mercoledì 5 febbraio 2025

Cormac McCarthy

Per generazioni, il taglio delle pietre e la costruzione delle case è stata l’occupazione della progenie Belfair. Non c’è molto di più, come dice il capostipite, Papaw: “Solo il lavoro. Solo il mestiere. Nient’altro. Non c’è mai stato nient’altro. Mi sono sempre chiesto cosa fa la gente al di fuori del suo mestiere. E me lo chiedo ancora”. È un’arte e un modus vivendi che “è stato insegnato. Generazione dopo generazione. Per diecimila anni. Adesso nella memoria di un solo uomo quell’insegnamento è stato accantonato come se non fosse mai esistito. Come se non avesse nessun valore. Questo lui lo sa eppure sembra non curarsene”. Lo scenario è il focolare di una famiglia afroamericana, dove il tormentato Ben ha scelto di adeguarsi all’identità di scalpellino, assecondando convinzioni che vengono tramandate da secoli: “Mio nonno dice che si può imparare com’è fatto un orologio smontandone uno o addirittura che è possibile imparare come costruire una casa buttandone giù un’altra”. È una fatica e una sofferenza, la pietra angolare è un miraggio, però è un impiego onesto che garantisce una posizione precisa per tutti, una posizione, oltre al sostentamento quotidiano. È un particolare da non non trascurare perché la maggioranza delle scene della pièce di Cormac McCarthy avvengono attorno al tavolo della cucina, il più delle volte imbandito per la colazione. È lì che Ben colleziona drammi: prima la scomparsa di Soldier, figlio della sorella Carlotta, poi il suicidio del padre, Big Ben, e la morte del nonno Papaw in una cupa dissoluzione che non risparmia nulla ai Belfair. Forse “il mestiere” non è sufficiente di fronte alle pesanti svolte della vita, forse non basta nemmeno a difendersi: ancora una volta Cormac McCarthy mette i suoi personaggi nelle condizioni di decidere, con limitate alternative, dovute (anche) al colore della pelle. Le frasi sono incise non meno della roccia, mentre la convinzione della famiglia Belfair viene sgretolata. Un passaggio descrive la perfida prosopopea razzista, come raramente è successo. A Louisville, Kentucky, arriva il circo e tutti i bambini hanno sentito che ci saranno le scimmie per cui si avventano nel baracchino delle bibite per chiedere dove andare a trovarle e la risposta è questa: “L’uomo ha abbassato gli occhi su tutti noi, bambinetti neri scalzi e cenciosi come una ceppa piena di ragni ballerini, e ha detto: Se non sapevate tornare indietro, perché siete usciti?”. Nei cinque atti, che purtroppo non hanno avuto molta fortuna (capita anche ai migliori), Cormac McCarthy è nello stesso tempo dentro e fuori la rappresentazione e il doppio di Ben gli consente di affrontare una curva nella storia, che va considerata come una prospettiva aggiuntiva, un’angolatura che permette di vedere la disintegrazione della famiglia Belfair in tutte le sue proiezioni. Nell’idea dello scalpellino di tirare fuori dalla pietra qualcosa che esiste già, si riflette l’impegno dello scrittore nell’inseguire forme che devono essere scoperte, non costruite. C’è una bella differenza. Lo si percepisce nel tono tranchant di Cormac McCarthy, nella disposizione delle sequenze (“L’intento, come vedremo, è quello di porre a distanza gli eventi e collocarli in un passato compiuto”) nell’interazione di Ben con il suo doppelgänger, che apre un altro spiraglio: “Pensare è cosa rara in tutti gli strati sociali. Ma un manovale che pensa, be’, sembra più verosimile che il suo pensiero sia temperato dall’umanità. È più propenso alla tolleranza. Sa che nella vita quello che importa è la vita”. Il taglio è drastico (siamo nei dintorni di Meridiano di sangue) e, a riprova, è sufficiente il punto di vista di Mama, che non sbaglia mai: “Se vuoi puoi farti il tuo piano e recitartelo tra le macerie”. Ecco, il mood che avvolge Il tagliapietre è proprio questo: niente sconti, nessuna concessione, solo parole come sassi.

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