Cercare di mettere ordine nell’empireo di Bob Dylan è un’impresa complessa e ci vuole, come minimo, una parvenza di lucidità. Greil Marcus si è impegnato per qualche decennio e non è stata una lotta semplice perché prima di tutto “Bob Dylan ha costruito una carriera disseminando indizi che nessuno raccoglie” e nel frattempo ha “messo una testa sul corpo della musica pop”, ovvero insieme agli Stones e ai Beatles ha partecipato alla “creazione di un immaginario comune accessibile a tutti noi”. Le iperboli di Greil Marcus arrivano a pioggia, e senza preavviso, e da Dylan partono per considerazioni più complessive: “Mi manca la sensazione che ci sia ben più nella musica, o nell’artista, o in me stesso, di quanto immaginassi, quella che nasce quando una canzone compare alla radio o sul piatto e io non riesco a prevedere quale sarà il suo effetto su di me. Mi manca la sensazione dei musicisti che si tuffano in una performance senza sapere bene che via stanno percorrendo, per non parlare di quando ne usciranno, ma con la convinzione innocente e nervosa che il viaggio si trasformerà in sorpresa, a prescindere dal costo dell’incertezza”. Gli Scritti 1968-2010 raccolti differiscono: l’ascolto di Self Portrait, canzone per canzone, è epico, il saggio su High Water (For Charley Patton) e l’11 settembre sottolinea una volta di più il carattere profetico della musica di Dylan, la celebrazione di Blind Willie McTell è puntuale e doverosa, così come il capitolo su Promised Land di Chuck Berry e quello dedicato all’Anthology of American Folk Music dove Greil Marcus spiega che “queste canzoni sono ovvie e misteriose come il tempo atmosferico; è impossibile non capirle, ma allo stesso tempo non si riesce a coglierne il nocciolo”. Non c’è soltanto Dylan: come una forza magnetica attira Martin Scorsese, la Band, Ray Charles, Van Morrison, Elvis Costello ed Elvis Presley, Don DeLillo (Great Jones Street è il romanzo più dylaniano di sempre) e Animal House. A volte Dylan è soltanto una scusa per andare in cerca di qualcosa di più vasto che risponde ancora a “un’America più grande e misteriosa” e seguendo “il testo segreto di un paese nascosto” in un arco temporale che comprende parecchie generazioni troviamo Jack Kerouac, le road songs di Bob Seger e Bruce Springsteen, il successo dei Wallflowers e, ancora prima, dei Counting Crows. È una ragnatela che comprende recensioni, note, excursus più dettagliati, promemoria, commenti (la posizione rispetto a We Are The World è lungimirante, alla fine): c’è una certa severità nelle analisi (più che competenti) di Greil Marcus nel tentativo di comprendere “la capacità di turbare, liberarsi delle convenzioni che tutti rispettano nella vita, quel che ci si aspetta di sentire, dire, sentirsi dire, imparare, amare o odiare, a definire la voce di Bob Dylan, in senso stretto e lato”. Qualche limite è da mettere in conto: a volte è eccessivo nelle digressioni, qui e là affiorano un sentore di accademia e qualche rebus (“Una delle funzioni del rock’n’roll è il sovvertimento degli schemi culturali e, per estensione, di quelli del rock’n’roll”), però associare i cameo di Alfred Hitchcock all’armonica di Dylan è un esercizio temerario, e divertente. Scritture e successive riscritture, tendono comunque a ricordare che “nel corso della sua carriera, Dylan ha impiegato le allegorie bibliche come una seconda lingua: i temi dell’esilio spirituale e del ritorno a casa, la salvezza personale e nazionale sono stati al centro del suo lavoro”. La costante che collega tanti frammenti diversi e distanti è “un tentativo di rimanere all’interno del dialogo che l’opera di Dylan ha sempre cercato di creare intorno a sé” e, in un modo o nell’altro, il songwriting torna in continuazione al centro dello scenario, dove è giusto che stia: “Ogni fraseggio era una sorpresa: non si poteva prevedere il suono che avrebbe avuto. La canzone stessa, la sua struttura, era a malapena un indizio. I limiti c’erano per essere aggirati”. La somma finale è “la sensazione che l’artista stia lavorando al massimo, che noi stiamo facendo straordinari, che i limiti siano stati sconfitti”. Ecco, è proprio vero che con Dylan “sentiamo ciò che è andato perduto e sentiamo ciò che pochi altri sono riusciti a toccare”: gli Scritti 1968-2010 (una vita, in effetti) di Greil Marcus suggeriscono che si tratti di “una casa che dobbiamo costruirci da soli”, e ci vuole tutto il tempo necessario.
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