giovedì 1 marzo 2018

Elizabeth Strout

Tornare ad Amgash, Illinois vuol dire riaprire ferite mai rimarginate, ritrovare quello che è successo nell’infanzia, che resta per sempre, e riprendere la cernita tra chi è partito e chi è rimasto. Amgash è una cittadina circondata da campi di patate ed è vero che Tutto è possibile, anche che ai genitori venga perdonato il passato, ma altrettanto vero che i Burton (e non solo) hanno vissuto un’infanzia degna di Charles Dickens, così poveri da dover rovistare nei bidoni della spazzatura. I morsi della fame non riguardano soltanto il cibo. Quello è solo l’effetto collaterale di famiglie, che pur deboli e claudicanti, restano un centro di permanente gravità dove tutti sono “cresciuti nutrendosi di vergogna; la vergogna era stato il concime del loro terreno”. Di motivi ce ne sono almeno quanti tuberi nella terra e, con metodo, con lentezza, con un senso della misura (persino eccessivo) nei dialoghi in cerca delle “frasi vere”, Elizabeth Strout ricostruisce tutto lo scenario di Amgash che resta una piccolo luogo di provincia “in the middle of nowhere”, dove tutti conoscono tutti eppure si confondono perché “non sappiamo che cosa vuol dire un bel niente, a questo mondo”. Spesso sono storie di un dolore indicibile, che viene esorcizzato attraverso i dialoghi (soprattutto) femminili, come se parlarne servisse a limitare le perdite, ricucire gli strappi, circoscrivere i danni. Non è così, anche se rimane Tutto è possibile, e i racconti sono concatenati uno nell’altro, con una certa naturalezza e con la figura di Elvis che appare a ricordare che è stato lui, più di tutti, a fuggire e a inseguire un sogno. Non è una coincidenza che Lucy Barton, evocata in continuazione nella prima parte di Tutto è possibile, entri in scena proprio al centro, in coabitazione con il fantasma più famoso d’America. Lucy “se n’era andata da tanto e aveva finito per sistemarsi a New York”, è una delle poche che ha studiato, ha superato i confini imposti da Amgash e ha avuto “molte cose da fare”. Un prezzo da pagare c’è comunque e lo si vede nello straziante incontro con il fratello Petie e la sorella Vicky: Lucy è colta da un attacco di panico e riparte in tutta fretta verso Chicago. È il climax di Tutto è possibile, alimentato poi dalle sorelle Nicely, da Charlie Macauley, da Mississippi Mary e da altre famiglie, i Guptill, gli Small, che cercano con risultati alterni “la sola guaina capace di proteggerti dal mondo: amare un’altra persona di cui si condivide la vita” e si ritrovano a considerare che, sì, Tutto è possibile, compresa la sensazione di non riuscire a cogliere un senso, una destinazione, anche soltanto per un fugace momento. Sarà Annie Appleby, un’altra ragazza che se ne è andata per diventare attrice (e che è una specie di riflesso di Lucy) nel corso della ricostruzione del Canto di Natale a spiegare il varco temporale tra immobilità e possibilità: “Pensò a come per anni in palcoscenico aveva usato l’immagine di se stessa sulla via sterrata per mano a suo padre, con la distesa dei campi coperti di neve intorno, i boschi in lontananza, e la gioia a fiotti nelle vene, come aveva usato quella scena per sentire gli occhi che le si riempivano di lacrime, di felicità e di perdita al tempo stesso. E ora si chiedeva se addirittura fosse mai successo, se davvero la via fosse stata un tempo stretta e sterrata, se mai suo padre l’avesse tenuta per mano e le avesse detto che la cosa più importante per lui era la sua famiglia”. E si torna lì, è inevitabile, ed è così che lo rappresentava Elizabeth Bowen in La morte nel cuore: “Come le guaine dei germogli, l’immaginazione infantile non solo protegge, ma modella il terribile germogliare dell’anima; non solo protegge l’innocenza contro il mondo esterno, ma il mondo contro la forma dell’innocenza”. La stessa metafora (la guaina) è più che un indizio: sì, Tutto è possibile, eppure qualcosa rimane inalterato, un nucleo delicato e pesante, votato a segnare il destino. Più delle storie, più delle parole.

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