Miami, un mondo a parte di congetture e intrighi e uno snodo tropicale fin troppo caotico, anche per gli standard di Carl Hiaasen. Se un certo grado di disordine è fisiologico e da mettere in conto, c’è qualcosa in più come notava, con la consueta lucidità, Joan Didion in Miami, contemporaneo di Miami Killer: “Le superfici, a Miami, tendevano alla dissolvenza”. Un bel punto di vista. Siamo tra il 1986 e il 1987, anni torbidi e turbolenti che sono stati davvero un crocevia di complotti, tensioni e violenze che Carl Hiaasen risolve in una parodia agrodolce, sarcastica e irriverente. I protagonisti di Miami Killer hanno l’abitudine di scomparire nell’ombra o nelle paludi: si tratta di un miscuglio di giornalisti, poliziotti, detective, terroristi, turisti e disadattati di ogni genere e specie. I personaggi principali sono Brian Keyes, già giornalista e investigatore privato, e Skip Wiley, un tempo suo collega ed editorialista che si è reinventato ribelle, un “uomo geniale e appassionato che trasformava la fantasia in realtà”. Lo dice Jenna, enigmatica femme fatale, amata da entrambi, che “aveva innescato la scintilla”. Il triangolo è spigoloso e nel gruppo stralunato e combattivo di Skip Wiley sono rappresentati di alcuni tratti distintivi della popolazione di Miami e delle contee limitrofe: un mastodontico ex giocatore di football, un esule cubano, un misterioso seminole. Sono una bella congrega di fissati, ma fanno fatica a restare uniti, nonostante l’obiettivo dichiarato: respingere l’invasione dei turisti e ripristinare l’identità perduta dell’ambiente selvaggio delle coste della Florida. Una missione dai nobili intenti, condotta con mezzi e azioni goffi e crudeli, compreso l’assalto a una nave da crociera con i serpenti lanciati dall’elicottero, una leggenda metropolitana sempre utile, nonché il rapimento della reginetta del momento, Kara Lynn Shivers, che avviene nel corso della più importante sfilata cittadina, con la colonna sonora di Light My Fire dei Doors. Dove può portare tutto ciò, Carl Hiaasen non lo lascia intravedere: si limita a seguire le movenze dei suoi personaggi che sembrano sfuggire anche al suo controllo. Nella baraonda, sono tutti maldestri e fuori posto, come se l’esilio di migliaia e migliaia di cubani fosse contagioso: le relazioni sono tutte pericolose e Miami è uno stagno dove, secondo il principio fisico di azione e reazione, si generano effetti incontrollabili. Ognuno ha la sua teoria e una posizione da difendere e si muove nelle aree devastate della città come se fosse in cerca di un destino che non arriva mai. Anche Carl Hiaasen pare perdersi nel trambusto generale, tra attentati dinamitardi, trappole, fughe e segreti e misfatti che si moltiplicano in un clima umido e irrespirabile. È così che Miami Killer ha il ritmo sincopato dei riff degli Stones (puntualmente citati in una scena memorabile con Sympathy For The Devil) e procede a salti e sobbalzi, ma anche nel suo caracollare disordinato, mette il dito nella piaga della commistione tra stampa, istituzioni, politica, e affari che del resto vediamo e sentiamo tutti i giorni, e non solo in Florida.
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