George Washington Crosby, nelle ultime ore del crepuscolo, ricorda il padre. Howard è una figura sfuggente, avvolta nell’autosufficienza dei “misteri personali”. E’ un venditore ambulante e gran parte dei suoi clienti vivono nei boschi e non appena arriva la primavera gli lo aspettano nelle radure. Uno, in particolare, lo attende per ripristinare la sua scorta di tabacco consumata durante il letargo. L’incontro tra i due uomini, l’eremita della foresta e il viandante con le sue carabattole, è uno dei rari momenti di quiete in riva al fiume di una vita tormentata che avvolge tutta la famiglia, perché Howard soffre di epilessia. La malattia, con i suoi lampi improvvisi, alimenta il carattere visionario e tende a renderlo pericoloso (George ricorda che una volta gli ha morso una mano) finché la moglie da cui sente dalla moglie sente solo “un silenzio colmo di rabbia, e di amarezza. E’ il silenzio di chi prende tempo” non gli mostra l’intenzione di rinchiuderlo in una casa di cura. Basta un gesto, un pezzo di carta, un movimento e “Non è forse vero? Basta un movimento del capo, un passo a destra o a sinistra, e ci trasformiamo da persone sagge, corrette, leali, in pazzi presuntuosi. La luce cambia, sbattiamo gli occhi, vediamo il mondo da una prospettiva appena differente e il nostro posto al suo interno è già cambiato, e continuerà a cambiare, all’infinito”. Howard sa anche, come chiunque, che “gli essere umani devono pur vivere da qualche parte e dentro qualcosa” e non gli resta che il suo carro, e la fuga. George ripara orologi, quasi a voler riprendersi la parte di tempo che gli è stata portata via con suo padre, proprio come quelle “canzoni dimenticate che non abbiamo mai conosciuto, che credevamo soltanto di ricordare, quando in realtà, tutto d’un tratto, ci rendiamo conto che non le conoscevamo affatto, e al contempo capiamo quanto possano essere meravigliose”. L’ultimo inverno di George e quello di Howard tendono a coincidere perché, anche se sono separati dal tempo e dalla distanza, entrambi provano una tristezza “così profonda che dev’essere amore”, che soltanto il finale, a sorpresa, apre e chiude in un battito di ciglia. Paul Harding, già batterista degli sfortunati Cold Water Flat, ha costruito L’ultimo inverno con un grande coraggioso stilistico (per dire, in pratica non ci sono dialoghi), riuscendo nell’impresa di reggere un instabile, precario equilibrio del tempo, scandito dalle stagioni, dalle fughe, dai lampi delle crisi epilettiche, dai meccanismi degli orologi fino alle onde sempre più lunghe dei passaggi di generazione in generazione. Il tic tac della sua scrittura è metodico, capace di illuminare “un ultimo disegno che si disperde ai quattro venti senza nemmeno interrompersi alla fine di che cosa, alla fine di tutto questo”, di ritrovare la trascendenza della wilderness americana e insieme tutti quei bizzarri umori che sono la vera costituzione della “repubblica invisibile” di cui è impregnato dall’inizio alla fine, come un’inedita ballata dylaniana.
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