lunedì 3 gennaio 2011

Joe Bageant

Raccontare una nazione retta da un’economia che “consiste nel far circolare 250 milioni di veicoli fra i sobborghi residenziali e i centri commerciali e nel mangiare pollo fritto” è un’impresa più impossibile che complicata, già soltanto da un punto di vista peculiare, per quanto strategico. Joe Bageant, veterano di mille battaglie giornalistiche che ha scoperto il mondo della rete, ha scelto di cominciare da quel luogo comune che è la provincia o meglio, per usare un termine che ben conosciamo, quell’“heartland, cioè l’America profonda, cioè tutto quello che sta tra una grande città e l’altra”. Nello specifico, il suo è un ritorno a casa perché è da lì che proviene, da Winchester, Virginia, uno dei tanti avamposti dove vivono quegli “americani semplici, separati dal resto del mondo dalla certezza che è meglio essere americani piuttosto che qualsiasi altra cosa, anche se in realtà non siamo in grado di dimostrare perché”. Joe Bageant, Joey per gli amici e i parenti, è uno di loro benché in gioventù abbia abbracciato Allen Ginsberg, l’LSD, il rock’n’roll e qualche altro piccolo sogno. Torna nella sua hometown non per nostalgia o per la famiglia: per spiegare che “se si vuole prestare fede alla leggenda nazionale, tutti questi lavoratori senza nome in competizione fra loro rappresentano una sorta di grande classe media americana. Ma la verità è che siamo un paese di proletari”. Di poveri, detto in parole più consone al tenore usato da Joe Bageat visto che La Bibbia e il fucile è scritto in modo crudo, sciatto come il gergo, il linguaggio white trash che ha dovuto affrontare seduto ai tavoli del Royal Lunch, nome altisonante per la birreria locale che ha scelto come base di partenza. Lo storytelling, persino le chiacchiere a un passo dalla sbronza, diventano uno strumento d’inchiesta giornalistica e producono un un libro scomodo e coraggioso, che scoperchia realtà inquietanti. La distanza tra l’heartland e la classe dirigente, per snobismo da una parte, per interesse dall’altra, è soltanto un aspetto, nemmeno il più rilevante. La cultura delle armi (“Il diritto di possedere armi per loro è sinonimo di libertà”) narrata in La valle del fucile, un capitolo illuminante e spiazzante, quella dei consumi (e dei relativi debiti) o ancora il propagarsi del fondamentalismo religiosio hanno ruoli decisivi nel definire le apocalittiche condizioni dell’heartland, però Joe Bageant, una birra dopo l’altra e conversazione dopo conversazione si accorge che la sua gente “non cita fatti reali. Recita quello che assimila dall’atmosfera”. Alla Bibbia e il fucile, due simboli che sintetizzano la “militarizzazione” della cultura americana va aggiunta la televisione, “tutta questa fantasmagoria frenetica, sfavillante e digitale” che ha intrappolato la repubblica in un ologramma tanto che “gli americani, ricchi o poveri, ormai vivono in una cultura intessuta esclusivamente di illusioni”. Il prezzo da pagare non si è ancora rilevato per intero, anche se tra guerre infinite, crisi economiche e disastri ambientali non è difficile immaginare chi paghi il conto dell’american dream in chiave di assistenza, istruzione, sicurezza e, più in generale, convivenza civile: più che di America “profonda” si dovrebbe parlare di America “sprofondata”. 

Nessun commento:

Posta un commento