L’ultima raccolta di racconti di Raymond Carver, che recupera storie scritte tra il 1983 e il 1987, celebra quella capacità che, come ha scritto Salman Rushdie, “gli consente anche di riflettere l’oscura e disordinata realtà del cuore”. Lo stile oltre a consolidarsi nella brevità dei soggetti, si è fatto ancora più misurato, quasi rarefatto da una meticolosa economia di parole. Più che short stories queste sono sospensioni sul ritmo, conversazioni lasciate a metà, luci che si accendono e si spengono, come quella che brilla nella veranda in fondo a Scatole. Spesso i dialoghi scorrono lungo le linee telefoniche, la cadenza dettata dalle pause per un boccata di sigaretta, come succede in Chi ha usato questo letto, o dalle indecisioni sulla soglia di porte che il più delle volte si aprono sul passato, sui dubbi, sulle sconfitte. In questo senso, l’incipit di Intimità è memorabile perché concentra in un poco meno di una pagina tutta la sensibilità di Raymond Carver. L’incontro fortuito, tra ex (marito e moglie), in una discussione serrata è un crescendo di reciproche rimostranze finché il protagonista, ormai cose se stesse parlando solo con sé stesso, dice: “Rimpianti, dico io. Non è che mi interessano tanto, a dir la verità. Non è una parola che uso molto spesso. Soprattutto perché non ne ho molti, immagino. Ammetto di aver un debole per il lato oscuro delle cose. Il più delle volte, almeno. Ma rimpianti? Mi pare proprio di no”. Nello spontaneo accostamento tra Intimità e Menudo, un dettaglio ricorrente suggerisce l’idea che tra i due racconti non ci sia soluzione di continuità. Il proposito di rastrellare le foglie che l’autunno lascia libere di cadere, apparso nel finale di Intimità, viene svolto da un personaggio secondario, il signor Baxter, in Menudo. L’osservazione del suo lavoro è solo un piccolo intervallo nelle riflessioni del protagonista (“Non mi sto mica lamentando, sto semplicemente dicendo le cose come stanno. Sono ridotto a non credere più a niente. E devo andare avanti così. Senza destino. Solo la prossima cosa che mi capita e che significava quello che penso che significhi. Mi tocca andare avanti per impulsi ed errori, come tutti del resto”) eppure, anche soltanto per quel breve momento, incarna l’identikit del personaggio tipico di Carver, quasi una sorta di modello definitivo perché “anche nei suoi momenti migliori il signor Baxter è una brava persona, un tipo qualunque che non si può prendere per una persona speciale neanche per sbaglio. Ma lui è una persona speciale almeno secondo me sì. Tanto per cominciare ha una notte intera di sonno dietro di sé, e poi ha appena abbracciato la moglie prima di andare al lavoro. Ma prima ancora che parta, è già atteso a casa un certo numero di ore dopo. È vero, nel più grande ordine delle cose, il suo ritorno a casa sarà un evento della minima importanza, però sarà sempre un evento”. Questo limite, nella sua essenzialità, diventa l’affilato contorno anche di Elefante e Pasticcio di merli, come se Raymond Carver, tra una telefonata nel pomeriggio e una busta infilata sotto la porta, volesse mostrarci le vere dimensioni del contrattempo di vivere, avendo acquisito la certezza, come scriveva in Menudo, che “siamo tutti gente per bene, tutti noi, ma solo fino a un certo punto”. Il nucleo è sempre quella precarietà che trova un’applicazione eccezionale in L’incarico. Frutto dell’equilibrata simbiosi tra un saggio e un racconto dedicato al crepuscolo di Čechov ricorda come lo scrittore russo in mancanza di “una visione politica, religiosa o filosofica del mondo” si dedicasse a descrivere come i suoi eroi “amano, si sposano, si riproducono, muoiono e come parlano”. Non è difficile intuire che, nel fragile gioco delle parti, Raymond Carver parlasse di se stesso.
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