giovedì 3 febbraio 2011

John Steinbeck

“C’era una volta una guerra, tanto tempo fa, poi vennero altre guerre e altri modi di fare la guerra, tali che coloro che ne furono travolti ne eludono il ricordo” ed è qui che John Steinbeck interviene in qualità di reporter a seguito dell’esercito americano nella seconda guerra mondiale. Il suo racconto è vivido, sferzante e “responsabile”, come ripete con una certa frequenza John Steinbeck. Del resto, l’argomento è complicato almeno quanto surreale e John Steinbeck non concede nulla alla classica intossicazione degli inviati di guerra: non lascia spazio né all’adrenalina né all’assuefazione, viaggia con i soldati o racconta i radi dei bombardieri con lo stesso tono neutro e un po’ malinconico dei piloti attorno alle loro birre o dei marinai sulla tolda delle navi. John Steinbeck è più votato a proteggere l’idea di trasmettere una visione della guerra che a “coprire” le gesta belliche. Il suo disincanto è totale, palpabile, inconfondibile: eroismi, valore, coraggio e altri elementi epici dei combattimenti sono mantenuti ai margini, fuori dalla fotografia. Il suo diario racconta di guerrieri sporchi, sudati, stanchi, annoiati e ormai incapaci di collegarsi al proprio tempo perché “gli uomini che stanno in battaglia a lungo non sono normali. In seguito sembrano reticenti, ma forse non ricordano molto bene”. D’altra parte “i corrispondenti erano gente strana, bizzarra ma responsabile. Gli eserciti, per loro natura, dimensioni, complicazione e comando indulgono agli errori, errori che possono essere spiegati oppure trasformati in resoconti ufficiali”. A John Steinbeck interessano molto di più le emozioni, le storie, le piccole magie e le tante superstizioni dei soldati che nella sua ricostruzione trovano persino una logica ben precisa dato che “se la follia disorganizzata di cui facevamo parte aveva un intoppo, non soltanto era previsto, ma faceva parte di una più vasta strategia dalla quale immancabilmente sarebbe scaturita la vittoria”. La cronaca della conquista, se così si può chiamare, di Ventotene è esemplare, da questo punto di vista: John Steinbeck la mostra attraverso gli occhi dei soldati e, da grande narratore, riesce a spiegare con grande chiarezza le dinamiche tra le catene di comando, i piani per l’attacco e per la difesa e poi la resa finale. Tutto in un’atmosfera ipnotica, che plasma con grande accuratezza l’idea di un oblìo necessario a sopravvivere, che John Steinbeck inquadra così: “Forse è giusto e perfino necessario dimenticare i disastri, e le guerre sono di sicuro disastri cui la nostra specie sembra incline. Se potessimo trarne un insegnamento, sarebbe utile tener vivi i ricordi, ma purtroppo non abbiamo questa capacità”. Lo si capisce fin dal titolo che servirebbe uno sforzo mnemonico, dato che “ogni guerra è sintomo del fallimento dell’uomo come animale pensante” e visto che “ora da molti anni respiriamo paura e ancora paura, e la paura non conduce a nulla di buono. I suoi figli sono la crudeltà e l’inganno e il sospetto che germogliano nelle nostre regioni oscure. E come stiamo avvelenando l’aria con gli esperimenti nucleari, così ci avveleniamo l’anima con la paura, uno stupido canceroso terrore senza volto”. E’ così: C’era una volta una guerra, e c’era una volta un grande scrittore che ha capito tutto.

 

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