Impossibile scindere il destino del romanzo dalla riduzione (in questo caso il termine è quanto mai appropriato) cinematografica. Il film tratto dal libro di Charles Williams, nonostante un buon ritmo e una degna impostazione, ha semplificato in modo palese, a partire dal numero dei protagonisti, la trama, puntando, com’era logico, sugli aspetti più spettacolari. Nel romanzo di Charles Williams la storia è più complicata, e molto più evoluta: Calma piatta è claustrofobico anche se è ambientato proprio in mezzo allo spazio infinito dell’oceano, paesaggio perfetto per quel sovrapporsi di apparenze, sotterfugi e dilemmi su cui sono strutturate la storia e il suo naturale svolgimento. La trama segue una scia di eventi che hanno una successione quasi matematica: John e Rae Ingram, una coppia in luna di miele su una barca a vela raccoglie un naufrago che, a suo dire, è l’unico superstite di un’altra imbarcazione, ormai alla deriva. Hughie Warriner, questo è il nome del giovane salvato dalle onde, ha il terrore dell’acqua e ha mentito. Trasferitosi , sull’altra imbarcazione, John scopre che ci sono, ancora vive, due persone. Sono la moglie di Hughie e lo scontroso Bellew: anche loro nascondono qualcosae John si accorge subito che su quella barca, l’Orfeo, la ragione se ne è andata da un bel pezzo. Un lusso che non ci si può permettere di vivere in mezzo al mare, ma a quel punto Hughie ha preso il comando del Saraceno, la barca degli Ingram e sta fuggendo. L’oceano si rivela un cul de sac e la tensione, che rimane altissima per tutto il romanzo, si legge proprio nell’angoscia che la calma piatta distribuisce tra i vari protagonisti. La dimensione dei rapporti umani, la loro stessa fallimentare natura nel caso dei naviganti dell’Orfeo, l’ostilità dell’oceano (dalla bonaccia alla tempesta, la sua lunatica superficie si rivela una trappola micidiale) non fanno che acuire i tratti più spigolosi delle personalità che Charles Williams fa risaltare con metodica destrezza. L’unico che sembre esserne esente è proprio John Ingram conosce abbastanza bene le leggi e le usanze del mare per perdersi nella diatriba tra i naviganti dell’Orfeo e concentra tutti gli sforzi nel tentativo di salvare la barca. In un primo tempo cerca in tutti i modi di tenerla a galla, pompando e svuotando con spasmodici colpi di secchi l’acqua che filtra dal fasciame marcio. Poi, quando ormai è chiaro che l’Orfeo non ha più speranze, la incendia per dare un punto di riferimento alla moglie. La distruzione dell’Orfeo è un sacrificio che offre più di una metafora: un rogo disperato che accende una luce nel bel mezzo del nulla, una catarsi di fiamme verticale sulla calma piatta e orizzontale dell’acqua. L’effetto, in sé spettacolare, ha il potere di introdurre il finale del romanzo che esploderà con altrettanta efficacia: Charles Williams non sarà un raffinato cultore del linguaggio e dello stile, anche se non gli manca la proprietà di gestire i dialogi e i silenzi dei suoi personaggi incastrati nella calma piatta. La sua attenzione è rivolta più alle implicazioni psicologiche, ai conflitti tra le personalità e, almeno in un paio di casi (i coniugi Warriner) agli elementi, latenti o espliciti, di dissociazione per intrecciare una sequenza di nodi scorsoi che avvinghiano il lettore a un thriller davvero originale.
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