Nell’anno del pensiero magico Joan Didion si trova ad affrontare due prove (il termine è al minimo sindacale della comprensione e molto di più non si può) tali da annientare chiunque. Nella realtà, e non nella fiction, nel giro di pochi giorni vede prima ammalarsi la figlia in modo grave e poi, all’improvviso, le muore il marito. Uno tsunami che travolge tutto, che impone e dispone nuovi schemi vitali, che lascia un margine, se lo lascia, giusto per aggrapparsi all’istinto di sopravvivenza. Fino ad accorgersi dell’ineluttabile: “Siamo essere umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto”. La risposta di Joan Didion è una minuziosa, millimetrica, ossessionante ricostruzione in funzione del mandato “leggi, impara, datti da fare, informati. Essere informati significa non perdere il controllo” e nel tentativo di rimanere in equilibrio attraverso il “pensiero magico” della scrittura, dell’immaginazione, della memoria. Più che un romanzo, peraltro estremo e lancinante, L’anno del pensiero magico è una preghiera, un complicato rituale d’addio, una marea che si ritrae svelando i danni e quello che resta in piedi. Non è un esorcismo contro il dolore o per comprendere quello che non si può comprendere, ma è il tentativo (rimasto tale) di assorbire nella scrittura la prepotenza della vita e della morte. Uno sforzo in gran parte istintivo e fin troppo razionale, senza dubbio encomiabile, lirico nella sua essenza, che però scorrendo “questi frammenti con cui ho puntellato le mie rovine” come li chiama Joan Didion citando Delmore Schwartz lascia una sensazione di amarezza, come se qualcosa fosse rimasto incompiuto. C’è qualcosa di imbarazzante quando un’artista apre in modo così plateale le porte della sua casa, della sua vita. E’ come trovarsela davanti nuda, in lacrime o mentre impazzisce compilando la dichiarazione dei redditi. Ci vuole un coragggio superiore per fissare un “pensiero magico” per sempre: lascia attoniti perché per quanto sia raffinata, superba, evoluta e cristallina la scrittura di Joan Didion è difficile, se non impossibile, partecipare. Il pesante elemento autobiografico c’entra (eccome), ma è lo stringersi alla scrittura, quasi fosse l’ultima risorsa che lascia attoniti anche perché il tono è livido come una resa. Davanti a quello che Joan Didion chiama “il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato”, L’anno del pensiero magico diventa una forma di ricostruzione, più che di creazione, un diario giorno per giorno, parola per parola, nel tentativo di fissare (se non fermare) il tempo che, per dirla ancora con Delmore Schwartz, è la scuola dove impariamo, il fuoco nel quale bruciamo”. Non c’è scampo, nemmeno con un “pensiero magico”.
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