Per sopravvivere in un mondo spietato, ci vogliono “sogni fatti di ferro e acciaio”, quelli a cui Dylan ha dedicato una vita intera, raccontata ancora una volta in Mixing Up The Medicine. In un modo un po’ diverso: l’introduzione per sommi capi di Sean Wilentz, che elenca sintomi e postumi della dylanite acuta, lo considera “una sorta di biografia alla rovescia”. Non è ben chiaro cosa voglia dire, se non assecondare la direzione indicata da Dylan in No Direction Home: “Gli artisti non devono mai ritrovarsi a un punto in cui pensano di essere arrivati da qualche parte... Bisogna rendersi conto di essere continuamente in divenire, e finché si riesce ad abitare quello spazio, in un certo senso si starà bene”. Gli archivi dylaniani di Tulsa da cui ha preso forma Mixing Up The Medicine costituiscono un elemento da affrontare con cura perché il processo di scrittura, di composizione non si ferma (come sappiamo) alla canzone più o meno conclusa, ma segue tutta un’evoluzione senza sosta, come evidenzia la poetessa nativa Joy Harjo: “Nel corso degli anni, è capitato spesso che Dylan, suonando e registrando la canzone, cambiasse le strofe, aggiungendo e sottraendo elementi. Ammiro questo tipo di approccio, perché riflette il cambiamento costante delle storie. Cambia il modo in cui le raccontiamo, in cui le viviamo, mentre ci muoviamo nel tempo e nella storia”. Take dopo take, taccuino dopo taccuino, è una metamorfosi continua perché la sua tensione è proprio quella che cantava in Tombstone Blues: “Vorrei poterti scrivere una canzone tanto pura, che ti impedisca di impazzire”. Una bella missione. La ricchezza delle esplorazioni dylaniane è ben documentata e il tono dei due curatori è sempre molto attento e adatto a collegare le numerose testimonianze. Al loro testo, adatto agli esegeti come ai neofiti, vanno sommati i contributi di artisti e appassionati assortiti (John Doe, Richard Hell, Tony Glover, Mike Campbell, Jeff Slate, Greil Marcus, Tom Piazza, Amanda Petrusich) che, proprio a partire dalle canzoni, conducono dentro una generosa offerta che secondo Michael Ondaatje è “piena di spettacolari possibilità”. La più importante è poter osservare l’infinito work in progress dylaniano da vicino, come scrive Lucy Sante: “Lo vediamo in auto, nei bar, negli aeroporti e nelle stazioni di servizio, nei portici e nei salotti, magari con gli occhiali da sole, mentre fuma sigarette, incontra persone interessanti, ascolta la radio in auto o in cucina, libera parole e frasi dall’accumulo del suo subconscio e le lascia volare, finché queste non completano il loro migrare e tornano a casa. È bello come guardare un film”. La sensazione cinematica in effetti è costante: le immagini di Dylan si susseguono e dall’archivio di Tulsa erompe un’iconografia altrettanto florida delle parole. L’idea di un “artista visivo” rispecchia in modo adeguato una storia lunga mezzo secolo perché le mutazioni dylaniane vengono osservate attraverso gli “oggetti” che sono importanti, come scrive Lee Ranaldo, e i ritratti, non a caso i fotografi accreditati sono almeno il doppio degli scrittori. Un’esperienza multiforme, tra Nobel e Oscar, tour e dischi: la musica ti viene incontro con un senso di movimento mentre stai solo leggendo un libro (enorme). Ed è così che Mixing Up The Medicine rispecchia quello che sostiene uno ben informato, Terry Gans, ovvero che “non esiste un Sacro Graal che sveli il mistero di Bob Dylan”. Giusto. Ci sono intere moltitudini di prospettive e quella strana sensazione, riportata alla perfezione da Allison Moorer: “Non sapevamo di averne bisogno finché non ci è stato dato, finché non l’abbiamo ricevuto”. Tra le tante annotazioni firmate poteva starcene una molto interessante di Mary Shelley, peraltro citata in più di un passaggio. L’autrice di Frankenstein diceva che “lo ieri dell’uomo non può mai essere come il suo domani; non v’è niente che duri, tranne la mutevolezza” e lì si capisce come Mixing Up The Medicine diventi il riassunto definitivo di Dylan (forse).
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