“L’America è il posto giusto”, ma è tutto da dimostrare. È un sogno e un progetto, una meta e un miraggio, una città da costruire e un oceano da attraversare. È l’idea del duro lavoro che risolve tutto, è l’occasione per “mettere a posto le cose”. Per Agnese, che è al centro di una spirale che comprende la chiesa, la famiglia, la comunità, il viaggio dall’Italia ha anche il valore di una riparazione. Attorno a lei il Fuoco nella carne avviluppa un coacervo burrascoso di amanti e/o spasimanti che comprendono Gelsomino, padre del figlio Giovanni, il marito Michele, il socio in affari Antonio, persino il dottor Grace, medico le cui attenzioni vanno un po’ oltre i doveri professionali. La processione di figure maschili, compreso il padre Gesualdo e il fratello Luigi, è solo il background delle movenze di Agnese che, fin dall’angosciosa traversata, è un polo magnetico che, nello stesso tempo, attrae e respinge. I suoi exploit riflettono lo spirito del luogo che, con un gran dispendio di energie, lei è convinta di interpretare così: “Siamo in America. Qui le cose non sono le stesse. Qui conta il tuo lavoro... Quello che fai... Quello che sei”. Lapolla estende la sua percezione alla scrupolosa descrizione dei bassifondi di New York e delle condizioni estreme di fame, povertà e fatica degli emigranti. La città sta crescendo in verticale e verso l’alto, la vita nella strade è orizzontale, e durissima. La volitiva Agnese, con o senza soci tra gli uomini, avvia imprese edilizie e di gestione dei rifiuti. L’obiettivo di avere “una casa tranquilla, la pace della routine, l’aspettativa di un affetto sincero” si risolve dentro relazioni tempestose dagli esiti concatenati e drammatici. È vero che “il futuro è lungo” e nel Fuoco nella carne si intravede già in due personaggi secondari, estremi e contrapposti: l’enigmatico Paul Vaniglia con la sua offerta di protezione e Gino Birrichino, votato al sacro ruolo dell’arte. Antichi riti, nuovi processi, realtà ancestrali e moderne si confondono in un tessuto sociale fluttuante mentre “le vecchie abitudini si erano arrotolate come serpenti, addormentati al caldo sole della buone sorte in America”. Man mano che procede, la narrazione di Fuoco nella carne si infittisce con flashback, riflessioni e cambi di prospettiva che spesso si sovrappongono, mentre un’ombra di stende sul miraggio dell’America, che già brulica di fantasmi. Il vocabolario di Lapolla è aspro, masticato, infarcito di espressioni dialettali e di bestemmie, come se ci fosse una parte arcaica e selvaggia che è resistita all’esodo iniziale. Il Fuoco nella carne “è un’energia che consuma e unisce i personaggi principali, alimentata dal bisogno di appartenenza, riscatto, amore e vendetta” scrive Erika Silvestri (che compie un piccolo miracolo di traduzione) e a New York i compaesani sono “animali in trappola”. Gli elementi melodrammatici che conducono al finale, con un incendio che brucia sullo sfondo, movimentano Fuoco nella carne e mai titolo fu più appropriato: è un romanzo generoso capace di rappresentare al meglio la frizione tra la cultura americana dei self made man e il misero bagaglio degli immigrati europei. Protagonista tra gli scrittori italoamericani della prima metà del ventesimo secolo, compresi Bernard DeVoto, Pietro Di Donato, Luigi Donato Ventura o Vincenzo D’Aquila, la voce di Garibaldi M. Lapolla esprime una lingua non filtrata, non edulcorata, spesso abrasiva che segue l’andamento traballante e imprevedibile di una canzone. È uno strano ibrido: crudo, naturale, fotografico e in bianco e nero e la sorpresa di una scrittura vicina al gergo e alle intonazioni dei quartieri dei dagos contiene tutta la volontà di affermazione e di riscatto che hanno contribuito alla nascita di una nazione con tutte le sue contraddizioni, nessuna esclusa.
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