giovedì 27 maggio 2021

Stephen King

Il rituale si rinnova a ogni massacro in forme di reiterata ipocrisia, e su quello Stephen King non si sbaglia perché il culto delle armi in America pare inspiegabile e irrisolvibile, nonostante i danni che continua a perpetrare. È un buco nero su cui prospera un’industria che ha un peso rilevante nell’economia nazionale, ma sviscerarlo in tutta la sua complessità resta un po’ più impegnativo di quello che può un piccolo libro come Guns, e comporta necessariamente un supplemento di indagine. Poi, certo, Stephen King ha tutte le ragioni quando chiede: “Quante pistole servono per farci sentire al sicuro?”. Dopo una strage in una scuola, una delle tante, qualcuno propose come soluzione quella di dotare di un’arma tutti gli insegnanti, seguendo la logica ancestrale di combattere il fuoco con il fuoco, e questa è già una risposta alla domanda di Stephen King. Non finirà mai, ed è ancora nel giusto, a chiedere un minimo sindacale di regolamentazione, almeno limitando l’accesso alle armi a chi a precedenti penali specifici e circoscrivendo l’acquisto delle armi automatiche, il cui volume di fuoco è l’immediato responsabile dello spropositato numero di vittime. Basterebbe procedere come è stato fatto in Australia o nel Regno Unito dove la limitazione ha prodotto un’oggettiva inversione di tendenza. Ma nemmeno l’elenco dei caduti, nella sua cruda brutalità non può smuovere quella certezza granitica, premoderna, prefigurata nel secondo emendamento della costituzione americana che recita: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato”. Rileggendolo si capisce una volta di più che è ancorato a una condizione di qualche secolo fa, eppure resta inviolabile. È il nucleo di un complesso problema culturale perché le armi da fuoco, con quel fascino infantile, appaiono sempre come una soluzione piuttosto che come un problema. È un riflesso innato e condizionato, qualcosa di meccanico e istintivo a cui è difficile, se non impossibile, rinunciare. Stephen King lo capisce bene spiegando come “quelli che si oppongono con fermezza, perfino istericamente, a qualsiasi tipo di controllo delle armi amano i loro vicini e le loro comunità, ma nutrono una sfiducia nei confronti del governo federale così profonda da rasentare la paranoia (e in alcuni casi da oltrepassarla a piè pari e senza nemmeno passare dal via). Considerano ogni minima forma di controllo imposto sulla vendita e sul possesso delle armi da fuoco come la prima mossa di una sinistra cospirazione volta a disarmare il popolo americano, così da renderlo indifeso davanti a una presa di potere, gli omicidi accidentali, obiettano, sono solo parte del prezzo che paghiamo per la libertà”. Oltre a essere verissima, questa condizione è stata confermata dalla famosa sentenza della corte suprema americana del 2008 che ribadì l’intangibilità del secondo emendamento. Uno dei giudici, Antonin Scalia, scrisse, all’epoca: “Siamo consapevoli del problema della violenza legata all’uso di armi da fuoco in questo Paese e prendiamo in seria considerazione le preoccupazioni dei molti amici che ritengono il divieto di possedere armi da fuoco una soluzione. Tuttavia la tutela dei diritti costituzionali inevitabilmente esclude alcune misure dal novero delle opzioni disponibili”. Ciò genera l’ulteriore  riflessione di Guns rispetto a “quanto è semplice per i più instabili tra noi mettere le mani su efficienti e portatili armi di distruzione di massa”. Il pamphlet di Stephen King è più di tutto un grido di dolore: non supera le buone intenzioni, pur ribadendo un body count ormai spaventoso e lugubre. Se proprio va cercato un elemento discutibile è nella limitata rappresentazione della “violenza americana”. Dalla guerra d’indipendenza allo sterminio dei nativi, dalla secessione alla frontiera, la convivenza con le armi è inscindibile e dura da più di due secoli, e il sangue continua a scorrere. Le statistiche sono impietose, del resto le armi hanno una funzione invalidante, non sono cucchiai o strumenti, come qualcuno vuol far credere: “le armi da fuoco sono armi” dice Stephen King. La precisazione, per quanto possa apparire ovvia, resta dovuta e necessaria.

martedì 25 maggio 2021

Willy Vlautin

“Dicono che l’unica possibilità che hai di trovare un brav’uomo è di essere cresciuta da un brav’uomo” si scopre in un dialogo di La notte arriva sempre e la citazione tra le righe di Flannery O’Connor svela molto, se non tutto, del romanzo di Willy Vlautin, dove gli uomini bravi, o soltanto gentili, latitano. Sono le donne a tirare avanti, spesso in condizioni proibitive, come succede a Lynette e a sua madre, che devono curarsi anche di Kenny, che è limitato, e ha bisogno di costanti attenzioni. Vivono in una casa in affitto, hanno occupazioni oneste, e sbarcare il lunario, giorno per giorno, è l’unica aspirazione concreta. Almeno fino a quando Lynette non riesce a racimolare un gruzzolo per mettere insieme l’anticipo necessario ad acquistare la casa. “È una cosa stupida voler comprare qualcosa?”, si chiede, giustamente, ed è sottinteso che diventare proprietari diventa una sorta di ultima spiaggia, una rivendicazione, una forma di redenzione, dopo un’esistenza di fatiche e sofferenze. Solo che si tratta di confrontarsi con le variabili insondabili (e il più delle volte incomprensibili) che regolano il mercato immobiliare e, di pari passo, quello finanziario. Seguendo le parole d’ordine, smart, slow e green, Portland, Oregon è diventata cool e ha raggiunto costi proibitivi, ma a Lynette basterebbe riscattare la modesta abitazione dove hanno vissuto fin lì. L’idea scardina l’equilibrio tra madre e figlia già reso precario dall’alcol e dai rispettivi fallimenti sentimentali, perché un uomo, comunque sia,  non è facile da trovare. Per Lynette diventa una questione di vita o di morte e nel lasciarsi trascinare dall’ossessione, spalanca uno spiraglio sui suoi lati oscuri. La mossa di Willy Vlautin, spingere la protagonista a scavalcare la linea di demarcazione tra lecito e arbitrario, contiene un quesito morale, e insieme un interrogativo, che abbraccia tutto il romanzo e lo condiziona. L’empatia per Lynette è immediata, per gli sforzi che fa, per l’idea di riscriversi il futuro, per il confronto con la madre (che è durissimo e alimenta le pagine più toccanti del romanzo), ma si trova ad agire da fuorilegge però senza poter essere giudicata perché si muove in un territorio che è tutto fuorilegge o almeno in una twilight zone dove la distinzione tra  non è chiara, anzi. In quel momento, lo scomodo passato di Lynette emerge piano piano mentre insegue il sogno di avere una casa. L’argomento è spinoso, soprattutto dopo la crisi dei mutui subprime, che ha travolto ogni cognizione di causa (e, a proposito di legalità, ce ne sarebbe da dire), e ancora di più, per la natura stessa dell’evoluzione del tessuto urbano di Portland, Oregon, così come di ogni altra metropoli americana. Le deviazioni urbanistiche sono ben sottolineate dai pellegrinaggi diurni e notturni di Lynette che toccano i quartieri come se fossero enclavi separate dal resto della città. Il contrasto ambientale è fortissimo e mette in risalto l’ambiguità di fondo raccontata da Willy Vlautin. La notte arriva sempre e continua il giorno dopo perché Lynette nello sforzo di racimolare i soldi è andata prostituendosi e ha annodato il suo destino a una serie di personaggi che prosperano in un mondo periferico e sotterraneo, palesemente senza alcuna speranza, perché “certe persone sono semplicemente nate per affondare”. Lì, in un ambiente di predatori, c’è una condizione più diffusa di quello che sembri, dove è facile trovarsi nella situazione sbagliata, e senza rimedio, perché “a tanta gente non interessa fare qualcosa di buono. Tanta gente vuole solo spingerti da parte e prendersi quello che vuole”. Nessuno si avventura più nella jungleland e Willy Vlautin la descrive con metodo, onestà e coraggio e con molta precisione. La ribellione di Lynette è influenzata da quell’habitat e, tentativo dopo tentativo, il suo viaggio nei bassifondi assume tinte fosche e violente, ed è come se ritrovasse una parte di se stessa: non giusta, non bella, ma vera, che piaccia o no.

lunedì 24 maggio 2021

Liz Moore

C’è un dilemma nel rapporto tra Ada e David, ma si nasconde tra le righe di un codice o nella creazione di un mondo a parte, con tutta una sua logica. Ada e David Sibelius sono “insieme, sempre”, essendo rispettivamente figlia e padre, e vivono immersi nel lavoro in laboratorio universitario, che in effetti è una piccola comunità che si occupa dell’interazione del linguaggio umano con quello informatico. Il progetto a cui si dedicano si chiama ELIXIR e assorbe ogni energia, ben sapendo che “le possibilità pratiche offerte da una macchina in grado di replicare la conversazione umana, per iscritto e, in futuro, vocalmente, erano affascinanti e multiformi: in questa maniera si poteva rendere più efficiente un servizio clienti; impartire istruzioni e insegnare lingue; offrire compagnia”. Siamo a Boston nell’orwelliano 1984, una delle tante coincidenze di cui Il mondo visibile è disseminato, e David, che per la giovane Ada rappresenta “la virtù, l’intelletto, l’etica”, comincia a perdere il contatto con i “fatti concreti, solidi, produttivi”. La decadenza mentale è rapida e irreversibile: accolta dalla famiglia asimmetrica di Liston, una collega e amica del padre, Ada cresce, mentre David si dissolve e nell’intrecciarsi di questi due processi, inevitabili, prende forma Il mondo visibile. Decifrare il romanzo non è facile perché Liz Moore ci accompagna in un sovrapporsi di storie, come se la trama aprisse una porta dopo l’altra (in effetti ci sono un sacco di serrature e chiavi sparse un po’ ovunque) e se la comunicazione è il tema centrale, lo sviluppo si diffonde in rivoli e interstizi di città, da Boston a San Francisco, con salti temporali a cavallo di due secoli. La lettura prevede sbalzi e turbolenze impreviste (e non poche sorprese) perché l’incessante ricerca di Ada verso le parti della vita “comprensibili e autentiche”, si deve confrontare con il lascito di David, dettato in ELIXIR e in altre applicazioni, tutte protette da messaggi criptati, se non veri e proprio rompicapi. Se Simon Singh in Codici & segreti sosteneva che “qualunque scrittura segreta può essere analizzata in termini di metodo crittografico generale, o algoritmo, e di chiave, che definisce i particolari di una cifratura efficace”, il dialogo con un programma, che rimanda quello che impara, diventa uno specchio digitale della memoria, che per Ada significa inoltrarsi lungo la scia di misteri lasciata dalla personalità di David, e poi confrontarsi con “universi che operavano al di fuori dell’ambito dell’esperienza umana, pianeti che orbitavano continuamente in una stratosfera alternativa e invisibile, presente ma inesplorata”. La vera eredità paterna è però la vendetta di David contro il declino del corpo, una propaggine dell’intelligenza artificiale nell’infinita vita delle macchine verso “un posto irraggiungibile e segreto. Un posto libero da ingiustizie”. A quel punto gli attriti scientifici e filosofici passano in secondo piano, i molteplici linguaggi si sovrappongono e si mescolano senza soluzione di continuità, ma il livello più importante lo si attraversa tenendo gli occhi ben aperti. Jay David Bolter in L’uomo di Turing sosteneva che “la logica di un programma possa essere tradotta in una specie di incanto visivo” ed è proprio dove ci porta per mano Liz Moore, nell’inseguire Ada: come nella stratificazione della crittografia, anche nella sua storia si svelano più piani e nella loro successione ci svelano l’intenzione di “costruire un mondo”. Per vederlo occorre districarsi nell’effervescenza di una narrazione fittissima di richiami e di interrogativi, di riferimenti espliciti (per comprendere Il mondo invisibile almeno un po’ della storia di Alan Turing è necessario conoscerla) e impliciti (c’è tutto un ribollire di citazioni nascoste) che affronta le mutazioni della modernità come pochi hanno saputo fare, ma che poi, tra le righe lascia intuire che la decodifica più difficile è capire la maternità, la paternità, essere genitori, essere figli.

mercoledì 19 maggio 2021

William Carlos Williams

L’apologia di William Carlos Williams per l’immaginazione parte con un ritratto evocativo che rende alla perfezione il tono coltivato con La primavera e tutto il resto. Quando dice che “come le ali dell’uccello battono l’aria solida senza la quale nessuno potrebbe volare, così le parole liberate dall’immaginazione affermano la realtà con il loro volo”, sceglie una metafora sensazionale perché “a mani nude l’uomo lotta con il cielo, senza esperienza dell’esistenza, cercando di inventarla e progettarla”. All’interno di questo conflitto, secondo William Carlos Williams “il lavoro sarà nel reame dell’immaginazione tanto semplice come il cielo sta al pescatore, una frase piena di nuvole. La parola deve essere buttata giù per se stessa, non come simbolo della natura ma come una parte, conscia del tutto, avvertita, progredita”. Una consapevolezza che apre più di una breccia: è un continuo solleticare il confronto con l’essenza della parola ed è spiazzante perché William Carlos Williams non concede punti di riferimento e lascia alla deriva ogni luogo comune, senza alcun rimpianto, dato che “la parola non è liberata, e quindi capace di comunicare sollievo dall’immobilità che la distrugge, finché non sia accuratamente intonata al fatto che, dandole realtà, dalla sua stessa realtà stabilisce il suo essere assolta dalla necessità di una parola: così è resa libera e dinamica nel medesimo tempo”. Per questo leggere La primavera e tutto il resto è come “entrare in un nuovo mondo e avere lì la libertà di movimento e di innovazione”. È chiarissimo l’afflato di William Carlos William per una percezione della scrittura allargata e a più dimensioni, che si estende alla comprensione della poesia e della prosa, alla distinzione e insieme alla collocazione delle due forme espressive. Per tracciarne i rispettivi confini e gli infiniti punti di contatto vengono spesi molti versi e molte opzioni, tenendo conto che “la prosa ha a che fare con il dato di fatto di un’emozione; la poesia ha a che fare con la trasformazione dinamica dell’emozione in una forma separata”. Nello stesso tempo, William Carlos Williams sa che c’è un’energia che le unisce laddove “la poesia libera le parole dalle loro implicazioni emotive, la prosa le rafforza. Entrambe si muovono centrifughe e centripete rispetto all’intelligenza”. Nello stesso modo La primavera e tutto il resto ha non poche sorprese e cambi di direzione repentini che stupiscono, nell’immediato, ma sono componenti logiche nel tenere alta la tensione, anche sfoggiando l’arte della dissimulazione nell’ammettere che “io stesso provo ad entrare nell’agone con queste poche annotazioni, buttate giù nel mezzo dell’azione, sotto circostanze distraenti, per ricordare a me stesso (vedi p. 2, paragrafo 4) la verità”. La primavera e tutto il resto contiene, nella sua visionaria moltitudine, contiene Edgar Allan Poe e Marian Moore, Walt Whitman e William Shakespeare, ma William Carlos Williams sa che sarebbe tutto pleonastico, se non inutile, senza il concorso del lettore a cui rivolge un accorato appello: “Nell’immaginazione, siamo d’ora in poi (finché tu leggerai) racchiusi in un fraterno abbraccio, la classica carezza dell’autore e del lettore. Noi siamo una cosa sola. Ogni volta che dirò io, intenderò tu. E così, insieme come cosa sola, cominceremo”. Allora le parole scritte e/o lette scavano in profondità, perché “se qualcosa al momento verrà fuori, tanto meglio. E più probabilmente ciò accadrà, tanto più non ci sarà nessuno che vorrà vederlo”. Nella terra comune, così definita, l’immaginazione “attacca, mescola, anima, è radioattiva in tutto ciò che può essere toccato da un’azione. Le parole accadono in una liberazione grazie alla virtù del suo processo”. Nel flusso effervescente e irriverente che anima La primavera e tutto il resto è facile perdere l’orientamento e se ne avvede anche William Carlos Williams che pare scusarsi quando dice “capisco che i capitoli siano piuttosto rapidi nella loro sequenza e che non vi sia contenuto niente di che ma nessuno oggi dovrebbe esserne sorpreso”. È solo un piccolo momento, un altro diversivo, poi la poesia, e la prosa, La primavera e tutto il resto fanno parte di un esercizio, di un’elevazione, di una pratica per cui “compresa per via pratica, senza far appello a operazioni mistiche, di questo o quell’altro ordine, è così che la vita diventa attuale, solamente quando identificata con noi stessi. Quando la nominiamo, la vita esiste”. Solo con l’immaginazione, e con le parole giuste.