martedì 31 dicembre 2024

Stephen Markley

Incendi a Los Angeles, alluvioni a New York, l’acqua alta a Venezia, Washington sotto assedio: in un mondo governato dagli algoritmi, occupato dalle realtà virtuali, popolato di ologrammi e macchine che si guidano da sole,  e su cui incombe la minaccia del riscaldamento globale e degli effetti sul clima, dagli uragani alle tempeste di sabbia, un manipolo di personaggi affronta quello che, in prima istanza, appare come “l’ennesimo spasmo di un’infinita saga americana”. Come molecole in cerca di definizione, i protagonisti di Diluvio sono tanti e tutti annodati da percorsi collaterali che si incrociano e convergono, in un arco temporale che va dal 2017 al 2040, quindi con un piede nel passato prossimo e la testa in un futuro, non molto diverso dalla realtà del presente. I cataclismi più o meno naturali e i sommovimenti disumani trovano continue corrispondenze nello sviluppo delle personalità che, in un modo o nell’altro, sono condannate ad affrontare il pantano della politica e dei mass media nella declinazione digitale, un universo informe in cui “ormai è difficile dire cosa è legale e cosa no”. Fin qui ci siamo, ed è chiara l’intenzione di raccontare “la natura effimera del potere” e, come conseguenza diretta e indiretta, “la fragilità delle cose che sembrano così solide e  permanenti”, così come è altrettanto evidente che, nella biblica evoluzione di Diluvio (1293 pagine, per la precisione), la responsabilità del caos alla fine va cercata nei palazzi più che nelle “transizioni di fase degli idrati di metano”, e in altre sorprese bio e tecno, che hanno comunque un loro peso. Per dire, a partire dall’incipit, il linguaggio scientifico è soltanto una delle tante e variegate forme di scrittura che formano Diluvio, insieme a quella del giornalismo, delle istituzioni, all’interno di dialoghi diretti e indiretti, senza soluzione di continuità. Un’apocalisse in arrivo e uno tsunami di parole, che senza dubbio Stephen Markley sa organizzare e distribuire in modo compiuto e coinvolgente, ricostruendo con perizia contesti molto diversi, dalle paranoie delle milizie alle burocrazie dei governi, dai sermoni radiofonici fino alle dinamiche famigliari. Succede di tutto in Diluvio, ma, un po’ come già capitava in Ohio e qui proiettato all’ennesima potenza, c’è qualcosa che non va. All’inizio, si tratta soltanto di qualche nota falsa (ce ne saranno parecchie), più di una ripetizione e la sensazione che la trama si sia stata dilatata a dismisura senza averne la necessità. Poi, mentre i personaggi vanno e vengono, amano e tradiscono, uccidono e muoiono, ma sempre con le stesse dinamiche come se fossero incastrati in una catena di montaggio, Diluvio appare per quello che è: una sorta di specchio deformante, che attinge alla cronaca e la proietta altrove con una sua specifica urgenza. In questo è coerente con quello che succede nel suo svolgimento, dove si sostiene che “il paradosso centrale di ogni crisi è che ciò che sembra ingiusto o scorretto spesso è proprio ciò che serve per sconfiggere la crisi”.  Vale per lo stesso romanzo, che moltiplica gli sforzi nel tentativo di delineare una narrazione complessiva e riesce soltanto ad accostare tanti frammenti senza che affiori un quadro intellegibile. Cosa c’è in Diluvio che non sappiamo e che non ci venga bombardato addosso tutti i giorni? L’elenco dei danni compiuti e dei capovolgimenti di fronte è all’ordine del giorno e non è ben chiaro cosa voglia dire Stephen Markley, se non aggiungersi a tutte le sensibili e meritevoli sentinelle che ormai da un bel po’ di tempo hanno suonato l’allarme. È giusto così, ma nella sua prolissità, Diluvio è l’equivalente letterario di un film catastrofico in voga qualche anno fa: rombi e boati, colpi di scena e salti mortali, baci, abbracci e addii, finché non emerge una vaga sensazione di noia. 

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