mercoledì 24 marzo 2021

Edward L. Bernays

Nel 1956 W. Howard Chase, presidente della Public Relations Society of America dichiarava: “La pretesa dichiarata di plasmare o influenzare la mente dell’uomo mediante le tecniche che applichiamo, ha creato in molti di noi un senso di profondo disagio morale”. L’ammissione, un po’ tardiva, giunge quando “l’ingegneria del consenso” come la definisce Edward L. Bernays è ormai diventata onnipresente e pervasiva, ma è proprio grazie a Propaganda se sappiamo distinguere i mezzi utilizzati per “manipolare l’opinione pubblica”. È utile precisare, fin dal principio, che Edward L. Bernays non è un attivista o un ribelle iconoclasta: è un insider che ha lavorato con le maggiori società  industriali e commerciali americane (nonché per lo stesso governo), inventando, di fatto, l’idea moderna delle pubbliche relazioni. La sua dissertazione è neutra, scevra da posizioni ideologiche, tesa a far notare la rilevanza e la praticità della propaganda, ritenuta ineluttabile, evidentemente. Edward L. Bernays la concepisce come uno strumento, con tutta una sua complessità, e se ha un’ambiguità è perché “dal punto di vista etico, la propaganda ha con l’istruzione il medesimo rapporto che ha con la politica o con le imprese. Rischia di essere usata male, sfruttata solo per elogiare in maniera capziosa un’istituzione e per inculcare valori artificiali nella testa della gente. Non ci sono garanzie contro gli utilizzi abusivi”. Risalendo al 1922, la sua analisi ricuce, con un linguaggio chiaro e accessibile, il corso della propaganda bellica con le successive evoluzioni nell’informazione politica e nella pubblicità, comunque tese a “incanalare le reazioni di un’intera collettività sfruttando un vecchio luogo comune o creandone un altro”. Edward L. Bernays segue e illustra molti casi specifici, sfoggiando una convincente propensione allo storytelling, ma considerando passo per passo tutte le possibili strutture della propaganda, dalla “creazione di circostanze” alla “spettacolarizzazione dei punti forti”, dall’utilizzo di processi associativi e reiterazioni alla determinazione dell’offerta (molto acuto il passaggio dedicato al rapporto tra domanda e offerta rispetto al mondo dell’artigianato e dell’industria) fino al concetto di “interpretazione continua” e all’estensivo impiego delle interazioni psicologiche (Edward L. Bernays era nipote di Freud). Un corpus destinato a spiegare come la propaganda “vede l’individuo non solo come cellula strutturata, correlata, all’interno di un’unità sociale. Se tocchi un nervo sensibile ottieni una reazione automatica da parti specifiche dell’organismo”. La metafora antropocentrica è finalizzata a illustrare l’obiettivo finale perché “per essere un collettivo, e quindi soggette alla psicologia delle folle, le persone non devono per forza formare materialmente un’assemblea o una turba di insorti, perché l’uomo è gregario per natura anche quando è solo soletto nella sua stanza, con le tende tirate. La sua mente conserva gli schemi e i modelli che vi sono stati impressi dall’influenza del gruppo”. Molti anni dopo Elias Canetti in Massa e potere avrebbe scritto che “la massa ha bisogno di una direzione”, ma Edward L. Bernays aveva già predetto che “la manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni strutturate delle masse è un elemento fondamentale della società democratica. Coloro che riescono a padroneggiare questo ingranaggio invisibile della compagine sociale costituiscono un governo occulto, il vero potere che dirige il paese”. L’idea di “governo invisibile” si protrae lungo tutti i saggi di Edward L. Bernays, anche quando la propaganda si applica all’ambito industriale e commerciale: “Oggi le aziende puntano a fare della popolazione il proprio socio, una novità favorita da tutta una serie di cause, alcune economiche, altre dovute al crescente interesse della gente per le imprese, e dalla maggiore comprensione del pubblico interesse negli affari. L’azienda ha capito che il suo rapporto con il pubblico non si limita alla fabbricazione e vendita di se stessa e di tutte le cose che rappresenta agli occhi della gente, la propria immagine”. Quando l’ingombrante presenza del “governo invisibile” si riflette nella costruzione secondo cui “l’opinione pubblica è il partner occulto di tutti i grandi progetti”, la somma è quella “realtà incontrollabile”, così come la descriveva Don DeLillo, e come la viviamo tutti i giorni. Chissà cosa avrebbe detto Edward L. Bernays delle attività di profilazione o dell’incessante martellare degli algoritmi, ma intanto era arrivato, già allora, a capire che “il vero problema che deve risolvere la politica nella nostra democrazia moderna è come convincere i nostri governanti a governare sul serio”. Eh, sì: Propaganda va infilato proprio tra L’opinione pubblica, di Walter Lippman, e I persuasori occulti di Vance Packard a completare la conoscenza dei meccanismi decisionali che ci piovono in testa.

venerdì 19 marzo 2021

John Steinbeck

Tra una guerra e l’altra, l’irrequieta congrega di facinorosi che si raduna a Pian della Tortilla ha inviato un messaggio al destino, con un’affrancatura che, a distanza di quasi un secolo, mantiene la dimensione del classico. Le caratteristiche pittoresche delle moltitudini di personaggi rendono Pian della Tortilla un luogo movimentato, ma compensando l’inevitabile distrazione delle giornaliere vicissitudini, il romanzo di John Steinbeck “parla di uomini che, costruiti in unità, elargirono filantropia, e conobbero dolcezza, gioia e, infine, mistico dolore” e, dietro questa ruvida corteccia, rivela un denso midollo di simboli e significati. L’amicizia, un legame immediato, profondo e insieme molto fragile, è la prima linea sul Pian della Tortilla. Sulle colline di Monterey, la povertà, una realtà perenne lungo la visuale di John Steinbeck, è una condizione ambivalente: se da una parte il quartiere vive ai limiti della sussistenza, dall’altra l’allegra brigata ha colto nella frugalità dell’esistenza tutto un particolare senso di libertà. La virtù francescana (il santo ha un ruolo tutto suo in Pian della Tortilla) è distorta quel tanto che basta a concedersi una strategia d’abitudini molto parche, per quanto non del tutto sobrie (anzi). Prendiamo Danny: attorno a lui ruota intorno tutta la vita di Pian della Tortilla, ma resta defilato rispetto agli altri, un po’ più avanti, un po’ più in alto rispetto agli altri fenomeni. Il fatto di aver ricevuto in proprietà due case lo pone in una condizione pensosa e contraddittoria: “la qualità transitoria della proprietà terrena che tanto più stimabile rendeva la proprietà spirituale”, è vista come un condizionamento e da lì all’aprire porte e finestre agli amici e agli sbandati di turno, è ovviamente un attimo. Le avventure ruotano attorno al bisogno primario del vino e ad alcune secondarie questioni, il companatico, e come procurarsi il denaro per pagare uno e l’altro. Ogni escamotage è valido pur di affrontare la giornata, e le peripezie sono caotiche, tanto che “chi avesse sfogliato il libro delle denunce alla questura di Monterey, avrebbe notato che in quel periodo c’era un brusco risveglio di delinquenza spicciola”. Niente di grave, comunque: ogni limitatissimo sforzo resta relativo visto che “gli amici si sentivano spronati all’azione. Ma la scena del dramma era troppo lontana”, e figurarsi se sentivano l’urgenza di muoversi. L’amicizia, in ordine a queste inderogabili urgenze, subisce repentini rovesci (memorabile la scena in cui Joe il Portoghese alias Joe il Grande viene bastonato a sangue, mentre era stato venerato fino a un attimo prima), ma, al di là dell’aspetto tragicomico, i personaggi di Pian della Tortilla sono concordi nel rifiutare di assoggettarsi alla natura degli schemi preordinati della società americana, che non li aspetta, e da cui non si fanno sorprendere. Restando “lontani da ogni preoccupazione di lotta per l’esistenza, essi sedevano al sole giudicando i loro simili”, e l’idea del self made man, e per esteso del lavoro come soluzione e realizzazione è abbandonata a se stessa. Senza tanti rimpianti: le giornate non si distinguono se non per piccoli aneddoti che i frequentatori di Pian della Tortilla trasformano in racconti epocali e frammentari, ben sapendo che “il meglio di una storia è nelle cose dette a metà che l’ascoltatore completa di suo, con la propria fantasia e la propria esperienza”. Insieme al vino, le storie sono l’elemento più importante, e vitale, perché contribuiscono a definire un tempo immobile, e dilatato, dove le implicazioni morali sono azzerate (“Se la strada maestra della vita si divide a un certo punto in due sentieri di generosità e non è possibile seguirne che uno, chi può giudicare quale sia il migliore?”) e una congrua dose di fatalismo è una panacea per ogni occasione. Come intuisce alla perfezione John Steinbeck, il modello di Pian della Tortilla non è ecumenico, non funziona all’infinito e spesso e volentieri traballa e crolla, ma è bello sapere che anche la decadenza ha una sua dignità.

martedì 16 marzo 2021

Sarah Smarsh

Come riportato da William Least Heat-Moon in Prateria, già nel 1910 Carl Becker scriveva che “il Kansas è lo spirito americano concentrato, è un nuovo innesto dell’individualismo e dell’intolleranza americani”. La prateria venduta come una terra promessa è rimasta un miraggio e anche la meccanizzazione dell’agricoltura con l’aumento dei macchinari, dei diserbanti e dei fertilizzanti ha aggiunto ben presto altri elementi di sofferenza alla lunga catena di ostacoli con cui convivere, non ultimo lo stimolo a fuggire perché “l’eredità di quella storia di espansione verso ovest, della conseguente fuga dalle campagne verso le città e dei vasti territori che hanno reso possibile tutto ciò, è che oggi la popolazione degli Stati Uniti presenta una propensione allo spostamento unica nel suo genere”. Tra andarsene e l’immane fatica di restare, non c’è altra alternativa: Heartland presenta il conto di una frattura multipla tra bianchi/neri, città/campagna, uomini/donne, giovani/adulti, Kansas/America. Nel documentare lo strazio e il tormento di più generazioni, Sarah Smarsh affronta un turbinio di matrimoni, separazioni, divorzi, fughe, riconciliazioni seguendo le tracce evanescenti di una famiglia, la sua, turbolenta né meno né più delle altre. L’influenza dell’ambiente, la combinazione della geografia e dei riflessi innati delle condizioni sociali ed economiche determinano una vita dura e agra, che non consente molte opzioni, in termini di prospettiva, e ben poche speranze, in generale. È come se i caratteri morfologici del Kansas, le distese di colture intensive, le strade polverose che attraversano la prateria, il clima estremo e la frequenza dei tornado (giusto per non farsi mancare niente), si fossero trasferiti in una diffusa e pervasiva inquietudine. È solo una parte, una componente quasi fisiologica: sul destino dei parenti di Sarah Smarsh pesano, più di tutto, la condizione economica e l’inamovibile cliché del sogno americano, quello del self made man, più che mai ambiguo nell’Heartland, dove si capisce una volta di più che “l’economia americana non è tanto un sogno sostenuto dalla democrazia, quanto più un dio poco affidabile”. In effetti, c’è qualcosa di più profondo che tocca nell’intimo la costruzione delle personalità e contribuisce alla dissoluzione dei fragili legami famigliari, come si è ben accorta Sarah Smarsh: “Eravamo convinti che se la tua vita era un casino la colpa era solo tua. Avevi quello che ti eri meritato. Non trovavamo scuse: o sapevi cavartela, oppure no”. Nel vorticoso susseguirsi di volti e storie, si distinguono le figure centrali dei nonni Betty e Arnie, attorno ai quali si dirama in più direzioni un albero genealogico che segue il caso, più che una logica famigliare, dove “lavoro agricolo e manuale, povertà rurale, gravidanze adolescenziali, caos domestico, dipendenze diffuse” sono allo stesso tempo effetti e concause del disorientamento e dell’alienazione dominanti nell’Heartland. Sarah Smarsh parla a una figlia che non ha avuto e a cui ha risparmiato un’infanzia costantemente all’erta nonché lo stress dell’impossibilità di sentirsi al sicuro, compreso il ruolo del corpo, nel cercare di comprendere cosa sente, cosa percepisce, vivendo in un ambiente che è “più un’esperienza tattile che visiva”. È un dialogo a senso unico, le risposte sono soltanto gli echi che si perdono nell’immobilità della prateria e nell’istinto di partire. Anche per lei ci vorrà parecchio a capire che “a farci vergognare non erano carenze a livello morale. Erano carenze a livello economico”, che si ripercuotono sulle esigenze primarie, al punto che la stessa Sarah Smarsh ammette che “ogni singolo giorno ero combattuta fra bisogno e dignità”. Proprio lì in mezzo, Heartland è una lettura aspra, a tratti ossessiva e dolorosa, ma coraggiosa e irrinunciabile per arrivare a toccare con mano i riflessi reali di molti luoghi comuni americani.

venerdì 5 marzo 2021

Don Winslow

Ultima notte a Manhattan è una scatola a incastri, una scacchiera truccata, un puzzle con un pezzo in meno, un mazzo di carte con troppi re e regine, un labirinto senza via d’uscita, se non sei Walter Whiters. Essendo un agente segreto, sa che il doppio gioco è soltanto l’inizio: pensa di aver lasciato la CIA in Europa lungo l’invisibile fronte della guerra fredda, ma la Compagnia non l’ha mollato. Oltre Atlantico la sua rete di agenti si è sfaldata “perché i suoi campioni erano umani, con tutte le fragilità e i limiti umani, e avevano fatto tutto ciò che era possibile entro quei limiti e se questo significava essere sconfitti, quella sconfitta possedeva una sua triste bellezza”. È per quello che vuole tornare a New York, desiderio più che legittimo. Vorrebbe anche consolidare il suo legame con Anne Blanchard, cantante e prima della classe di una sfavillante serie di femme fatale che, oltre a lei, comprende Madeleine, Marta, Alicia e la Contessa. Dato che comunque ha un tenore di vita tutto suo e gli piace restare in movimento, Walter Whiters trova lavoro in un’agenzia investigativa, dove può far valere le capacità acquisite sul campo. L’incontro fortuito con gli arrembanti Kennealy e la morte sospetta di Marta mette Walter Whiters al centro di una tela in cui si annodano moltitudini di conflitti. Ma Ultima notte a Manhattan non è soltanto un noir immerso nell’atmosfera torbida e sensuale di una New York che non c’è più (se mai è esistita), è un grande romanzo che svolge la lingua del potere: complotti, ricatti, (sessuali), vendette che Don Winslow traspone nei magistrali dialoghi senza fine, destinati a elaborare piani sopra piani, per poi demolirli. Walter Whiters sa che la lotta per il potere si nutre del segreto, qualcosa di inspiegabile che resta alle spalle, una minaccia che si alimenta della paura e che genera un ciclo continuo, come la pioggia che scende sulla terra ed evapora ogni volta. Nell’Ultima notte a Manhattan, il catalogo c’è tutto: i suoi vecchi colleghi in fase di riposizionamento, gli uomini dell’FBI di Hoover, che detesta i Keneally (come tutti i politici, ma di più), la mafia, le spie dell’Unione Sovietica. Walter Whiters ha un solo vantaggio ed è sapere che “il senso della strada non è limitato a quando sei in strada”: una sorta di percezione superiore affilata dall’esperienza nel sapersi muovere nell’ambiguità, dove tutto è doppio, anche New York, perché “le città cambiano sesso quando cala il sole”. Manhattan, l’isola delle colline, è la vera protagonista, poi Washington Square, le cafeterie, le trattorie, e soprattutto i club, il Village Vanguard, il Cellar, il Blue Note, il Five Spot. Tra Miles Davis, John Coltrane e Thelonoius Monk, l’apoteosi del jazz come elemento coagulante della vita metropolitana è comprensiva degli outsider impazziti e felici della Beat Generation e, a uno di loro, Sean McGuire, Walt Whiters assegnerà un ruolo determinante. Più delle suite jazzistiche e delle canzoni di Cole Porter sono però le parole di  All I Have To Do Is Dream degli Everly Brothers a dare un tono alla fluttuante atmosfera dell’Ultima notte di Manhattan “perché lì, sotto i globi luminosi e i neon lampeggianti, ogni sogno sembrava quasi una realtà, ogni cavallo della giostra facile da montare, ogni momento un nuovo inizio”. È l’effetto straniante di una New York natalizia: poi arriverà il 1959, Kind of Blue, tutta un’altra musica, e un’altra era. Don Winslow di prende qualche libertà cronologica, ma i personaggi storici sono filtrati attraverso una lente deformante che lascia intuire i profili originali: insieme ai Kennealy/Kennedy, s’intravede la parabola di Marylin Monroe e dietro la Contessa, c’è la baronessa Pannonica de Koenigswarter, musa dei jazzisti, mentre Sean McGuire è Jack Kerouac (che era effettivamente a New York in quel momento) e il Vecchio che cala come un deus ex machina a concludere l’Ultima notte a Manhattan sarà Allen Welsh Dulles, direttore della CIA dal 1953, l’unico a poter comporre un intricatissimo schema fatto di ombre, dato che quei rompicapo li ha inventati proprio lui.

mercoledì 3 marzo 2021

Leonard Cohen

La composizione antologica di Stranger Music è stata un primo tentativo di affrontare per esteso l’enorme massa scaturita dalla scrittura di Leonard Cohen. Contiene canzoni, poesie, parti di Beautiful Losers. Il disordine è compreso nel prezzo, ma l’idea di offrire una panoramica completa resta più che apprezzabile, per quanto limitata. Rispetto alla “politica di questo libro” serviranno altri approfondimenti e altre analisi, ma l’assembramento di Stranger Music, pur datato (risale al 1993), mantiene una sua magia e una sua peculiare intensità nel sovrapporre e mescolare songwriting e scrittura tout court. L’elenco nel dettaglio allinea i brani scritti per gli album fino a The Future, le raccolte poetiche (tra cui Le spezie della terra, Fiori per Hitler, Parassiti del paradiso, Libro della misericordia e L’energia degli schiavi). Seguendo la natura propria di Stranger Music, tanto vale procedere per tentativi casuali ed ecco riapparire Hank Williams in Tower of Song a cui Leonard Cohen chiede “Quanta solitudine ci si può mettere? (Hank Williams Non ha ancora risposto ma lo sento tossire tutta la notte, cento piani sopra di me nella torre della canzone)”, le prospettive di Non mi sono attardato in monasteri europei, (“Anche se l’ho osservato spesso, non sono diventato l’airone”) o Un aquilone è una vittima (“Un aquilone è un contratto di gloria da firmare con il sole, perciò ti fai amici il campo, il fiume e il vento e poi preghi tutta la fredda notte precedente, sotto la luna viaggiatrice senza spago, di renderti degno e lirico e puro”), l’epiteto in Travestimenti (“Mi consolate incorreggibili traditori di voi stessi, quando saluto la moda e faccio sì che la mia mente come una hostess di facili costumi che distribuisce paracadute durante una picchiata a candela faccio sì che la mia mente straziata guardi in faccia la realtà”). Volendo, si può trovare un passaggio emblematico nella sequenza tra I Can’t Forget (“E non riesco a dimenticare, non riesco a dimenticare, non riesco a dimenticare, ma non ricordo che cosa”) ed Everybody Knows (“Lo sanno tutti che i dadi sono truccati. Tutti li fanno rotolare con le dita incrociate. Lo sanno tutti che la guerra è finita. Lo sanno tutti che i buoni hanno perso. Lo sanno tutti che il combattimento era combinato: i poveri restano poveri, i ricchi diventano più ricchi. Così vanno le cose. Lo sanno tutti”), per concludere con l’ammissione, da qualche parte nel flusso inarrestabile di Stranger Music, “che l’unica vera esperienza dell’essere umano sia la sconfitta. Occasionalmente conosciamo un trionfo, raramente solleviamo la testa per salutare una vittoria. La vita è sconfitta, impotenza, ma non annullamento”. Ma ovunque venga girata la pagina, Leonard Cohen snocciola mitologie, magniloquenza, sogni, lotte, desideri, e una gentilezza tutta sua. Nonostante l’indecifrabile organizzazione, che segue solo un blando schema cronologico, in Stranger Music si ha l’impressione di assistere a una cerimonia riservata ai professionisti, come scrive in Modelle parigine, anche se Leonard Cohen è sempre sibillino quando si tratta di considerare la scrittura. Lo si vede in La ragione per cui scrivo (“La ragione per cui scrivo è produrre qualcosa bello come te”), in Dono (“Mi dici che il silenzio è più vicino delle poesie alla pace, ma se in dono ti portassi silenzio (perché conosco il silenzio) diresti Questo non è silenzio è un’altra poesia e me lo restituiresti”), o in Un tamburo differente (“In fatto di lamenti, preferisco Aretha Franklin a, diciamo, Leonard Cohen”). Fino ad ammettere, così, en passant, che “in questo libro c’è una certa energia che non può essere negata” e va da sé che Leonard Cohen rimane “la nostra spia più importante”, se non altro per i versi iniziali di First We Take Manhattan (“Mi avete condannato a vent’anni di noia per aver tentato di cambiare il sistema dall’interno”) che restano insieme un monito e una profezia.