The White Album, e ogni riferimento ai Beatles non è casuale, raccoglie testimonianze di Joan Didion in un arco temporale che va dal 1968 al 1978, ultima tappa di un tour de force senza limiti. Sono anni esotici, erotici e caotici in cui Joan Didion non si identifica finché arriva precisare che “quel che mi sono costruita è privato, ma non è esattamente pace”. La sua individualità, la sua formazione sono troppo definite per apparentarsi con un’ideologia e in quella condizione è come se per tutti quei tempi che stavano cambiando avesse avuto la pelle scoperta. Una straordinaria sensibilità capace di coniugare le esperienze personali (e famigliari) con le cronache inquiete, ancora di più, l’atmosfera di un decennio turbolento e non proprio così sereno e felice. Joan Didion rimane partecipe e lucida, scrive con un’attenzione profonda, che si tratti di un articolo sullo stoccaggio di sarin e gas nervino o del resoconto di una session dei Doors per Waiting for the Sun. È incisiva in ogni frase e nella forma del saggio breve, che è lo standard della collezione di The White Album, trova una particolare ispirazione nel giostrarsi con le contraddizioni e gli exploit dei protagonisti dell’epoca, dagli adepti di Charles Manson a politici, predicatori, ribelli e rock’n’roll star in ordine sparso. Si ritrovano tutti sotto la lente di Joan Didion che ha un modo scrupoloso di osservare ogni singolo dettaglio, pur mantenendo una specifica distanza emotiva dall’euforia e dall’effervescenza dell’epoca, sottolineata con una frase lapidaria: “L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968”. Al giro di boa dei Sixties, dedica gli splendidi ritratti di Doris Lessing e Georgia O’Keeffe, da inserire nel contesto di un’analisi molto acuta sul femminismo che merita di essere letta e riletta spesso. La sfera pubblica e quella più intima e riservata si susseguono e si completano senza sosta: la descrizione dell’emicrania (un fatto molto personale) è un’apoteosi di stile e classe così come uno dei momenti più lirici è il resoconto della trasferta alle Hawaii. Siamo già nel 1970 e gli “arrivi dal Vietnam” (1078 morti nelle prime dodici settimane dell’anno) toccano anche le pendici dei vulcani a cui Joan Didion dedica pagine toccanti. I reportage di viaggio comprendono angoli del mondo remoti, come Bogotà ed El Dorado, un mito fatto di polvere d’oro, e distrazioni casalinghe con le orchidee e i bagnini di Malibu, gli incendi a Los Angeles, le leggende colombiane e le astruse routine di Hollydwood, dalle idiosincrasie della critica cinematografica alle clausole contrattuali che determinano il futuro di un film ancora prima di una singola ripresa. Lei annota e commenta tutto, senza differenze o confini, ma trovando una collocazione per ogni immagine, fino a riconoscere “l’America con tutte le sue intemperie ed eccentricità e specificità tanto variabili da inebriare”. Una riscoperta che trova un supplemento di riflessione nell’ampia digressione sui nuovi quartieri residenziali e sullo sviluppo dei centri commerciali, primo sviluppo architettonico di tutta un’altra era. Joan Didion, per non smentirsi, la percepisce come un’opportunità esclusiva, con tutta l’ironia compresa nel prezzo: “La mia vita vera consisteva nel starmene seduta in quell’ufficio a descrivere come si viveva a Giacarta, a Caneel Bay e nei grandi châteaux sulla Loira, ma la mia vita immaginaria consisteva nell’allestire un centro commerciale regionale di classe A con tre grandi magazzini generalisti come locatari principali”. L’iperbole ha senso e Joan Didion ammette che è proprio in quel momento che comincia “a vedere tutto il paese come una proiezione in aria, una specie di ologramma, un’astratta griglia di immagine, opinione, impulso elettronico”. Arrivata ormai al 1978, volge lo sguardo a quello che è ormai diventato un passato ancora da decifrare: “Noi altri, per la maggior parte viviamo in modo meno teatrale, ma rimaniamo i superstiti di un’epoca insolita e introversa. Se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto”. Le resta un ultimo brindisi (bourbon, direttamente dal servizio in camera) e poi tanti saluti a Lucy In The Sky With Diamonds, a Mr. Tambourine Man, e addio anche al re lucertola.
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