mercoledì 29 gennaio 2025

Joan Didion

Senza dubbio una delle voci più rappresentative della letteratura americana, Joan Didion è riletta attraverso le Ultime interviste, che in realtà vanno dal 1972 al 2021, campionando un arco di tempo significativo, e non soltanto uno scorcio finale come il titolo lascerebbe credere. Interlocutrice acuta e sensibile, negli incontri prende forma un dialogo ininterrotto: ogni  colloquio una tappa diversa, tutti pieni di schermaglie. Joan Didion è un’ospite affabile, ma tagliente, che non perde mai di vista l’aspetto centrale del confronto, consapevole che “la persona reale diventa il ruolo che ci si è creati”. Lei ha un compito, per non dire una missione perché “il narratore non può raccontarti solo una storia, qualcosa che è successo, per mero intrattenimento. Il narratore deve raccontartela con un motivo” e in filigrana domande e risposte formano anche una specie di manuale di istruzioni riassuntivo per inoltrarsi nella sua biografia e per avvicinarsi al suo lavoro, che poi coincide con la scrittura. Per Joan Didion è soprattutto elaborazione e lo dichiara apertamente: “Per cui se vogliamo capire ciò che pensiamo, dobbiamo lavorarci sopra e scriverne. E l’unico modo di lavorarci, per me, è scriverne”. Oltre all’attenzione al rapporto tra pensiero e scrittura che è una costante, altri temi ricorrenti sono il legame con la California e New York, più avanti il racconto della perdita del marito e della figlia, nonché il suo viaggio in Salvador. In quel frangente dirà, con Sara Davidson: “Non ho mai creduto che le risposte ai problemi umani si trovassero in qualcosa che si potesse definire politico. Pensavo che le risposte se c’erano, si trovassero da qualche parte nell’animo umano”. Il ritorno alle riflessioni sulla scrittura è continuo e assiduo e Joan Didion ci tiene a ribadire: “Non elaboro nulla finché non l’ho scritto”. Se la gestazione dei romanzi, del tempo, delle idee e delle routine sono argomenti su cui si spende con generosità, non mancano chiarimenti sulle sue principali influenze: Hemingway (“Ho capito molto sul funzionamento delle frasi. Come funziona una frase breve all’interno di un paragrafo, e come funziona una frase lunga. La posizione delle virgole. L’importanza di ogni parola”), Conrad (“Le frasi avevano un suono meraviglioso. Ricordo di essermi esaltata molto scoprendo che le frasi più importanti di Cuore di tenebra erano fra parentesi”), James (“È stato importante perché mi ha fatto capire che è impossibile fare la cosa giusta”) nonché quelli avversi (“Non ho mai letto Ragtime. L’ho aperto e mi sono accorta che aveva un ritmo molto pronunciato; quindi, l’ho messo via come un serpente”). È un aspetto su cui ritorna spesso e che la porta a concludere così: “Immagino che tutti i romanzi siano sogni di ciò che potrebbe accadere, o di cosa non vogliamo che accada. Quando ci si lavora, ci si muove come in un sogno. Per cui, in una certa misura, ovviamente, a popolare i tuoi sogni sono sempre gli stessi personaggi”. Alla fine “uno scrittore cerca di trovare la storia” e lei si confida con Dave Eggers: “Mi sembra di non aver fatto tutto nel modo giusto, di poter fare meglio, cose del genere. Dal punto di vista lavorativo, non mi sembra mai di aver fatto le cose per bene. Vorrei sempre averle fatte diversamente, meglio, in modo diverso”. D’altra parte c’è una considerazione più generale che è complementare e altrettanto efficace: “Mi sorprendo sempre di quanto semplici siano le cose che mi rendono felice. Sono felice ogni sera quando passo accanto alle finestre ed esce la stella della sera. Una stella, ovviamente, non è una cosa semplice, ma mi rende felice. Resto a guardarla a lungo. Sono sempre felice, davvero”. Le Ultime interviste sono parte di un lascito che definisce la scrittrice e la scrittura ed è facile essere d’accordo con Patricia Lockwood quando dice che “indizi grandi come una casa ci dicono che siamo di fronte a un soggetto fuori dall’ordinario”. Si era capito.

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