la dimensione delle nostre energie”. I suoi limiti, così come quelli di un’intera nazione, sono sorpassati dalla velocità degli eventi e del tempo e la Missione compiuta da John Steinbeck è tracciare una linea di demarcazione tanto netta quanto artefatta: non soltanto con il nemico da annientare come vuole l’arte della guerra, ma anche tra ciò che si deve ritenere americano e ciò che non lo è. La propaganda non ammette dubbi, titubanze, incertezze, intemperanze. La macchina economica e bellica (una pericolosa associazione John Steinbeck aveva compreso benissimo), dai bambini che compongono i modelli di aereo destinati all’addestramento all’ultima operaia che assembla ali e fusoliere fino all’armiere che sgancia tonnellate di bombe sui bersagli, deve essere pronta e muoversi all’unisono perché “adesso lo scopo è stato fissato; abbiamo un disegno e una direzione, e una sorta di gioia selvaggia percorre l’intera nazione”. Missione compiuta: è un buon giorno per morire e la storia insegna che, da allora, l’industria della guerra non si è più fermata.

martedì 7 maggio 2013

Kevin Powers

John Bartle e Daniel Murphy combattono in Iraq una guerra che ormai asseconda i cambi di stagione. Le operazioni militari hanno preso un ritmo annuale, neanche fossero delle sagre, e tutta la vita, quello che rimane della vita, si svolge secondo superstizioni, piccoli rituali, accorgimenti, regole e formalità che aiutano a credere che esiste ancora una possibilità di tornare a casa sani e salvi, più o meno interi. Una speranza remota, visto che tutti portano addosso una scheda che, nella più plastica evidenza della burocrazia bellica, elenca i possibili motivi della morte. Basta mettere una croce nel posto giusto: la scheda è già firmata e non a caso perché, come dice Kevin Powers con la voce di John Bartle, “non eravamo destinati a sopravvivere. In verità non eravamo destinati a niente. La guerra prendeva ciò che poteva. Era paziente. Non si curava degli obiettivi, dei confini, del fatto che ti volessero bene in tanti o nessuno”. Nell’assurdità di una guerra nata dalle menzogne e condotta senza un barlume d’idea, ormai né vinta né persa, anche la promessa fatta da John Bartle alla madre di Daniel Murphy al momento della partenza per l’Iraq assume l’indefinibile profilo di una bizzarria. Eppure era una richiesta elementare, naturale: riportalo a casa. Non hanno nemmeno vent’anni, gli insegnano a sparare e li spediscono ad Al Tafar, governatorato di Ninawa, dove il nemico usa persino i cadaveri per farne trappole esplosive. Come dice il sergente Sterling, bisogna restare psicopatici per sopravvivere, non bisogna nemmeno pensare che esista ancora un posto chiamato casa ed è la conclusione a cui arriva anche John Bartle: “Tutto, in quel momento, faceva pensare alla conclusione di un mal concepito esperimento sull’inevitabilità. Ogni cosa era al suo posto, in attesa di una pausa nel tempo, che l’origine di ogni impeto si placasse, e non rimanessero altro che detriti da catalogare. Il mondo, per quel che mi era dato da vedere, era sottile come carta”. Con Yellow Birds, Kevin Powers prova a dare uno spessore al vuoto e al buio che lascia la guerra e il suo tentativo si aggrappa a una scrittura “essenziale”, come ha scritto Dave Eggers, è vero, ma che spesso curva verso riflessioni e deviazioni filosofiche prolisse e non del tutto risolte. Se ne intuisce la necessità, senza dubbio, solo che la struttura di Yellow Birds, l’angoscia stessa che prova a comunicare dovrebbe tenere conto, come scriveva Karl Von Clausevitz, che “la guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza” e quindi ogni rappresentazione presuppone il confronto con quella dimensione, con quell’assurdità e con quella stupidità che qui ha solo la forma di una promessa. Non è facile raccontarlo e Yellow Birds, nonostante i premi e gli auguri di Tom Wolfe e Philipp Meyer, ci riesce solo in parte e a tratti. Kevin Powers è molto più chiaro ed esplicito (e personale) quando John Bartle dice: “Non ero un eroe, non ero un modello di niente, è già tanto che sia tornato a casa sulle mie gambe e respirando”. Non serviva molto altro.

mercoledì 1 maggio 2013

Edith Wharton

Nel rileggere con La bellezza e l’orrore i destini travolti dalla prima guerra mondiale, Peter Englund chiama “un universo emotivo” quello che si è sviluppato trincea dopo trincea, battaglia dopo battaglia, massacro dopo massacro. Il punto di vista della sua analisi, sottolineato dal titolo, è molto coraggioso perché non si accontenta di descrivere lo spirito malefico della guerra. Parte dal fatto che per un’intera generazione di giovani europei all’alba del ventesimo secolo lo scoppio delle ostilità fu salutato come una possibilità di cambiamento, persino eroico. Poi la guerra li ha privati di tutto “della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell’umanità. Della vita”. Non solo: La bellezza e l’orrore spiega come “la guerra mette a disposizione pretesti, crea dicerie, interrompe le comunicazioni, semplifica i ragionamenti, trasforma la violenza in norma”. L’incontro di Edith Wharton con H. Macy Greer, un autista del Corpo di Soccorso Americano, da cui si genera Il ritorno a casa sembra condensare quell’atmosfera in un gomitolo di storie che si avvolgono una dentro l’altra. Edith Wharton riprende le testimonianze del suo ospite e la sua versione delle notizie dal fronte occidentale è uno sguardo dentro e attraverso le tenebre, nelle pieghe emotive di incontri e addii che sono sempre estremi e dolorosi, perché circondati da un’aura percettibile di mortalità, che assume forme mutevoli perché “l’orrore non è certo diminuito, ma i nervi cominciano a essere abituati a un simile spettacolo. Senza scordare che, in quei primi giorni, i frammenti di esperienza ritorti a ciascuno parevano brandelli di carne mandati in aria dalle granate. Adesso le cose che sembravano disgiunte cominciano a collegarsi fra loro e dai campi di battaglia riemergono le ossa rotte della storia”. L’aria nei campi e nei villaggi francesi è cupa e apocalittica, ma Il ritorno a casa incanta con una scrittura sempre attenta, misurata, piena di raffinata grazia. Eppure se la forma induce a pensare a una delicatezza, a una particolare premura nello svolgere le parole, in Edith Wharton è chiarissima la percezione con cui “la bellezza e l’orrore” si attorcigliano. A suo tempo Wallace Stevens scriverà che “la guerra è solo una parte di una totalità in tumulto” ed Edith Wharton sviluppa il suo tentativo di fare ordine in un racconto limpido, elegante, fluido, distaccato nello stile eppure appassionato nel ridisegnare i contorni atroci della prima guerra mondiale. L’effetto è spiazzante perché Edith Wharton ricolloca minuscole porzioni di esperienza umana, come se dovesse ricomporre uno specchio andato in frantumi. “Questa guerra finirà per insegnarci a non aver paura dell’ovvio!” è la rivelazione che concede Il ritorno a casa perché la dimensione degli uomini è schiacciata dalla cupa immensità del conflitto, dall’angoscia quotidiana di vite che sono accompagnate passo dopo passo a fraternizzare con la morte, che sembra l’unico destino possibile, peraltro persino un sollievo (alla fine, quando resta solo l'orrore).