mercoledì 26 gennaio 2011

Anne Michaels


Forse le immagini nelle prime pagine di In fuga nascondono qualche significato metaforico: un bambino emerge dal fango di un’antica città polacca, ma l’archeologia non c’entra niente. Il bambino si è nascosto nella terra per sfuggire alla furia della persecuzione nazista, che ha sterminato l’intera sua famiglia. C’è già tutto quello che bisogna sapere in questi primi passi: è come se fosse una seconda nascita, certo non una resurrezione, ma proprio un tentativo di venire al mondo di nuovo, ancora innocente. Il problema è che non si può dimenticare che “l’ombra del passato è formata da tutto quello che non è mai successo. Invisibile, squaglia il presente come la pioggia con il calcare. Una biografia di desiderio e della nostalgia. Ci guida come un campo magnetico, una forza che torce lo spirito”. Il bambino si chiama Jakob Beer e diventerà poeta e traduttore grazie all’assistenza di Athos Roussos, geologo e filosofo che lo condurrà con sé prima in Grecia e poi in Canada. E’ il “maestro migliore”, come scrive Anne Michaels, “quello che insegna la dedizione del cuore, e non della mente”. Il suo sforzo per educare il piccolo salvato dal fango e dall’odio nazista sarà quello di restituirgli l’amore per la vita, e nello stesso tempo di aiutarlo a non dimenticare perché “la memoria umana è codificata nelle correnti d’aria e in ciò che sedimenta sul fondo dei fiumi. I fiocchi di cenere attendono di essere raccolti, le vite di essere ricostruite”. Non è tutto qui, perché Jakob Beer lascerà tracce fortissime della sua esistenza e altri le seguiranno, cercando di non lasciarsi inghiottire dal “pozzo avvelenato” della storia, “l’istante graduale” che fornisce soltanto un lungo elenco di defunti, “il libro dei morti, tenuto dagli amministratori dei campi”. Costretto dall’esilio a ricostruire i suoi ricordi, a viverli all’infinito e a cantare “vecchie canzoni”, Jakob Beer vede in modo nitido, scolpita nelle frasi, l’abissale differenza tra storia e memoria e, quasi come un monito, si accorge che “non è il passato sconosciuto che siamo condannati a ripetere, ma quello che conosciamo. Ogni evento registrato è un mattone di potenziale, di precedente, scagliato contro il futuro. Alla fine l’idea colpisce qualcuno alla nuca”. La memoria, dunque, “sono i Memorbucher, i nomi di quelli che bisogna piangere, letti a voce alta nella sinagoga”, l’unico modo per restare uniti, almeno nel suono di parole condivise. La fuga di Jakob Beer non ha fine, anche perché “il tempo è una guida cieca” ma la storia, la sua storia, va vista, ovvero letta per intero: Ann Michaels ha il privilegio di una scrittura florida e insieme misuratissima e lirica, che non lascia dubbi sul suo talento e sulle sue intenzioni. Un modo di narrare che costringe, con grazia, a riflettere, a cogliere tra le righe qualcosa in più di un bel romanzo: In fuga appartiene infatti a quella terra incognita dove poesia e testimonianza riescono a colmare il silenzio di chi potrebbe ancora perdonare, ma non può più parlare.

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