La vita in una rock’n’roll band è un’esperienza per cui serve soltanto una cosa: buttarsi. Una volta dentro, o impari, o affoghi. Steve Wynn è uno che ha capito tanto, se non proprio tutto, delle dinamiche di un gruppo e il suo memoir è (anche) un manuale di sopravvivenza per gli artisti nell’industria discografica. All’inizio, ragazzo timido e solitario sulle colline di Los Angeles, è giusto il fascino dell’emulazione: “Volevo fare parte di tutte le band che amavo, e non vedevo alcun motivo per cui non potesse accadere”. Nel cuore di questo spontaneo riflesso, c’è già il passaggio successivo e conseguente: “Non bastava più imitare John Fogerty o Pete Townshend o John Lennon. Volevo diventare la mia versione di loro, e questo significava creare il mio universo, dove la mia musica esistesse sullo stesso piano e allo stesso modo della loro. Le canzoni erano il mezzo per trovare il mio posto nel mondo, ed erano anche i miei nuovi amici immaginari”. La condizione di adolescente e sognatore è un terreno molto fertile per sviluppare ambizioni speciali, a partire dal songwriting, presto in cima alla lista dei desideri di Steve Wynn: “Essere da solo come lo ero io significava che la mia immaginazione poteva correre sbrigliata. Inventavo di tutto, dagli amici immaginati ai film e ai libri immaginari, fino alle canzoni. Vivevo in gran parte dentro la mia testa, e questo era un terreno fertile per i rimuginamenti e le idee creative. Questo bisogno di creare un mondo tutto mio, abbinato alla mia passione per la musica, rese la scrittura di canzoni una scelta naturale”. È una scoperta fondamentale e se i primi passi sono ancora frutto di un candido anelito (“Scrivevo perché ero affascinato dalla musica che ascoltavo alla radio e volevo sentirmi parte anche io di quel mondo”), ben presto per Steve Wynn, diventa il songwriting uno strumento irrinunciabile: “Per la verità, spesso mi sorprende che le persone non scrivano canzoni, soprattutto i musicisti. A me sembra un’estensione naturale di suonare e di amare la musica. Senti delle cose, prendi ispirazione, intoni una melodia, hai qualcosa in testa, qualcosa che ti frulla nella mente; aggiungi queste parole alla tua melodia e voilà!, hai una canzone”. Fosse così semplice: la passione per i dischi, per i negozi, le radio e i concerti, la genesi degli album, le mutazioni delle rock’n’roll band si sovrappongono alle motivazioni e alle controindicazioni nella vita di un musicista. Con i Dream Syndicate, Steve Wynn attraversa ogni fase e ne parla senza filtri. Una parte rilevante di Non lo direi se non fosse vero è occupata dall’aneddotica della vita on the road dei musicisti, su cui Steve Wynn non si risparmia, concedendo molti risvolti inediti. Ci si intrufola nei tour bus, nei backstage, sui palchi con gli U2 e i R.E.M., si sperimenta quel rock’n’roll lifestyle con lo sguardo di un artista poco propenso al compromesso e con un obiettivo molto chiaro: “Volevo solo portare avanti il sogno”. Non ci sono soltanto Steve Wynn o i Dream Syndicate: ci sono dozzine di rock’n’roll band più fortunate o più astute, o tutte e due, che hanno intersecato i loro percorsi, e, pur tenendo conto di diatribe, scontri e meschinità assortite, dichiara di essersi sentito “parte di qualcosa di molto speciale”. È per quello che gran parte della sua autobiografia coincide con la storia dei Dream Syndicate che “sono sempre stati, in fondo, una jam band e una groove band. Siamo sempre stati una band che divaga, che si spinge al limite, che sfida se stessa a precipitare nell’oscurità, per salvarsi all’ultimo secondo e per rifarlo di nuovo. Probabilmente è la cosa che ci riesce meglio, ed è uno dei motivi principali per cui la gente viene ancora a vederci suonare dopo tutti questi anni”. È proprio così che Non lo direi se non fosse vero racconta “l’improbabile storia di sopravvivere e di costruire una vita con la musica”: come se fosse dal vivo, dove tutto, errori e rimpianti compresi, suona più autentico.
Nessun commento:
Posta un commento