Come riportato da William Least Heat-Moon in Prateria, già nel 1910 Carl Becker scriveva che “il Kansas è lo spirito americano concentrato, è un nuovo innesto dell’individualismo e dell’intolleranza americani”. La prateria venduta come una terra promessa è rimasta un miraggio e anche la meccanizzazione dell’agricoltura con l’aumento dei macchinari, dei diserbanti e dei fertilizzanti ha aggiunto ben presto altri elementi di sofferenza alla lunga catena di ostacoli con cui convivere, non ultimo lo stimolo a fuggire perché “l’eredità di quella storia di espansione verso ovest, della conseguente fuga dalle campagne verso le città e dei vasti territori che hanno reso possibile tutto ciò, è che oggi la popolazione degli Stati Uniti presenta una propensione allo spostamento unica nel suo genere”. Tra andarsene e l’immane fatica di restare, non c’è altra alternativa: Heartland presenta il conto di una frattura multipla tra bianchi/neri, città/campagna, uomini/donne, giovani/adulti, Kansas/America. Nel documentare lo strazio e il tormento di più generazioni, Sarah Smarsh affronta un turbinio di matrimoni, separazioni, divorzi, fughe, riconciliazioni seguendo le tracce evanescenti di una famiglia, la sua, turbolenta né meno né più delle altre. L’influenza dell’ambiente, la combinazione della geografia e dei riflessi innati delle condizioni sociali ed economiche determinano una vita dura e agra, che non consente molte opzioni, in termini di prospettiva, e ben poche speranze, in generale. È come se i caratteri morfologici del Kansas, le distese di colture intensive, le strade polverose che attraversano la prateria, il clima estremo e la frequenza dei tornado (giusto per non farsi mancare niente), si fossero trasferiti in una diffusa e pervasiva inquietudine. È solo una parte, una componente quasi fisiologica: sul destino dei parenti di Sarah Smarsh pesano, più di tutto, la condizione economica e l’inamovibile cliché del sogno americano, quello del self made man, più che mai ambiguo nell’Heartland, dove si capisce una volta di più che “l’economia americana non è tanto un sogno sostenuto dalla democrazia, quanto più un dio poco affidabile”. In effetti, c’è qualcosa di più profondo che tocca nell’intimo la costruzione delle personalità e contribuisce alla dissoluzione dei fragili legami famigliari, come si è ben accorta Sarah Smarsh: “Eravamo convinti che se la tua vita era un casino la colpa era solo tua. Avevi quello che ti eri meritato. Non trovavamo scuse: o sapevi cavartela, oppure no”. Nel vorticoso susseguirsi di volti e storie, si distinguono le figure centrali dei nonni Betty e Arnie, attorno ai quali si dirama in più direzioni un albero genealogico che segue il caso, più che una logica famigliare, dove “lavoro agricolo e manuale, povertà rurale, gravidanze adolescenziali, caos domestico, dipendenze diffuse” sono allo stesso tempo effetti e concause del disorientamento e dell’alienazione dominanti nell’Heartland. Sarah Smarsh parla a una figlia che non ha avuto e a cui ha risparmiato un’infanzia costantemente all’erta nonché lo stress dell’impossibilità di sentirsi al sicuro, compreso il ruolo del corpo, nel cercare di comprendere cosa sente, cosa percepisce, vivendo in un ambiente che è “più un’esperienza tattile che visiva”. È un dialogo a senso unico, le risposte sono soltanto gli echi che si perdono nell’immobilità della prateria e nell’istinto di partire. Anche per lei ci vorrà parecchio a capire che “a farci vergognare non erano carenze a livello morale. Erano carenze a livello economico”, che si ripercuotono sulle esigenze primarie, al punto che la stessa Sarah Smarsh ammette che “ogni singolo giorno ero combattuta fra bisogno e dignità”. Proprio lì in mezzo, Heartland è una lettura aspra, a tratti ossessiva e dolorosa, ma coraggiosa e irrinunciabile per arrivare a toccare con mano i riflessi reali di molti luoghi comuni americani.
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