Nella geografia americana l’Alaska è un luogo in gran parte imponderabile e che suscita sentimenti contrastanti. Troppo selvaggio per incontrare un mondo basato su un altro ordine di idee o per dirla con Marv Pushkin, il protagonista di Missione in Alaska, “chi lo vuole, un panorama, quando ci sono gli effetti speciali?”, e non è una domanda retorica. D’altro canto l’Alaska è anche un territorio di conquista per via dei giacimenti petroliferi e costituisce una sorta di ultima frontiera americana. I due elementi, l’aspetto della wilderness e lo sfruttamento delle risorse naturali, sono sottintesi nel romanzo di Mykle Hansen e non sono i presupposti della Missione in Alaska, ma rimangono sempre sullo sfondo del delirio, tutto umano, interpretato da Marv Pushkin. Il fulcro della Missione in Alaska è lui: “condottiero aziendale”, arricchito e arrogante, con una moglie ormai consumata e un’amante devota e giuliva, più SUV delle dimensioni di un carro armato decide di portare tutta la Divisione Immagine in vacanza tra abeti e ghiaccio, uno di quei viaggi senza senso a cui vengono incollati significati ancora più idioti come lo spirito di squadra. Per Marv Pushkin, la Missione in Alaska ha ben altro fine. A lui non importa nulla dei suoi collaboratori, se non che rimangano sottoposti e umiliati per sempre, perché la carriera è sua e soltanto sua. Non gli importa nulla della wilderness, anzi è convinto che “la natura è una spina nel fianco dell’umanità. Il tempo della natura è ormai passato, e io la odio, questa natura del cazzo”. Lo scopo della trasferta è l’eliminazione della moglie, per giungere all’eredità, attraverso uno stratagemma che prevede la complicità degli orsi che, con una qualche ragione, ritengono che l’Alaska sia ancora casa loro. Il principale difetto del piano di Marv Pushkin è considerare troppo umani gli orsi, cioè considerarli prevedibili e scontati. Poi c’è un aspetto relativo, ma comunque non trascurabile e riguarda proprio il “condottiero aziendale” che, imbottito di psicofarmaci e di adrenalina e di se stesso, si ritrova fuori luogo, impacciato e disastroso. Lontano dalle comodità, privato delle sue leve di potere Marv Pushkin finisce vittima del suo stesso complotto, con una gamma di prospettive che vanno dal ridicolo al drammatico senza soluzione di continuità. L’aspetto più interessante di Missione in Alaska è proprio il tono caustico e corrosivo di Mykle Hansen, che sceglie di far parlare in prima persona Marv Pushkin, regalandogli tutte le responsabilità. Anche se la logica degli eventi è da fumetto o da film di serie b, Missione in Alaska allinea una bella serie di scene allucinanti (compreso il lungo ed eloquente finale) in cui la dimensione della realtà si sovrappone alle elucubrazioni di Marv Pushkin, ai suoi sogni e, non ultimo, al suo delirio e Mykle Hansen è abbastanza abile da tirare dritto con la sua stramba e acidissima storia che, nonostante un sacco di alti e bassi, si regge sulle sue gambe (e non è una battuta).
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